27 mag 2011

su Massimo Donà

http://www.lankelot.eu/letteratura/donà-massimo-abitare-la-soglia-cinema-e-filosofia.html#comment-66519

ABITARE LA SOGLIA - CINEMA E FILOSOFIA



Non so cosa pensi della musica come esperienza, Massimo Donà, filosofo per così dire eccentrico, non foss’altro perché oltre a scrivere libri densi dal punto di vista del linguaggio e del pensiero (altrimenti che filosofo sarebbe?) è musicista professionista – trombettista jazz,  per la precisione (ha collaborato con Enrico Rava e Dizzy Gillespie, tanto per chiarire eventuali dubbi). Ha scritto una Filosofia della musica che mi spiace di non aver letto, a questo punto. Perché attraversare come fa lui musica, filosofia e cinema, con indubbia disposizione “alta” e pratica “viva” insieme, mi pare cosa rimarchevole.
ABITARE LA SOGLIA – Cinema e filosofia è il titolo del bel libro uscito da poco per Mimesis Edizioni. Direi che quando ci si pone davanti all’oggetto d’indagine in maniera così soggettivamente implicata, quel che conta non è una filosofia come sistema di risposte alle domande che lo stesso esercizio di pensare con metodo potrebbe imporre: sono le domande stesse a risultare interessanti. Qui vengono formulate nel cuore di una ragione che mi pare investire il corpo, inteso come totalità psico-fisica dell’uomo - segnatamente, dello spettatore cinematografico (a prescindere dalle sue possibilità culturali, dal suo immaginario, dalle sue aspettative estetiche). Meglio: di un qualsiasi spettatore all’interno di una qualsiasi esperienza filmica (a prescindere dalla sua segnaletica storico-stilistico-espressiva, mi par di capire, purché dignitosa: e questa potrebbe essere una delle aporie del libro).
Convinzione di Donà – autore fra le altre cose qualche anno fa di una “Filosofia del vino” - insomma è che del cinema si possa parlare (almeno, è quello che egli fa in questo lavoro) più che come categoria estetica in sé, in quanto luogo e momento di un’esperienza che mette in gioco tutto di noi in quello spazio-tempo transitorio della visione che ci porta in un altrove niente affatto evasivo ma pregno di senso (filosofico). Senso tuttavia paradossale: in quanto  rivelazione del ni-ente che è oltre il reale, ciò che potremmo dire dell’omerico canto delle sirene.
Una fenomenologia del guardare cinema, in cui sembra centrale la nozione di  “spossessamento”. Ciò di cui parla Donà, ciò in cui si trasforma la nostra vita per quell’ora o due di visione del film, non è dunque qualcosa che riguardi il filosofo, ma l’uomo comune (ammesso che a sua volta l’espressione significhi qualcosa: com’è noto, appunto, entrare in un discorso filosofico significa aprire domande più che trovare risposte…). A ogni modo è comune a chiunque – a tutti – il fatto di non essere più “soggetti” davanti a un film: “il cinema viene vissuto”, dunque “finiamo sempre per dimenticare la nostra soggettività empirica”. Salta la distinzione Io-Mondo, quando “sei dentro” un film. Solo che, lo impariamo abbastanza presto da bambini, essere tristi al cinema non vuol dire essere “davvero” tristi, soffriamo magari ma “liberi da rischi”.
Non siamo mai veramente in pericolo, al cinema. Non siamo attaccati alle cose, al cinema, non “possediamo” niente di quello che appare sullo schermo: non v’è dualità, perché nulla può tornare “utile” e nulla ci può davvero danneggiare. Piuttosto, l’esperienza del cinema rappresenta una sorta di ritorno all’in-differenziato. Lì davvero siamo, secondo Donà, “uno, nessuno e centomila”. Il cinema appare così ai suoi occhi come l’arte più nietzscheana della modernità.  Il cinema come lo spazio-tempo in cui ognuno di noi fa esperienza del non-finito, in cui “vive” una specie di godimento che è libertà dalla nostra finitezza. Che è difficile non definirla esperienza non filosofica, non vi pare? Un pharmakon, per Donà, che non ha paragoni nella vita dell'uomo contemporaneo. 

Cerca nel blog