25 mar 2012

alan bennett - leggerezza vs inconsistenza

Questa commedia del meraviglioso Alan Bennett vi divertirà parlando di cose serissime, di storia e di verità per esempio. Gli studenti di storia è datata 2004 ma è stata tradotta soltanto ora da AdelphiBennett fa ridere, lo sappiamo, come pochi. In Italia di scrittori così non ce ne sono.Mah, qualcuno passa per esserlo, divertente, ma vola basso rasoterra, dimentico dell’avvertenza di Valéry, per il quale “Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume”: allora sentono subito odore di intellettualismo e preferiscono costeggiare la buona sana ignoranza che assicura qualche copia venduta in più e il plauso degli utili idioti messi a firmare la cosiddetta critica letteraria di giornali noiosi e facoltosi. 
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19 mar 2012

Raro Video . Greetings De Palma


La prima cosa che ti vien fatto di pensare se ti metti a riguardare Greetings (Ciao America nella versione italiana) di Brian De Palma, a parte il décor anni Sessanta quasi esasperato, è il senso di notevole libertà della narrazione. Non solo perché le storie che lo compongono offrono lo spettacolo di una disinvolta insofferenza per le ragioni commerciali o puramente tradizionali dell’intreccio, della suspense, del romanzare ben congegnato, ma la capacità, invero tutta registica, di muoversi attraverso stili differenti – in questo e non solo dando ragione alla pretesa del De Palma d’antan di definirsi il Godard americano.
E direi che in effetti nonostante gli omaggi anche espliciti a Truffaut, è all’autore di À bout de souffleche maggiormente guarda De Palma. In uno scenario americano che spazia dalle strade aperte e colorate degli anni Sessanta agli interni fintamente ingenui e semplici, poveri, in realtà ipercerebrali tipici di certa nouvelle vague, dalla luce insieme sgranata e livida, discretamente espressionistica, il regista di Carlito’s WayBlow Out e qualche decina di altri film comunque molto diversi da Greetings, disegna geometrie sbilenche, oblique della gioventù americana che rifiuta la missione fintamente democratica in realtà fin troppo autoritaria dell’America di quegli anni.
Il film racconta di tre amici, giovani maniacali, balordi a modo loro, ossessivi o logorroici alle prese con le distorsioni dell’american dream (un sogno in questo caso assai straniante).
Joe - Robert De Niro, bel pischello -, incline al voyeurismo cinematografico, cultore di un genere per cosi dire autoprodotto visto che si diletta a filmare donne che si spogliano davanti alle finestre; Paul (Jonathan Warden), che De Palma lascia in balia di una serie grottesca di piccole avventure nel tentativo di farsi riformare dall'esercito ed evitare così la tragedia del Vietnam (preoccupazione condivisa con gli altri personaggi); infine Lloyd (Gerrit Graham), il cui unico scopo nella vita sembra essere quello di scoprire com’è davvero andato l’affaire JFK, escludendo come fa a priori che Kennedy sia morto per le ragioni propagandate dalla versione ufficiale.
L’evidenza di un potere coercitivo ma in superficie soft, che utilizza la televisione e l’appello ai “valori” americani del suo Presidente, è raccontata in chiave dissacrante e non priva di auto-ironia. La commedia vira verso il grottesco, il dramma (a parte Lloyd che viene fatto fuori con un colpo di pistola) è sottotraccia, i movimenti di macchina presentano una varietà di soluzioni notevole (compresi gli inserti reinventati da cinema muto) che riflette la libertà informale della struttura complessiva, con qualche momento di stanchezza nei momenti più accanitamente verbigeranti, secondo temperamento maniacale di certa generazione afflitta da inquietudine elocutiva e accanimento ragionativo, anche nel cazzeggio.
Terzo lungometraggio (1968) di Brian De Palma, che avviava con questo film e il successivo Hi, Mom! l’intrapresa di un cinema statunitense autoriale assieme a Coppola e Scorsese, Greetings vinse l'Orso d'argento a Berlino. Ora è uscito in DVD per le fondamentali edizioni RaroVideo.


18 mar 2012

Intervista

Fernando Coratelli
Fernando Coratelli




In occasione dell’uscita del suo secondo libro, Quando il comunismo finì a tavola (l'editore è CaratteriMobili di Bari, avanguardia del "piccolo ma sveglio", fra narrativa, saggistica e cinema - e grafica curatissima) Fernando Coratelli ci ha gentilmente rilasciato questa intervista. Le caratteristiche del romanzo ci hanno indotto intanto a domandargli quanto coincidano il narratore-protagonista del libro e lo scrittore in carne e ossa. Non per la solita pruriginosa curiosità su eventuali tracce autobiografiche ma per il fatto che il libro inscena dei “discorsi” sul mondo, idee, insomma.
Fernando, m’interessa il punto di vista dell’autore empirico, diciamo.

