30 lug 2011

Ancora su Héléna



ilbacio-dellavedovaL’editore cagliaritano Aìsara prosegue nella meritoria operazione di pubblicare i romanzi di André Héléna, che molti ritengono il padre del noir francese. L’ultimo libro s’intitola “Il bacio della Vedova“, espressione che durante la Rivoluzione Francese significava finire sotto la mannaia della ghigliottina.
Ora, non leggiamo i romanzi di Héléna aspettandoci una bella frase, una bella metafora, qualcosa che assomigli al bello stile meno che meno (e meno male) anche se rinunceremmo alla lettura di qualche immagine banale che distoglie l’attenzione dalla storia e dalla caratterizzazione dei personaggi. Personaggi che sono, assieme a una certa facilità nel creare il clima giusto, l’atmosfera e la sostanza sociale del racconto, i motivi pregnanti dei romanzi di André Héléna. La costruzione e il montaggio nelle sue storie sono semplici e insieme efficaci, in questo caso magistrale, così come lo è il ritmo.

27 lug 2011

Poetesse?

L'ho scoperto su fb, pensa. Il numero delle poetesse in Italia è impressionante.
Il paese pure, per molti aspetti, debbo dire. 

Sergio Garufi



Il nome giusto

Ponte alle Grazie


copertina del libro
Il romanzo di Sergio Garufi – esordiente quarantottenne con una vita però passata a leggere e scrivere - appartiene a un genere di narrativa non frequentatissimo negli ultimi tempi, un romanzo poco sensibile alle ragioni del plot (ma non per questo privo di storie), o del puro intrattenimento, e ancor meno suscettibile di veicolare prese di posizione ideologiche acquattate nella comoda imbastitura di una finzione appiccicaticcia. Garufi svolge una variazione capricciosa, dall’andamento lento, rapsodico e non lineare, a tratti troppo fiducioso nell’uso dell’imperfetto, sul tipo del romanzo di formazione. Iperletteraria nella sola maniera possibile (letteratura che s’incar(di)na nella vita, osmosi continua fra formazione colta e concreto piegarsi alle banali ragioni dell’esistenza), la storia va avanti e indietro, quantunque il protagonista e voce narrante sia già morto – per un incidente stradale - e narri da animula vagula blandula che si aggira per le strade romane vicende riguardanti i suoi rapporti con le donne, i libri, i familiari, gli amici. Ciò facendo, regala squarci improvvisi di tensione, frasi illuminanti, scoperte e agnizioni non prive di una loro drammaticità.
È (era) un antiquario senza troppa fortuna, uno scrittore indeciso che cerca di passare il guado dell’opera, sommerso in un’apatia opaca; fa scelte poco comprensibili, poco azzeccate, si lega a donne con cui non ha nulla in comune, qualcuna dai tratti un po’ stereotipi (una tizia che vive con il massimo di organizzazione e il minimo di senso possibile, con la quale il protagonista deve accontentarsi di “scopate patinate”). Se l’universo letterario ingloba in potenza l’universo mondo, il terreno sentimentale sembra il più denso di spunti. Attraverso le donne che incontra, sembrano passare anche i momenti decisivi di una vita, assieme alla figura del padre, responsabile non poco della sensazione di non farcela che accompagna il personaggio, ferita com’è la sua vita da sempre, poco sicura di sé, afflitta da una sorta di angoscia del fallimento. “Basta poco per finire ai margini, io ne so qualcosa”. 
Il romanzo è scandito in 15 capitoli, legati in maniera non sempre cogente a vari libri e autori amati dal narratore - da Borges, figura che sembra di sicuro più decisiva di altri (e alla cui memoria lo stesso autore empirico è unito da una preziosa amicizia di cui, diremmo, va giustamente fiero), a Leopardi, a John Ashbery, a David Foster Wallace, autore massimo verso cui si palesa una peculiare inclinazione del narratore, in virtù di un pensiero ricorrente dovuto anche a un motivo personale già accennato: il cattivo rapporto con il padre e la tentazione del suicidio.
La dimensione letteraria si evidenzia per via simbolica, per la riproposizione continua di significati da congiungere ai fatti, agli incontri, alle date. Del resto il narratore ha uno sguardo acuminato, allenato dalla grande tradizione figurativa e artistica, fatto di rimandi dotti ma non inutilmente libreschi.
Nemmeno come uomo di lettere però il Nostro pare sufficientemente a suo agio. Insegue l’opera, teme di mancarla, il che per uno innamorato di Borges non è cosa da poco (il grande argentino affermò una volta che si ci può dire scrittore se si è scritto dei libri: lapalissiano, forse, ma il limbo del considerarsi scrittore e giustamente non crederci sino in fondo perché le opere latitano, è un luogo abbastanza affollato - nella realtà, s’intende). La letteratura - per quanto a volte il narratore provi a diminuirne il valore (l’importanza che dice di dare ai comportamenti più che alle parole) - sembra una via obbligata per avvicinare brandelli di conoscenza, ma è la scrittura di un romanzo la vera sfida che lo attende, la riuscita della quale può rappresentare la svolta che potrebbe cambiargli la vita. 
La lingua fluida a tratti s’impenna verso moderati preziosismi, in altri momenti vira verso il basso, riuscendo meno nella seconda soluzione che nella prima, per via del dettato tutto sommato liquido, armonioso della prosa. Un esordio maturo (controcorrente come usava dire un tempo) quello di Garufi, non perché tardivo, non perché consapevole della terribilità della vita, ma perché coglie con precisione magistrale e seducente il tono giusto del racconto, condizione imprescindibile per renderlo credibile, ossia per farsi ascoltare. E consentire ai lettori di sperare che la letteratura abbia ancora un futuro.

