Posto qui - ma stavolta interamente, e per una doppia occasione - un reportage sulla Cambogia già uscito qualche anno fa su l'Unità e ripubblicato ora nel numero 13-14 della rivista di letteratura internazionale "Crocevia" (Besa Editrice) . Consiglio anche di leggere Il sorriso di Pol Pot di PETER FRÖBERG IDLING (a presto una recensione)
Lungofiume a
Sisowath Road, dentro uno sfondo di luce ocra, che sembra già filtrata per un
film, cui il grigio vapore del fiume aggiunge ondate di riverbero scalfite
dalle palme e dall’indaffararsi rilassato di centinaia di persone, di tutte le
età - gente che passeggia, perde tempo, mangia. Perlopiù nel sud-est asiatico
mangiano a qualsiasi ora, quando hanno fame, quando ne hanno voglia. Alcuni
palleggiano con uno strambo affarino di gomma, che rimbalza elasticamente e
consente ai giocatori virtuosistici scambi (colpi di tacco, volèè) che nel
calcio mondiale di oggi – specie nella squadra campione del mondo –
difficilmente si possono gustare… E poi ragazze e donne in pigiama – pigiami indossati come
completini casual.
Una donna seduta per terra, che il pigiama non può permetterselo, ha accanto a
sé una bilancia scassata, rimediata chissà dove: uno passa, si pesa e le lascia
qualcosa. Chissà se a Napoli qualcuno ci aveva mai pensato.
Oggi è sabato, e
forse per questo, nella zona orientale di Phnom Penh, la vita sembra avere la meglio. Il
presente, la naturale, buddistica
capacità di vivere il presente (che non è un traguardo dialettico, una
liberazione che si ottiene ideologicamente come in Occidente, il risultato di
uno sforzo da chierichetti di sinistra, da Breton al ’77 – per poi finire,
palmare esempio di eterogenesi dei fini, con i mignottai dei reality show), il presente ha la meglio sul
dramma che non ha smesso di incombere su questa terra. Da Sisowath fino ai
giardini prospicienti il Palazzo Reale (quello che contiene la cosiddetta
Pagoda d’Argento: poche decine di metri quadrati in cui si concentra una
ricchezza materiale – fra ori, diamanti, smeraldi etc – formidabile, tanto per
introdursi in questo ossimoro vivente che è la Cambogia, un raro concentrato di
splendore e miseria), circondati da un impazzimento di motorini e di
automobili, che in strada seguono traiettorie imprevedibili in virtù di un
approssimativo codice della strada (i motorini non è raro vederli carichi di
quattro, cinque persone, nei camioncini si stipano come scimmie una sull’altra
a dozzine – le guide sconsigliano il noleggio di mezzi di trasporto), oggi
intere famigliole si stendono su stuoie colorate che alcuni vendono lì per lì,
e mangiano, riso ovviamente e volatili infilzati dentro oli di sconosciuta
provenienza e infinita cottura: piccoli uccelli rossi, la cui consistenza
plastica e cromatica come di rame, o legno laccato ti fa venire per un momento
il dubbio che siano statuette: Spiccano per la vivacità del colore in mezzo al
latte di cocco, alle cosce di rana, ai lunghissimi fagiolini crudi, agli
intrugli e alle salse improbabili. Le cavallette invece di solito le vendono a
parte, accatastate su piccole montagnole che suscitano insieme la curiosità e
il ribrezzo di qualsiasi occidentale. Mentre queste famigliole, che vengono
dalla campagna, qualcuna addirittura dal vicino Vietnam, mangiano allegramente,
fotografi avventizi le avvicinano per un ritratto-ricordo. Mi dicono che alla
primitiva discrezione negli ultimi tempi va sostituendosi un’intermittente ma
sempre più decisa improntitudine – e qui, l’illusione del viandante subisce un
duro colpo. Ti pare che l’incubo voglia inseguirti fin quaggiù, così lontano
dall’orribile Italia di questi anni: la peste della volgarità, intendo, quella
programmatica perché antropologicamente inestirpabile di governo.
No, abbagli o deliri o allucinazioni qui hanno un segno
diverso – certo, non stiamo fiancheggiando i campi elisi. Anzi, se c’è un
popolo che ha un’idea verosimile dell’inferno è questo. A Phnom Penh, un po’
distante dal centro, appena ti allontani verso la polvere dei quartieri
periferici, nel puzzo insopportabile delle discariche a cielo aperto, ti si
parano davanti agli occhi le macerie della storia. Nel 1975, la follia del
socialismo agrario di Pol Pot obbligò gli abitanti della capitale ad
abbandonarla in direzione delle campagne dove l’utopia si trasformò in uno dei
più feroci massacri del secolo scorso. A Phnom Penh restarono in pochi, le
famiglie vennero maciullate – basti vedere l’ex prigione ora museo di Tuol
Sleng. La città ricominciò a popolarsi nel ’79, molto lentamente, con la caduta
dei khmer rossi.