All’inizio del libro, come avrai visto, c’è un’avvertenza al lettore: l’io narrante e il narratore non collimano perfettamente. Ma autore e protagonista hanno parecchi punti in comune, in particolare circa le idee e le considerazioni sul mondo e sulla sinistra. A dire il vero sono molti anche i riferimenti autobiografici, direi che se si esclude l’escamotage narrativo dell’intervista il resto è quasi tutto coincidente con la mia biografia personale. Beh, ho cambiato qualche nome e ho invertito qualche episodio, questo per dare a certe idee più vigore.

Mi par di capire che concordi sostanzialmente con l’idea che l’89 per l’Occidente sia stato una catastrofe.

Lo profetizzò a suo tempo pure Giulio Andreotti (c’è una frase che metto in esergo). L’89 è stato una catastrofe e peraltro ha chiuso in anticipo il Novecento, il secolo breve, che si era anche aperto in ritardo nel 1914 con la Grande Guerra. La caduta del Muro ha avuto un effetto domino dirompente sia sul proscenio internazionale sia su quello italiano. Basti pensare alla Guerra del Golfo del 1990 di Bush padre: l’Unione Sovietica era ancora in piedi, ma ormai si era capito che non avrebbe più fatto da contrappeso (nel bene e nel male) a un’iniziativa di guerra da parte statunitense. Anche se quella guerra fu condotta sotto l’egida dell’Onu, con tutti i crismi internazionali eccetera, fu chiaro a tutti che da quel momento la Nato avrebbe sostituito l’Onu. In Italia, invece, la caduta del Muro accelerò quel processo di americanizzazione della sinistra che portò in fretta e furia a mettere in soffitta bandiere, simboli e storia per darsi alla grande abbuffata al cui tavolo da anni mangiavano democristiani e socialisti.

L’incrocio è obbligato. Hai vissuto con un certo coinvolgimento l’ambito politico e sei uno scrittore. Quale credi che sia un contributo possibile della letteratura allo stato delle cose? Non parlo in generale, dico oggi, in Italia.

È una domanda che ho sperato tu non mi facessi. So di essere assai pessimista al riguardo. Di botto risponderei “contributo possibile – nullo”. Non so se la letteratura e l’arte in generale abbiano più potere di cambiare (se mai lo hanno avuto) le cose. Temo siano state del tutto disinnescate. Si può tentare di dare voce a chi voce non ha. Ma qui poi sorge un altro problema. Se anche la letteratura desse voce a emarginati/precari/vessati ci sarebbe poi qualcuno in ascolto? Fuor di metafora: chi legge oggi? So che non si risponde con domande a domande, ma sai io mi sento solo un narratore, pongo interrogativi cui io stesso cerco risposta.



L’io narrante del tuo libro annovera fra i suoi scrittori di riferimento Brancati, Bianciardi, Pontiggia… E il primo libro di Erri De Luca. Io ho molte riserve sullo scrittore napoletano. Cos’è che attrae invece il tuo personaggio (o forse proprio Fernando Coratelli)?


Beh, Non ora, non qui è un gran romanzo, dal mio punto di vista. Stilisticamente e narrativamente. Poi sì, gli ultimi suoi romanzi/libri non hanno convinto tanto neanche me. Però io gli devo molto da un punto di vista personale e umano.


Lavori molto in rete. Tornogiovedi, che dirigi, è una bella rivista che tiene insieme scrittura, architettura, fotografia, riflessioni. Non mancano però nel libro considerazioni assai critiche sull’utilizzo della rete, facebook in primis. Fuori dai denti: pensi che serva ad altro che ad autopromuoversi?

La rete in generale è qualcosa ormai di imprescindibile. Non so cosa ci riservi il futuro dal punto di vista tecnologico, ma credo che il nuovo secolo inizi proprio lì dove il vecchio finiva, a cavallo tra l’89 e il 1993 – fra la caduta del Muro e l’arrivo di Internet. Detto questo, Facebook è sì un ottimo strumento di autopromozione (ma anche di promozione in generale), una buona agorà in cui dire qualcosa senza uscire di casa. Ma poco altro. Come Twitter, del resto. Io non credo troppo all’informazione dal basso, spesso è più falsata e mediata di quella dall’alto – soffrono le stesse psicosi goebbeliane. Se io ora andassi sul mio profilo Facebook o Twitter e scrivessi che “x” è un corrotto o “y” è stato arrestato, non vuoi che fra i miei mille e più contatti ci sia almeno uno che senza documentarsi rimbalza la notizia e a cascata essa si sparge per la rete? Casi simili sono già accaduti peraltro. No, non credo che i social network possano evitare di sporcarsi le mani di falsità e storture come i media canonici.