24 lug 2011

Norvegia felix

Per Borges la religione è un ramo della letteratura fantastica: ma com'è che Tolkien spesso sembra dare alla testa e scarseggiano viceversa gli assassini fan di ETA Hoffmann, Potocki, Bioy Casares, Allan Poe, Nodier, Philip Dick?

21 lug 2011

Torno giovedì ma o veramente

http://www.tornogiovedi.it/2011/07/torno-giovedi-ma-o-veramente/


Ischia. Mica solo perché è giovedì, è perché non è mai troppo presto per andarsene da Ischia – e non fate ’ste facce. Se sei sopravvissuto per esempio alle sue strade, che è poi una sola, ma calcoliamone la potenzialità mortale moltiplicandola per cento e avremo reso un’idea – del culo che ti ritrovi, per esempio, di quante volte al giorno hai rischiato di restare sfracellato in un frontale con uno degli allegri banditi che guidano come nemmeno in Giordania – fino a poco tempo fa la si considerava un’enclave meno efferata dei Paesi intorno che usano Allah per tenere chiusi a chiave le anime limbiche di milioni di bipedi, ma era un bluff: il miracolo di uscire illesi da un giretto in taxi ripetuto tutto l’anno aveva già lasciato sospettosi verso il raggiro come di fronte a una pubblicità subliminale, solo che qua si trattava del Padreterno.
A Ischia uguale. Hai voglia il bravo editore locale (Imagaenaria) che pubblica deliziosi libretti su viaggiatori illustri e sconosciuti che per secoli vi arrivavano da mezza Europa e ne decantavano bellezza e benefici termali e occasioni di bon vivre. Qualcuno sostiene addirittura che Michelangelo – un dio minore rispetto a quello menzionato sopra ma uno dei pochi di cui abbiamo certezza storica e convinzione intima – vi scendesse di tanto in tanto per trombarsi Vittoria Colonna, poetessa e soprattutto moglie infelice di Ferdinando FrancescoD’Avalos, condottiero che aveva sposato nel prestigioso Castello Aragonese, ma se l’era goduto per poco, l’omo, costretto a fare il suo mestiere di eroe nella guerra fra Spagna e Francia. Già allora, pieno Rinascimento, Ischia era un paradiso per poeti, musici e intellighenzia cortigiana (un ossimoro?). E fino a pochi decenni fa i Visconti, William Walton, Auden e… no, i pallosissimi elenchi di Arbasino li lasciamo a “la Repubblica”.
Ora? Ischia è un’isola fatta di isole, non nel senso dell’arcipelago. Piuttosto: se te ne stai fermo nel piccolo paradiso che ti sei rimediato tu – ammesso che la tua carta di credito possa sostenerlo – va anche bene. Ma se ti sposti di duecento metri sei fritto. La conoscenza e il rispetto del codice della strada è un vero handicap da queste parti. Se ti fermi per far passare un temerario sulle rare strisce pedonali dell’isola (giustamente penseranno che qui non hanno bisogno di ulteriori decorazioni) dietro non ti suonano: proprio scendono e te le suonano.
Se un voluminoso tassista con vettura Mercedes modello furgone (non so essere più circostanziato su queste cose – forse monovolume?) invade la tua corsia e tu non capisci che, avendo il paraumano necessità stringenti di sorpassare, devi sopprimerti da solo e in fretta con tutta la tua cazzo di macchinetta: uno dei due è di troppo. Ed evita per favore di sorprenderti a bocca aperta per una fermata dell’autobus in discesa su una strada molto stretta a doppia corsia per cui i passeggeri in attesa sono costretti a stare in fila uno accanto all’altro addossati al muro ben attenti a tenere i piedi entro la riga che limita la strada – e sempre ammesso ma con qualche dubbio che all’omone in Mercedes sia stato sufficiente piallarti come un bacarozzo sull’asfalto e non abbia avuto bisogno di far sentire la consistenza della sua carrozzeria tedesca sui poveri sfigati che si ostinano ad aspettare autobus che non arriveranno mai.
E poi a che pro? Quando ti sei goduto i bei giardini, a che serve girare da una spiaggia all’altra? A vedere quanto poco arenile sia rimasto? A misurare i metri mangiati alla sabbia e alla vista del mare da centinaia di barche che se la son comprata, l’isola, come tutto il mare italiano? A che pro farsi una passeggiata a Ischia Porto trasformata nella locale via Montenapoleone, piena di zoccolette nemmeno maggiorenni praticamente seminude alle dieci di sera (il gonnellino è di seta, gli infradito di pelle umana ma africana e la mia carta di credito non li sosterrebbe) che entrano nelle boutique con le novità invernali (!) senza nemmeno fare un fischio ai papà tronfi nelle loro barche attraccate di fronte al ristorantino in cui una famiglia avventurosa (lei, lui, due figli!) s’illude di saper vivere per una banalissima impepata di cozze en plein air.
Un paio di quelle zoccolette le hai già viste nel taxi Mercedes. E non le vedi invece al porto, al ritorno. Qua la barca in proprio non ce l’hanno, vengono a prendere il traghetto. Siccome la tragedia italiana è che la stronzaggine è interclassista, qui ti limiti a vedere coltelli che volano perché per certi napoletani che tu abbia il biglietto già da una settimana non significa niente. Loro devono tornare, “punto e basta”. Il punto e virgola non sanno nemmeno che esiste. Io invece sì. Tu coltello, io è giovedì, e debbo tornare a casa, guarda un po’. Io pure. E il biglietto ce l’ho.
Quando scarico i bagagli, do un’ultima occhiata al souvenir non richiesto che un buontempone ha pensato di lasciarmi sui vetri impolverati della mia Peugeot: “Impara a guidare, coglione”. Qualche zoccoletta l’hanno portata pure nel mio albergo, e manco me ne sono accorto.

Premi letterari e romanzeria in corso


sinagoga degli iconoclasti

dal paradisodegliorchi

Premi letterari e romanzeria in corso.

