12 giu 2013

Giancarlo Liviano D'Arcangelo

su lankelot

INVISIBILE È LA TUA VERA PATRIA



Nella chiacchiera bolsa sullo stato delle cose in Italia, segnatamente quando si parla di lavoro, si omette di dire che il fallimento di questo tristissimo e ridanciano paese è anche di idee – si campa (si boccheggia) sulle spalle di una malintesa creatività italiana che pare più un reperto del passato che una risorsa del presente (sul futuro meglio tacere). Come se l’odierna crisi dipendesse tutta e solo da oscure, esoteriche macchinazioni finanziarie, e niente avesse da spartire con la totale assenza di un progetto - di una politica industriale, per esempio. A meno di non definire tale l’esasperata miniaturizzazione in piccole imprese che hanno tirato fino allo spasmo senza curarsi granché della innovazione, del bene pubblico, dei diritti di chi vi lavora(va). Da padroni – il caso di dire – l’hanno fatta l’improvvisazione, la pensata estemporanea, l’avventura individuale non di rado cialtronesca.
Nella storia – tutt’altro che giornalistica - di questo fallimento consiste parte del libro dello scrittore pugliese Giancarlo Liviano D’Arcangelo "Invisibile e' la tua vera patria" (l’editore è Il Saggiatore), bel viaggio nel paese (che fu) da nord a sud: una ricognizione dell’Italia industriale del ‘900, dei suoi luoghi fisici e della vera vita che vi ha preso corpo: economia, società e immaginario persino. Raffinerie, miniere, architetture industriali a volte maestose che dopo aver fatto deflagrare il paesaggio e averlo consumato fino all’ultima pietra hanno lasciato solo rovine: dalle centrali elettronucleari intorno al Garigliano alle acciaierie di Taranto passando per il petrolchimico di Ravenna e le miniere sarde del Sulcis.
Ma non solo questo. Il libro non parla solo di stabilimenti dismessi – di fallimenti. Tornano anche storie commendevoli ed esempidi quella progettualità “a misura d’uomo” nominata prima, come il villaggio operaio - patrimonio dell’umanità - fondato dai cotonieri Crespi, modello di imprenditoria tessile e visione d’insieme di una vita, di una comunità possibile che non riduce il lavoro alla mera logica dello sfruttamento degli uomini e del territorio.
Semplificando ma non troppo, l’Olivetti di Ivrea e l’Ilva di Taranto rappresentano i due poli, negativo e positivo, del viaggio di Liviano D’Arcangelo. Nel primo caso si è provato a tenere insieme lavoro e una vita “possibile” ossia non sottomessa alle mere ragioni del capitalismo: “l’universo olivettiano quale prova di un’alterità assoluta”. L’imprenditore che volle circondarsi di intellettuali non ebbe vita facile nel suo progetto di una città dell’uomo ma riuscì a segnare un capitolo raro nella storia della vita italiana tout court. Lo scrittore racconta come la Cia, monitorandone l’azione, in tempi di guerra fredda scopriva che un’impresa come quella di Olivetti, decisa a coniugare i principi dell’efficienza industriale a un idealismo – all’epoca ritenuto paternalistico dai marxisti – attento al benessere della comunità, poteva essere un ottimo baluardo contro le tentazioni dello stalinismo.
All’opposto, va da sé, la sciagurata storia tarantina (che all’autore sta a cuore anche per ragioni biografiche). Qui – nel mastodonte siderurgico che ancora fa dire a molti “meglio morire di cancro che di fame” - tutto è sottomesso a interessi privati. La tragedia è viva – sebbene il paesaggio faccia pensare all’incandescenza dell’inferno -: odierna. Materia giornalistica, come tutti sanno, ma capace purtroppo di compendiare in un unico luogo ferocia e miserie e aberrazioni apocalittiche. Quello di Liviano D’Arcangelo è un prezioso reportage che - pur non mancando dati, resoconti più o meno oggettivi e inserti fotografici – ha più del letterario che del giornalistico. Vi si ricostruisce bene il senso, il valore anche simbolico, così come l’orizzonte di speranze e le reali condizioni di vita di una parte fondamentale della storia italiana moderna. L’autore scrive a partire dai racconti di uomini che quelle storie le hanno vissute in prima persona; e lo fa mettendo in scena il proprio personale coinvolgimento, nutrito più di formazione sentimentale che di griglie ideologiche. La narrazione e l’enucleazione dei fatti è costruita all’interno di una visione: sguardo e immaginazione dello scrittore. Ciò da un indubbia forza espressiva al libro, ma talvolta gli fa correre dei rischi. Certi tratti stilistici risultano un po’ enfatici - Liviano D’Arcangelo è un virtuoso e qua e là si fa prendere la mano. Succede perlopiù quando è toccato dalla “commozione” per ciò che vede e ciò che è andato perduto: in quei casi l’aggettivazione ne risulta sbilanciata. A suo modo un libro di storia, eterodosso, obliquo, ma intenso.

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