Mi pare che nel tuo futuro di scrittore sia alle viste un romanzo con un editore romano. Un’ anticipazione?

Sì, nel 2013 uscirà un mio nuovo romanzo per Gaffi editore. È però di tutt’altra pasta rispetto a questo. È un romanzo corale, in terza persona, piuttosto corposo con un plot consistente, in cui analizzo l’accidia, l’individualismo e la confusione dell’Occidente.


15 mar 2012

Erik Larson



Il giardino delle bestie

Neri Pozza


copertina del libro
Romanzo misurato ma appassionante,Il giardino delle bestie (l’editore è il vicentino Neri Pozza, la traduzione di Raffaella Vitangeli) dello scrittore e giornalista americano Erk Larson, che ricostruisce la storia del diplomatico americano William E. Dodd, inviato nel 1934 da Franklin Delano Roosvelt nella città in cui in quegli anni si stava letteralmente scrivendo e preparando una delle pagine più incredibili e orrifiche della storia umana – la splendida Berlino, ricolma di vessilli nazisti, bianco rosso e nero, triade sinistra che si staglia sul grigio diffuso che siamo abituati a percepire dai filmati dell’epoca e che mai come in questo caso ci sembra erroneamente necessario. Pare che l’industria del cinema americano si sia già mossa per fare del romanzo una trasposizione filmica di quelle da grande pubblico. Gli ingredienti ci sono (eccezion fatta per la scrittura temperata e attenta laddove notoriamente il cinema pesca bene da storie dal discreto potenziale narrativo ma scritte da cani) a partire dallo sfondo storico-geografico appunto. L’idea poi della “storia vera” per Hollywood è un ovvio elemento di attrazione. Peraltro l’autore ci tiene a definire il suo libro come un’opera di “non-fiction”: il virgolettato di ogni pagina non è di sua invenzione ma riportato da documenti, lettere, testimonianze etc.Fortunatamente, si tratta di un’ottima lettura per tutt’altri motivi, intrinseci alla bravura dell’autore. Che racconta di William Dodd, in principio uno storico, professore all’università di Chicago e dell’incarico che riceva di finire a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. L’affare lo sorprende, anche perché non gli risulta di avere santi nel paradiso dell’America che conta. In fondo non è che uno studioso che ha imparato il tedesco molti anni prima in un nemmeno troppo lungo soggiorno a Lipsia. Non pare particolarmente ambizioso se non nella sua professione, inadatto alla diplomazia e alla politica (ossia alla mondanità e alla fabbricazione di intrighi). Ma la sua ritrosia e discrezione nonché l’orientamento politico-culturale diremmo oggi progressista sembrano un ovvio anche se non determinatissimo contraltare alla furia nazista con cui dovrà fare i conti.Così, nel fasto cupo dei ricevimenti e delle feste dell’élite tedesca, Dodd si muove con educata parsimonia – financo eccessiva. Non che non veda l’escalation di esplosioni di violenza sempre più assurde. Le notizie sul regime che gli americani come tutti tendevano a sottovalutare, un po’ alla volta prendono sotto gli occhi del diplomatico la consistenza invincibile di fatti nudi e crudi, al punto che il Tiergarten - il più grande parco di Berlino, il centro di una vita urbana spettacolare - perderà ogni attrattiva per trasformarsi nella gigantesca sineddoche di una mostruosità: un giardino delle bestie, appunto. Abitato da “un’orda criminale di vigliacchi” scrive in una lettera il protagonista.La vera complicazione narrativa da cui muove la storia, assieme al passaggio tragico della cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” che dà una sterzata irrimediabile al clima del regime e al rapporto fra la Germania e gli americani, è un personaggio molto diverso dal diplomatico, la figlia Martha, ventiquattrenne un po’ troppo sensibile alle faccende d’amore. E a una certa idea del bello tanto perigliosa quanto superficiale. Lei subisce il fascino di una città che aspira in quegli anni a diventare “la capitale del mondo”. E degli uomini che la abitano. I peggiori. Che sfileranno davanti al lettore attraverso uno sguardo che riesce nell’impresa non scontata di rinnovare l’interesse verso un’epoca e un mondo che la letteratura e il cinema non smettono di saccheggiare. 