di Michele Lupo


Copertina
Dura la vita dei premi letterari. Ci racconta Sergio Garufi nel romanzo Il nome giusto (presto a recensione sul Paradiso) che in una passata edizione dello Strega, invitato regolarmente alla serata finale, venne apostrofato in malo modo da un tizio cui non piacque che egli si fosse presentato senza cravatta. L’episodio, verificatosi realmente, basterebbe da solo per dire del famigerato premio più di mille polemiche. A ogni modo, se al Ninfeo stavolta ha prevalso un libro forse minore di uno scrittore, Edoardo Nesi, però bravo - cui non saremo mai abbastanza grati per aver tradotto l’enorme Infinite Jest del compianto DFW – chi scrive è il primo a esprimere soddisfazione. Vero che Mario Desiati e il suo Ternittigià pronto per il cinema e abbastanza convenzionale ma dalla scrittura sagace potevano una volta tanto redimere Mondadori. Che L’energia del vuoto di Bruno Arpaia era ambizioso ma riuscito solo in parte. Che ci ha fatto prima sincera impressione sapere che il racconto d’esordio della teologa Maria Pia Veladiano rischiava di vincere, e che poi abbiamo provato un vero senso di sollievo alla notizia dello scampato pericolo (trovate le motivazioni in archivio). 
Qui al Paradiso invece prepariamo un premio senza cravatte – il più prestigioso d’Italia, va da sé, per il miglior libro italiano dell’anno, va da sé - e pensiamo, nonostante il moderato apprezzamento per l’estetica perbenista di Tommaso Labranca, che non solo ognuno si veste come crede, naturalmente, ma che non inviteremmo mai un coglione come quello incontrato da Garufi non a esprimere il suo voto ma a battere le manine al vincitore. Noi, che “non abbiamo pressioni ma solo passioni”, che non siamo amici della domenica ma nemici per la pelle degli avventizi che confondono la letteratura con le ubbie dei cortigiani, ci siamo presi carico di leggere il possibile, nella speranza di scovare un titolo memorabile per l’anno di grazia 2011. 
In questo luglio caldissimo, le letture continuano – non sia mai che tizio o caio rischino di non vincere perché il loro libro ci è sfuggito. Siamo scrupolosi fino all’ossessione. Di più: fino alla noia – che spesso ti avvinghia nonostante le migliori intenzioni. Perché romanzi italiani dalle differenti promesse e dai diversi fallimenti ne girano parecchi. Vediamone tre fra gli ultimi arrivati. 
Un libro ambizioso sino al punto di votarsi pregiudizialmente al fallimento è senza dubbio Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca, poeta prima che narratore, saggista, autore di un romanzo sui generis – almeno di questi tempi – assai poco maneggevole, estraneo al concetto di prodotto editoriale da misurare al mercato secondo i parametri della leggibilità “da ombrellone” oppure come opera midcult di dignitosa fattura e qualche pretesa concettuale per sentirsi più intelligenti fra le pieghe dell’entartainment. Frasca se ne infischia, spinge fino al dicibile (al leggibile) un récit di quasi seicento pagine narrando di gerarchie cattoliche alle prese con segreti inconfessabili e una discoteca non sai se più hortus conclusus o panopticon (il repertorio di oscenità che vi si svolge è proiettato in un circuito di home video): di sovrana effrazione del lecito e forse dell’umano. Il passo, l’attenzione alla lingua, dicono di un’attenzione da poeta poco interessato al “riferire” o al “rappresentare” del narratore; chiede uno sforzo al lettore che a tratti è ripagato dalla riuscita espressiva ma è indubbiamente estenuante. A meno di non rinunciare a una lettura lineare.
