22 ago 2012

David Bezmozgis


dal recensore.com
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Forse un lettore romano potrebbe risentirsi. Perché se se lo dice da solo è un conto, se viene a dirglielo un lettone trapiantato in America, che la sua invero strarotta città è sporca da far schifo…
E non solo: “dura, sgarbata e inospitale”, rovesciando in epitaffio da consegnare ai posteri (virtualmente, anche i lettori eventuali del prossimo secolo) un’immagine così negativa, be’, i romani, si sa, finché “se scherza”. ma poi…
David Bezmozgis, scrittore meno che quarantenne, tra i venti migliori della sua generazione ad avviso del New Yorker, la pensa proprio così. Non si è limitato a raccontare (Il mondo libero, editore Guanda) le peripezie di una famiglia di ebrei lettoni che nel 1978 lasciano l’Unione Sovietica per raggiungere l’America passando per l’Italia – peripezie, e prolungato soggiorno italiano non di rado fastidiate, ma ha rilasciato interviste in cui ha lasciato intendere di non pensarla molto diversamente da alcuni dei suoi personaggi, riguardo alla capitale, città amabile solo per i “turisti che hanno soldi da spendere”, ha detto, tutt’altro che accogliente per i rifugiati.
Tutto questo lo diciamo non per gettare una luce di antipatia sull’autore (anche perché, non conosciamo l’esperienza dei rifugiati, ma il tracollo di Roma lo può negare solo un ultrà), ma per quella che sembrerebbe una non scontata convergenza tra lo spirito del romanzo e l’esperienza del suo autore.
Ne Il mondo libero, Bezmozgis (al suo secondo romanzo dopo Natasha) racconta della famiglia Krasnansky, dell’idiosincratico e borbottante patriarca Samuil, dei figli Alec, un adorabile sciupafemmine, e Karl, incline invece a cercare occasioni per far soldi, delle loro donne, la madre Emma, e le mogli Polina e Rosa, di figli assortiti, insomma di una bella banda di rifugiati che a Roma incontrano altri russi, altri ebrei. L’inizio è folgorante: di passaggio a Vienna, mentre sui binari i più “si affannavano, ringhiavano e sgomitavano per depositare i loro averi sul treno fermo in attesa” e la famiglia aspetta che lui, uomo giovane, faccia il suo dovere di aiutare a sistemare bagagli e il resto, Alec è incantato da due giovanissime ragazze abbronzate, “a piedi nudi (…) le camicie leggere e senza maniche (…) il viso incantevole e inespressivo”. Alec ha la sua brava epifania, probabilmente gli arriva all’altezza mediana del corpo. Il fatto è che le due giovani “sembravano immuni da orari e obblighi”. Ecco, il tempo senza tempo della pura possibilità, l’orizzonte del piacere, del gioco che vorrebbe sostituirsi all’anfanare di una vita faticosa, che ti costringe a emigrare. Il mondo libero per Alec è innanzitutto quello lì, evidentemente. Ma lui è un caso a parte. Per gli altri, si tratta di replicare per l’ennesima volta un destino, consegnato al popolo ebraico da una storia peculiare. La moglie Polina, imbozzolata in un senso di spaesamento, sembra subire gli eventi. L’idea di dover passare per Roma (“città dal crimine dilagante”) l’atterrisce. Non la solleverà se non in parte scoprire che i russi fuggiaschi di quegli anni perlopiù sverneranno a Ostia, o a Ladispoli.
Il patriarca, Samuil, ex ufficiale dell’armata rossa, nel comunismo stava a suo agio, e prende di mala voglia questo cambiamento, meno ancora gli piace sentir parlare di sionismo dalle donne della famiglia.
Non sempre il romanzo mantiene le promesse della prima pagina, a volte rallenta nell’accumulo di informazioni, o dei dialoghi, ma non mancano quelle godibili. Humour e malinconia accompagnano l’esodo di gente che però vi è “geneticamente” abituata, e mentre borbotta o recrimina per quel che lascia, si dà da fare. Ché la vita non va perduta, anche se ti costringe a inseguirla.