Intervista dell'orco Ronci su L'Indice del mese

10 mar 2012

Spioni e comunisti (oddio, ancora?)


dal paradiso

dal paradiso



Copertina
L’eccessiva irrequietezza e sensibilità di Vittorio Gassman ne faceva un potenziale sovversivo - e perciò un tipo da tenere d’occhio, per i celeri tutori dell’ordine democristiano. Non so se è da considerare più un titolo di merito per l’attore o un paragrafo da aggiungere alla tragicomica sostanza di cui è fatta la storia dell’Italia repubblicana.Ma c’è poco da ridere, il lavoro di Mirella Serri Sorvegliati Speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980) è condotto su materiale degli archivi di stato. Scopriamo che lo status di “intellettuale” agli occhi di celerini questurini e carabinieri convinti di salvare la patria dai cattivissimi fan della falce e martello nonché buongustai di bambini, veniva concesso con molta facilità. Veniamo così a sapere che un bel pezzo del mondo teatrale e cinematografico del dopoguerra e dei decenni successivi viene monitorato e segnalato fra una recita e l’altra. Chissà se i più giovani immaginano che la dolce e soporifera Dacia Maraini potesse inquietare le notti delle nostre “forze dell’ordine” (nominalmente democristiane, sostanzialmente fascistoidi). O che le stesse prendessero sul serio i sogni (?) rivoluzionari di Gianfranco Funari o Giampiero Mughini (sic), o l’indecidibile afflato sovversivo del sempiterno Max D’Alema o dell’altro ineffabile Claudio Petruccioli (la suina pinguedine nel suo caso è una maschera ordita dal kgb). Avete voglia di denigrare gli anni Settanta, ma chi non li ha vissuti non s’è perso solo il piombo. Uno pensa a Feltrinelli, e vabbè, sa tutto della coppia Rame –Fo, PPP va da sé e con uno come Toni Negri dico, che dovevano fare? Essere vicini al Pci non suscitava simpatia. Essere a sinistra del Pci, peggio. Ma leggere certi nomi lascia interdetti. Gente già allora di spettacolo (perplime e spalanca abissi di ilarità trovare chessò il nome di Paolo Liguori - detto “Straccio”, all’epoca in Lotta Continua poi passato per il peggio degli ultimi decenni, da Comunione e Liberazione alla servitù del pecoreccio e agonizzante signore di Arcore), questa spavalda guitteria assortita sembra eccitare i poliziotti, artefici di mattinali che ne restituiscono pari pari l’immagine di broccoloni cattivelli tuttora in auge – l’immagine dico. Ridere fanno ridere spesso, ma non di rado fanno anche male (come oggi peraltro), come quando salta la rappresentazione de Il Vicario di Rolf Hochhuth, non proprio indulgente con l’indulgenza per non dire peggio di Pio XII verso il nazismo. Gian Maria Volontè ne sa qualcosa. Le botte volano.Il fatto è che molti non sanno che negli anni Settanta bastava essere un pischello e farsi una canna immaginando di essere Robert Plant piuttosto che accamparsi sotto l’ala protettiva di un prete o di un banchiere per meritare l’attenzione di una scheda a carico. Era sufficiente per ritagliarsi quel tanto di nobiltà spirituale che spettava ai ribelli, veri o presunti (la seconda che ho detto innanzitutto e per lo più).I motivi fondamentali di tanta alacrità erano i soliti: la fobia del comunismo, la filiazione fascista degli apparati di controllo (si direbbe che Togliatti con la sua amnistia le grane se le sia cercate) la guerra fredda, il maccartismo. Tutto concorreva ad accrescere la solerzia sospettosa di un potere non solo timoroso dell’avanzata comunista ma che non sapeva nemmeno distinguere fra l’anarchismo, poniamo, il maoismo (spesso improvvisato, è risaputo), e le Botteghe Oscure tutt’altro tenere con chiunque non la pensasse come loro. 
La Serri peraltro, nella sbilanciata introduzione che apre questa peraltro interessante “microstoria” di gendarmi – e di spie infiltrate - a caccia di agitatori sediziosi e magari terroristi ne approfitta per ricordare quanto brutta fosse la figura dell’intellettuale organico, quanto ciechi fossero i suoi esemplari rispetto alla tragedia sovietica (esagerando alquanto nel sostenere che tutti stessero ancora in adorazione di Stalin - quando? negli anni Settanta? mah) e quanto l’Italia sia ancora oggi priva di una vera cultura liberale, che si direbbe ai suoi occhi la sola degna di esercitare spirito critico. Naturalmente, Paolo Mieli ci si è buttato a pesce. 

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