Dal canto suo, il giovane Vincenzo Latronico ha scritto un romanzo, La cospirazione delle colombe, edito da Bompiani, non particolarmente avvincente, nonostante la buona partenza, su due giovani di diversa origine e provenienza che cercano di guadagnarsi posizioni di prestigio e finiscono in un mondo – il nostro – che nell’odierna versione del capitalismo, in cui la mancanza di etica del mercato padroneggia i destini dei più, costringe molti a muoversi fuori dalle regole per avere il successo cui aspirano. 
Alfredo è figlio di un ricco imprenditore; Donka è un albanese figlio di nessuno, approdato all’Università Bocconi con una borsa di studio. La loro amicizia sembra solida, entrambi sono ambiziosi, si muovono fra università, imprese immobiliari, speculazioni finanziarie – e donne, va da sé. Ma le cose sono complicate, come sempre. La domanda che muove la storia è: cosa fare quando il talento è insufficiente, se “merito” è una parola vuota, se si è stronzi come i più? Che le colombe si trasformano in falchi, per esempio. 
Lo stile è piuttosto anonimo, il libro gira intorno alla diade falchi-colombe in maniera abbastanza corriva. Leggendo Latronico (al suo secondo romanzo), vien fatto di pensare come a un possibile nuovo Andrea De Carlo (coppie di personaggi A vs B, psicologia o sociologia giornalistica, lingua di pura comunicazione, magari plot…)
Un libro che si presenta in un’elegante e studiata sobrietà di confezione che vorrebbe forse rinviare alla natura del contenuto è quello di Roberto Ferrucci, Sentimenti sovversivi, per Isbn. Tutto compreso nello sguardo del narratore, ferocemente afflitto dall’Italia berlusconiana, vista a distanza dalla Francia, con essa ripetutamente messa a confronto, descritta con precisione e sdegno (condiviso da molti, vorremmo rassicurare l’autore, basterebbe leggersi un po’ di sinagoghe sparse negli ultimi tempi) in un testo che più che un romanzo si situa in una linea mediana fra il diario e il pamphlet, ma con poche sorprese e invenzioni, quasi come se il narratore fosse il solo a essere angosciato da questo paese e si accontentasse di questo “sentimento sovversivo” per licenziare un libro non particolarmente felice dal punto di vita narrativo, fin troppo compresso nell’angustia di un malessere senza sbocchi creativi. Vero che non sbaglia una frase, Ferrucci, che alcune pagine lasciano ammirati (per esempio quelle sulle imbarcazioni pesanti che mettono a rischio il fragile equilibrio di Venezia), o commossi (quelle per esempio sugli ultimi giorni di Berlinguer), ma sono davvero poche. L’idea dell’asilo francese che dovrebbe servire a scrivere un romanzo d’amore che invece non esce fuori perché l’ossessione per i cattivi tempi italiani prendono il sopravvento, non convince davvero; per quanto sincera e motivata sia l’amarezza del narratore, non c’è bisogno di ricordare che i romanzi non si scrivono con le buone intenzioni e i buoni sentimenti; la stessa lingua dell’autore testimonia che egli è il primo a saperlo. Che poi sia stato pubblicato prima in Francia, non significa granché: lassù, hanno fatto di Nanni Moretti una star. Ora come ora, noi siamo i peggio, ma pure i francesi – che vanno matti per gli antiberlusconiani - non le azzeccano mica tutte.