18 ago 2012

Le storie ciniche di Maugham


dal recensore.com
storie-cinicheBasterebbe il primo racconto, “Louise”, per capire di che pasta sia fatto il perfido humour di W. Somerset Maugham, autore delle cattivissime “Storie ciniche“ raccolte nel volume uscito da poco per Adelphi, una dozzina di racconti ambientati al solito in giro per il mondo.
Louise, a suo tempo “ragazza diafana con grandi occhi malinconici”, si accampa con agio nelle riserve di una vita messa forse a rischio (ma lei mostra di crederci sul serio, e così tutti quelli che la circondano) da una vaga debolezza di cuore procuratale nell’infanzia dalla scarlattina. In effetti sembra venir meno se non il suo cuore almeno la forza per vivere delle giornate normali, ogni volta che la ragazza si trovi in situazioni per lei poco gradevoli (le feste noiose per esempio, le persone antipatiche, le incombenze sgradevoli). Destinata per tutti a una vita breve, resiste invece per decenni, si sposa due volte e in entrambi i casi resta vedova, fino a quando viene messe alle strette dal narratore, un amico che pare il solo ad aver capito in tanti anni la sua felice attitudine alla menzogna sofisticata. Difatti il giorno delle nozze della figlia – giorno che Louise dice di aspettare con ansia e che teme invece come una disgrazia irreparabile - pensa bene di dar soddisfazione a lei e all’amico facendosi venire uno dei suoi attacchi, solo un po’ più serio degli altri (“morì perdonando delicatamente a Iris di averla uccisa”).
Anche in queste storie dunque dell’autore di romanzi come Lo scheletro nell’armadio, Maugham  una dimostrazione di quella intelligenza che non si sa bene perché agli scrittori italiani piace solo declinata come “narrativa”. Ossia come capacità di imbastire trame e intrecci ma senza aprire mai una fessura di luce nuova, rivelativa su un personaggio, su un rapporto umano – ossia, su noi stessi. Il cinismo di Maugham è un modo di conoscere e raccontare esente da perifrasi perbeniste (peraltro arioso anche nella descrizione di vite anguste e miserande) che molti liquidano come al più “divertente” ma non serio, con ciò mostrando non tanto quanto siano limitati i loro orizzonti estetici, che sarebbe secondario, ma la diffidenza (antropologicamente cattolica anche se ci si dichiara atei o agnostici) di una cultura come la nostra per la verità compunta che non sia pronta per la redenzione.
Dal figuro di Vladivostok che si commuove parlando della moglie morta malcelando di essere lui l’assassino, alle signore determinatissime a sbarazzarsi di uomini pesanti portandoli fino all’Oriente Estremo che Maugham ben conosceva, lo scrittore britannico attraversa il mondo e ne afferra gli aspetti più beffardi e inemendabili. Felloni o mignotte, artisti della crudeltà o mentecatti del crimine, i personaggi di Maugham sono straordinariamente vivi. Maugham, che ambienta le sue storie a qualsiasi latitudine, cosmopolita lo era intanto nello sguardo – disincantato davvero, il che non vuol dire abbandonato a una mera radiografia degli umani che incontrava e descriveva. Partecipe piuttosto come e quanto chi sa che amare la vita non ci impedisce di guardarla per ciò che è, grottesca e menzognera, senza risparmi per nessuno. L’eleganza virile e sentimentale insieme di Maugham è proprio ciò che manca alla nostra stanchissima romanzerìa.