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19 lug 2011

Paolo Sortino - Elisabeth


elisabeth-sortinoPremessa: più che una recensione, questo è uno sguardo preliminare su un libro, “Elisabeth” (Einaudi, 2011) del giovane esordiente Paolo Sortino, che merita un’attenzione prolungata, una lettura più complessa e distesa. Sono tante e diverse le questioni che mette in circolo; qui ci limitiamo a qualche considerazione introduttiva. La storia (terribile) cui il romanzo si riferisce e in qualche modo ricrea è nota.

Poco prima del suo diciottesimo compleanno, una giovane austriaca, Elisabeth Fritzl, venne per così dire “rapita” e rinchiusa dal padre in un bunker da lui stesso costruito sotto la propria abitazione. Era il 1979. Accadeva nel cuore dell’Europa, in un piccolo centro di un’Austria poco
felix ma abbastanza intontita e resa ottusa dal proprio benessere.

17 lug 2011

Nathanael West



Signorina Cuorinfranti

et al/EDIZIONI


copertina del libro
Ripubblicazione di un piccolo classico. 
Signorina Cuorinfranti è un breve romanzo del 1933 dello scrittore americano (dalla vita breve) Nathanael West (New York 1903- California 1940).
Tra le sue opere ricordiamo Un milione tondo tondo (1934) e Il giorno della locusta (1939), notissimo romanzo su Hollywood di prossima pubblicazione presso et al./EDIZIONI, le stesse di questo volume tradotto da Marina Morpurgo. 
Cominciamo con il dire che nonostante le apparenze, Miss Lonelyhearts, il personaggio centrale di questo piccolo classico della narrativa statunitense, è maschio. 
Il nome in realtà è quello della rubrica di lettere (la traduzione letterale del libro sarebbe “Cuori solitari” ma anche l’ultimo l’editore ha preferito lasciare il titolo delle precedenti versioni italiane) tenuta da un povero giornalista che per tirare a campare è costretto a rispondere a decine di disperate che gli chiedono consigli, si sfogano, cercano un aiuto o almeno un sollievo alla loro solitudine e non immaginano che stanno allevando una disperazione più grossa della loro. 
Perché Miss Lonelyhearts non ha l’animo di pensare al suo lavoro come se fosse un’occupazione fra altre; potrebbe, con il cinismo giusto, sganasciarsi dalle risate - al lettore può succedere visto l’andamento tragicomico delle vicende e la lingua esilarante con cui vengono scritte alcune delle lettere riportate nel romanzo: missive sgrammaticate, deliranti, improbabili che l’America degli anni trenta invia al povero cristo senza posa mostrando un volto ben più drammatico di quello ufficiale dell’american dream. 
Invece il nostro è un individuo già instabile per conto suo, vive un presente poco convinto, cerca di controllare attraverso un ordine maniacale la vita che sembra sfuggirgli da tutte le parti, differisce le occasioni e prova a dilatare il tempo per evitare di fare i conti con le cose, non sa bene che fare con la sua fidanzata e allora devìa le proprie attenzioni sul Cristo. Il fatto è che il male che gli piomba sulla scrivania attraverso tutte quelle lettere, è al di sopra delle sue forze. Indeciso se vanamente abbracciare l’umanità, questa America malmessa, nevrotica, socialmente precaria, o trovare la propria strada, uscirà dalla tenzone in malo modo. 
Nathanael West, sceneggiatore, nonché direttore di albergo, è stato uno scrittore dalla sensibilità raffinata, capace di una prosa leggera e capziosa allo stesso tempo. Il veleno scorre in queste pagine mellifluo ma implacabile. Si ride ma come inquietati da un sottile senso di angoscia. E di vertigine.

11 lug 2011

Vasilij Grossman: il bene della letteratura

ilbene-sia-convoi
I racconti de “Il bene sia con voi” raccolti da Adelphi dopo la pubblicazione dell’imprenscindibile Vita e destino furono scritti da Vasilij Grossman dal 1955 al 1963, l’anno prima della morte, fatta eccezione per il primo, “Il vecchio maestro”, del ’43. Iviscrive: “Aveva insegnato per cinquant’anni in quella piccola cittadina noiosa. Da principio in una scuola professionale ebraica, poi, dopo la rivoluzione, algebra e geometria nella scuola dell’obbligo.


continua http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/06/vasilij-grossman-il-bene-della-letteratura/

8 lug 2011

Occorre dirlo?


Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti

copertina del libro
È il primo volume della collana "Instant Book" della casa editrice Chiarelettere. Odio gli indifferenti raccoglie alcuni articoli di Antonio Gramsci scritti ormai un secolo fa e contenuti per lo più nell’opera La città futura.
La forza di un titolo come questo (già sentiamo le voci mosce delle animule vagule blandule che gridano al ritorno degli anni di piombo) è ciò che è mancato in questo ultimo ventennio. Dire chiaro che il potere che stiamo subendo non lo si deve al genio inesistente di un venditore dagli affari poco chiari (si fa per dire) ma all’acquiescenza dei più, il colto e l’inclita, il primo di sicuro più responsabile ma votato alla storica cortigianeria che gli italiani hanno insegnato al mondo sebbene il secondo spesso non si sia fatto mancare nulla quanto a piacevoli oggetti di consumo – comprese vacanze in paradisi lontani dei quali non si è mai sforzato di capire alcunché – e tutto invece riguardo a uno strumentario per diventare un cittadino dignitoso (un libro, poniamo?).
Piacerebbe sperare in un radicale cambio di rotta dopo questi decenni tristissimi, e tristissimi quanto più volgare è stata l’esibizione di un’allegria cinica e imposta come un dogma (est)etico. Ma siamo in Italia.
“L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Queste le frasi ormai celebri del grande pensatore sardo. Proprio perché siamo in Italia, appaiono ancora più necessarie. Proprio perché siamo in Italia, la speranza è un atto di volontà. “Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare”, scriveva Gramsci. Che aveva colto le crepe di aspetti un secolo dopo rimasti tali e quali. “L’indifferenza che opera passivamente ma opera”. La fatalità che sembra dominare la storia non ha nulla di destinale ma è il frutto avvelenato di questo assenteismo. La mancanza di responsabilità. L’assistenza che è un diritto e non un regalo. Il rispetto delle procedure di legge e l’elogio di Ponzio Pilato, “infamato dal Cristianesimo”, e che invece era solo “un magistrato ossequiente alla legge”; che ne rivendicava l’indipendenza. Fra i suoi compiti non v’era quello di poter giudicare Gesù, le accuse al quale “non erano contemplate dalla legge romana, non erano reati di Stato”.
Poiché l’argomento mi sta a cuore, vediamo cosa scriveva sulla scuola. “I clericali parlano spesso e volentieri di libertà della scuola. Ma non si ingannino i lettori. La parola libertà acquista nelle loro bocche un significato tutto suo che non coincide affatto col concetto che della libertà possono avere gli uomini pensanti che non sono clericali. Libertà della scuola significa propriamente per i clericali libertà di essere asini col godimento di tutti i diritti che sono riconosciuti a chi ha studiato. È questa formula «Per la libertà della scuola», una bellissima bandiera che copre una lucrosissima speculazione economica e di setta.”
La dittatura mediatica non poteva tecnicamente raggiungere i risultati odierni (Mussolini si rivolta nella tomba roso dall’invidia ogni volta che gli appare una scena dell’odierna telecrazia, che si tratti del logo tg1 o quello di Canale5 e via dicendo); epperò, Gramsci già notava come “La conoscenza e l'intelletto sotto forma di pettegolezzo, di morbosa necessità di essere informati dei minimi particolari del fattaccio” fossero funzionali a una marcata dimenticanza della realtà politica.
Sulle guerre? “Le guerre moderne nascono dal bisogno di assestamenti economici migliori per certi capitalismi nazionali”. Per chi non lo avesse mail letto, è una buona occasione. L’edizione è elegante quanto basta. Veramente un libro da tenere in tasca, un memorandum anche, perché no.