5 ago 2012

Su un romanzo-non romanzo


Emanuele Trevi

pubblicata sul paradisodegliorchi qualche tempo fa 


Copertina
Già detto da tutti, quello di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, è l’ennesimo esempio di romanzo non romanzo, un po’ saggio critico, un po’ autobiografia, “qualcosa di scritto” ma diversamente dall’oggetto principe della sua narrazione, l’indefinibilePetrolio, data di pubblicazione 1992, autore Pier Paolo Pasolini.Figura che qui è meno interessante, avvincente, dell’altro personaggio centrale del libro: l’attrice Laura Betti. Se infatti PPP qui è inscindibile da Petrolio (pur nella debita premessa che il libro “dice” il momento apicale di un’esperienza umana), la Betti esiste per sé stessa, sebbene stregata dal poeta fino alla morte di lei. Partecipe della stessa oltranza ipervitalistica di PPP, si arroga così la pretesa di essere il solo vero destinatario della sua opera.Il giovane Trevi la conosce lavorando al Fondo Pasolini. “La Pazza” è un animale eccessivo, assurdo, da cui Trevi è soggiogato. La paranoia dell’attrice, assurda come ogni paranoia, trova agli occhi del futuro autore romano una giustificazione proprio in quella sorta di stato d’eccezione che la lega a Pasolini, come fossero alterità quasi mitologiche rispetto al mondo borghese del quale egli invece fa parte. La Betti è un’Erinni, una furia isterica, talmente eccessiva da risultare comica (“Questo piaceva soprattutto alla Pazza: mandare vaffanculo”), ma quel che affascina il narratore (che venga chiamato “zoccoletta” è un dettaglio non infimo della scena), e non poco il lettore, è la consapevolezza di essere com’è. Betti, in apparenza massacrata dall’impietosa descrizione, è un personaggio straordinario. E poi c’è il suo maestro, PPP. Petrolio è, lo sanno tutti, un monstrequalcosa di scritto lo definisce appunto Trevi, un oggetto letterario che però scardina qualsiasi confine estetico, una roba non più concepibile nel 1992. Si era entrati, e già da un decennio almeno, in un’epoca in cui la letteratura viene ridotta a trame, a storie, a intrattenimento. Qua invece siamo più vicini – sostiene Trevi – alla body art che alla letteratura. La lettura del libro non è un esercizio tecnico, strutturale, filologico, benché si avvalga di tutti questi strumenti ma mette in gioco l’esperienza, la vita anche emotiva del suo interprete. E se l’opera, anzi l’opera-vita che in questo Pasolini terminale ha da fare con un’iniziazione (ne è il fine ultimo), sembra un viaggio iniziatico anche quello dell’autore, a partire dai mesi di soggezione assoluta, pavido-ironica, verso l’arbitrio violento della Betti fino al viaggio in Grecia, a Eleusi – viaggio mai davvero terribile, certo, mai a rischio di nulla di fondamentale, inevitabilmente commento, secondo vocazione epigonica che Trevi non può nascondere (se a Pasolini, tutto immerso in un processo creativo, sorgivo e intemperante come quello di Petrolio, risulterebbe un’ “insopportabile pappa finto-erudita” la vacuità del postmoderno citazionista… Trevi se ne salva in parte grazie a una controllata partecipazione sentimentale che, al netto di qualche eccesso retorico, sa emozionare).Il racconto di Trevi dunque, nonostante non faccia che esaltare il ‘900, è quello di un uomo del nostro tempo, impossibilitato a procedere senza accordarsi alla voce di un altro, incapace di attraversare l’oscurità senza lo strumentario di citazioni altrui ma onestamente consapevole di questi limiti, che sono poi dei più, e bravissimo a illuminare quella che invece gli appare una storia umana e artistica irripetibile. Che passa, è ora di dirlo, perlopiù dai misteri eleusini e dal mito androgino, attraverso un processo di sdoppiamento e metamorfosi sessuale. Per una conoscenza, diciamo, “superiore”.Quel che non convince è il fare spallucce sul lato civile, politico di PPP (a prescindere da giudizi di valore: di cazzate Pasolini ne diceva tante, come tutti) – mentre lavorava a Petrolio e a Salò, negli anni settanta PPP scriveva sui giornali quello che tutti sanno.Non vedo perché una lettura come quella proposta da Trevi – quasi esoterica, gnoseologica – debba escluderne un’altra… Sarebbe schizoidismo? In arte non c’è niente di meglio. Vale la pena notare che una letteratura come forma estrema di conoscenza (il “moderno” lo chiama Trevi) se non ha niente a che fare con il “prodotto”, la “bella confezione”, non ha bisogno di cercare il suo opposto nelle bolle di sapone di Baricco (da Pasolini a Baricco, un bel saggio di storia italiana… e chi scrive non soffre di alcuna venerazione per Pasolini) – basterebbe, per Trevi, fermarsi a Carver, uno scrittore per il quale non a caso si è utilizzato l’etichetta di minimalismo: avvicinare il lettore, blandirlo anche nel male, tutto sommato anche rassicurarlo. Scrivere buone storie.
Sarei meno drastico. Certo, lo spettacolino di innumeri fighetti che non hanno niente da dire ma riempiono le scuole di scrittura e le pagine del 'Corriere della Sera' sono l’omologo dei patetici editoriali politico–culturali ivi ospitati. Come quello del PG Battista che approfitta del libro di Trevi, capendoci poco o niente, forzandone a sua volta l’interpretazione, omettendo di notare che Trevi si guarda bene dal far scendere il santino dall’altare (trasferendolo caso mai da quello della religione civile al ben più suggestivo trono di un’iniziazione estatica) e definendo una “richiesta ossessiva” quella di riaprire il processo. La mira? I soliti. Non i comunisti (questi fantasmi, la parola stavolta è evitata) – ma quelli che non avendo nessun pregiudizio verso i “misteri eleusini” trovano che la storia politica italiana sia tutt’altro che candida e che PPP non sia stato ucciso per un pompino malriuscito.

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