4 lug 2011

Gli appartati


Andrea Garbarino


copertina del libro
Il romanzo di Andrea Garbarino, Gli Appartati, ambientato dalle parti di Buenos Aires è stato avvicinato a una certa tradizione sudamericana di quella vicina per esempio a Paco Ignacio Taibo II, molto avventurosa, con spiccati elementi di genere, in cui coesistono senza troppi rovelli teorici il thriller, il giallo, l’avventura, il noir etc. A mio avviso Garbarino invece scrive meglio di ciò che leggiamo in traduzione, non indulge a facili sentimentalismi, costruisce sagacemente storie nelle quali l’elemento magico non ha nulla di corrivo anche quando risulta estenuante ma si respira assieme al clima di decadenza dei personaggi, figure impregnate di un passato già ricco e che riemerge nell’aria umida della foce del Rio Paraná: nebuloso, ambiguo, persino improbabile. 
I suoi personaggi sono, prima dell’intreccio che li avvicina, già “storie” di per sé. C’è un ex professore anarchico e soprattutto ex marmista caduto in disgrazia per aver male realizzato mille busti di Peron; una nobildonna cui hanno ucciso il marito molti anni prima; il capitano greco di una nave che si arena nel delta del Tigre, un uomo che conosce gli altri uomini avendo molto imparato alla guida di un equipaggio (“gli erano bastate poche settimane per capire che i marinai condividono un destino da reclusi (…) come i reduci di una guerra sporca”); e infine, un’altra donna, anch’essa vedova ma risposata a un uomo non particolarmente amabile. Tutti esuli in qualche modo, alla ricerca di imperfette e non pacifiche solitudini, debbono però vedersela con il tarantiniano Titano, un gangster da strozzinaggio, con il gusto della lirica, pronto a cantare “Nessun Dorma” mentre i suoi scagnozzi si lavorano qualche reticente al pizzo, legato a “innominati” ben più potenti di lui che vogliono trasformare l’area in un parco giochi. Come a dire che ormai l’orrore nella forma abnorme e paradossale dello spettacolo insegue i custodi di più discrete ed eleganti inquietudini negli angoli più remoti del pianeta. Resistere anche lì è un gesto oneroso e pericoloso. 
Ambientazione insolita per un romanzo italiano, le storie passate e le nuove scivolano intorno all’acqua che le raccoglie, fluide e a volte più lente, perse nelle nebbie locali e in quelle oniriche dei personaggi, nel desiderio alla lunga insostenibile di una vita solitaria da opporre al rumore volgare del mondo. Non possono smettere di farvi fronte, nemmeno in quella striscia di mare alla fine del mondo – in cui la storia va a cercare la sua conclusione - che si chiama stretto di Magellano.

3 lug 2011

Non è più giovedì ma fa lo stesso

http://www.tornogiovedi.it/2011/06/strategie-della-confusione/ la fotografia è di Beatrice Avallone  (frammento da un romanzo in fieri)
Strategie della confusionefotfo(framm

Italiani (una disgrazia)


Ai proprietari di Suv elettori di destra: se finite in frantumi in una scarpata cambierò idea e penserò che dio esiste.

(mi si domanda: e quelli di sinistra? - bon, 
che restino appesi a un albero il tempo necessario per pentirsi: se non ce la fanno (possibilmente alla svelta) vadano a fare compagnia agli "affini")

1 lug 2011

L'EVOLUZIONE DI BRUNO LITTLEMORE


da Lankelot

BENJAMIN HALE


L'EVOLUZIONE DI BRUNO LITTLEMORE



In patria (gli Usa) il libro è piaciuto molto. Anche a chi scrive. L' evoluzione di Bruno Littlemore - appena uscito da Ponte alle Grazie (traduzione di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio, pagg. 552, euro 21) è un libro assolutamente da leggere.
Benjamin Hale è un narratore meno che trentenne ma il talento è indubitabile. Non so se diventerà uno scrittore capace di aprire mondi interi, come è accaduto a David Foster Wallace. Sembra legato - edisciplinatamente consapevole della cosa, tanto da dichiararlo – a certa tradizione americana che da Philip Roth (il Roth di Portnoy, il genere di racconto in prima persona di una voce verbigerante, maniacale, infoiata al punto di farti percepire nel ritmo nervoso della prosa l’eccessiva disponibilità alla crapula erotica, il pensiero fisso, ossessivo per l’orifizio magico delle donne caso mai qui estremizzato da un olfatto ovviamente non umano) procede a ritroso fino al più grande scrittore statunitense del secondo Novecento: Saul Bellow.
A mio avviso nel suo libro v’è un di più di grottesco e un di meno di pregnanza filosofica – e di tragedia - rispetto all’autore di Herzog, che avvicina semmai Halea certa letteratura farsesca e paradossale. La storia è quella di uno scimpanzè che da uno zoo (mirabili e divertentissime le descrizioni delle bestie alle quali il protagonista è imparentato) viene condotto in un laboratorio dell’università di Chicago: la sua iniziazione a un processo di mutamento che lo renderà “umano” inizia lì. Ce la racconta lui stesso, da una condizione di cattività che non è quella di un “bioparco” ma ha da fare con una vera e propria detenzione: difatti grava su di lui un’accusa di omicidio. Come a volte succede agli uomini sbattuti in galera, anche questo scimpanzè evoluto che la nostra lingua ha imparato non solo a comprenderla ma a usarla, e molto bene, sente il bisogno di scrivere – dettandolo a una paziente amanuense – il proprio memoriale. Che ha al suo centro una donna, la scienziata che ha messo in moto il suo desiderio: per lei, intanto, e per “diventare un uomo”.
Vedremo poi il ruolo del desiderio in questa storia.
Nel racconto tono e stile concorrono per rimettere in gioco le nostre più radicate convinzioni di “specie” attraverso una buffa ricostruzione genealogica dal primate a un tipo “umano” sofisticato – intellettualmente dotato, colto, attrezzato, dal sense of humour spiccatissimo. L'evoluzione di Bruno Littlemore è dunque soprattutto un romanzo di surreale formazione darwiniana – potrebbe essere unconcept ontogenetico, in un certo senso, con il passo di quello classico; del resto non lo leggeremmo se non avessimo la necessità di cogliere ciò che tiene insieme l’uomo e lo scimpanzè.
In questo genere di romanzi, la tenuta non può essere assicurata lungo l’intera lettura. A volte il racconto si dilata senza particolari necessità (i sogni, pur trattandosi di uno scimpanzè e quindi di un ipotetico viaggio ancestrale negli archetipi dei primati – dunque di un prima ancora precedente a quello che vagheggiamo noi umani nel nostro mondo onirico – non sempre appassionano) ma è sempre tenuto compatto dalla scrittura. Sfrondato di qualche orpello, il libro resta sapido, divertentissimo: lo scimpanzè padre che si “scopa” una rana, lo stesso che si mette in scena per il piacere fesso degli umani sapendo benissimo di farlo – manco fosse un attore che prende per i fondelli -, l’esilarante happening di arte concettuale, la scena della “prima volta” in cui il nostro fa l’amore con la “donna della sua vita” (proprio così), la ricercatrice che è il centro nevralgico degli avvenimenti: insomma, l’ottica straniante funziona a meraviglia. Lo scimpanzè tiene a dirci che ha imparato la lingua degli umani perché voleva comunicare. Dunque, nella sua visione delle cose lì risiede il prerequisito del linguaggio, nel desiderio di comunicare. Soltanto dopo, sostiene Bruno, “nell”impeto di sperimentazione e improvvisazione, arrivano la logica simbolica, il vocabolario, la sintassi etc”. Sia come sia, che abbia o meno ragione, è interessante come abbiamo dovuto fare un percorso paradossale per recuperare un valore vitale al desiderio in letteratura: mentre oggi, in questa lenta agonia dell’Occidente, spesso il piacere viene esplicitamente tematizzato come pulsione di morte. Ora, le cose non sono così semplici, e non basta una trouvaille seppure geniale per farla franca. La morte è presente anche qui – del resto, non si diventa “umani” impunemente.
Lo scimpanzè lo sa da subito, pronto com’è, all’inizio degli esperimenti a suo carico, “a dimostrare di saper essere irrazionale quanto qualsiasi altro essere umano”. Che sia adorabile però è un fatto; un altro così non lo troviamo in giro facilmente. Un primate puzzolente che scriva meglio della stragrande maggioranza di persone che in giro per il mondo passano per scrittori, ce lo dobbiamo tenere stretto.
Non perdiamo di vista Benjamin Hale.

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