E’ in questo lembo slabbrato di terra dove il mondo
sembra disfatto, dove quasi la metà della popolazione vive sotto la fatidica
soglia di povertà che ti imbatti in migliaia di bambini. Due stracci addosso,
la meccanica del loro spazio-tempo ludico è circoscritta a poco materiale
accessorio. Mancando i giocattoli, inventano a partire dall’indigenza che veste
i loro corpi. Dentro o ai margini di ammassi d’immondizia, ferraglia, scassume,
fango, i bambini cambogiani giocano con le loro ciabatte: le lanciano con i
piedi, cercando di colpire quelle degli altri, o di raggiungere un punto
prestabilito. Ripetono gli stessi gesti per ore.
Be’, diciamolo subito, i bambini, le bambine cambogiane
sono splendide; la loro bellezza è assoluta e non teme confronti. E colpisce,
per paradosso, l’inoppugnabilità di alcuni riscontri oggettivi. Questi bambini
sono i figli dei sopravvissuti ai campi di sterminio di Pol Pot. In molti
vivono in mezzo alla spazzatura. I genitori, per chi li ha, possono fare poco
per loro. Debbono trovare presto il modo di sopravvivere – le ultime statistiche
dicono che uno su dieci non ce la fa. La malnutrizione è la regola; le
infezioni anche; le possibilità di cure scarsissime. Eppure la loro bellezza
lascia senza fiato; non stupisce che spesso vada perduta dopo l’adolescenza (al
contrario di quanto avvenga alle donne thailandesi, per esempio, le cui
condizioni di vita sono di solito diverse). Centinaia di loro invece di
chiedere l’elemosina, girano per la strada cercando di vendere libri, ognuno
portando a tracolla, legato con una corda, un cesto quadrato di plastica;
dentro, una quindicina di libri, metà dei quali è costituito dalle famigerate
guide lonely planet. I bambini, soprattutto le bambine, puntano l’occidentale
in vacanza, lo avvicinano (ti sbucano davanti anche a gruppi di otto, dieci)
tirano fuori la loro “Cambodie”, la loro “Burma” (Birmania o Myanmar) e con la
loro tipica voce cantilenante ti chiedono dieci, dodici dollari, che presto, in
successivi slittamenti di tono, diventano cinque o sei – ho provato, me ne
vergogno ma lo confesso, a partecipare a queste contrattazioni, per capire come
funzionava la cosa: non scendono mai a meno di tre dollari e mezzo. Il perché
me lo ha spiegato uno di loro: le comprano a tre dollari. Giustamente, se
insisti a offirne meno di quattro, ti guardano male. E ci ho messo poco per
capire che l’unico modo per non riempirsi la borsa di libri inutili è evitare
di guardarli negli occhi, questi bambini. Se lo fai, e poi non gli compri
qualcosa, la fatica per scrollarti il senso di colpa la senti di sguincio ma
inesorabile: l’oppressione dell’afa la senti sulla maglietta bagnata di sudore,
da fermo. Lo
sai che è sbagliato, che non puoi sganciare dollari a ogni bambino che incontri
per strada, eppure sei fregato lo stesso. Quando li trovi a servire in un
ristorante – dodici, tredici anni, sorridenti nella loro divisa, una camicia
bianca e una gonna al posto degli stracci, in cinque o sei che fanno a gara per
versarti l’acqua nel bicchiere, un posto dove stare e un pasto, almeno, al
giorno - non sai più se provi rabbia per lo sfruttamento o sollievo per il
fatto di non vederli per strada, o nascosti in un garage per il passatempo di
avventori indigeni e non. Perché non c’è solo il cosiddetto “turismo sessuale”
- etichetta sbrigativa che i decerebrati del politicamente corretto applicano
indifferentemente a situazioni diverse. E’ vero che mentre scrivo da uno degli
innumerevoli punti internet che trovi ovunque e paghi pochissimo (un dollaro
l’ora o poco più, contro i 5 euro pretesi in un qualsiasi bar della Toscana!),
il report del browser sulla cronologia recente dei collegamenti non lascia
scampo: ricerche sexually oriented di femmine e maschi più o meno cresciuti a Phnom Penh e
dintorni. Tuttavia – difatti questo il browser non me lo dice - occorre
ricordare che in Cambogia si registra un numero altissimo di stupri sulle
bambine da parte dei locali.
Ora, la domanda più pressante e angosciosa è questa:
quali sono i racconti con cui crescono i bambini cambogiani? Cos’è che dà forma
alla loro immaginazione, li inscrive nel mondo e li prepara al futuro? Se i loro genitori hanno trent’anni, se
i loro genitori nascevano sotto il regime dei khmer rossi (ben prima dei
quattro anni alla fine dei Settanta, le bombe americane avevano cominciato le
loro esercitazioni; c’era poi stata l’invasione vietnamita; dopo i khmer, non
sono mancate stragi da disseminare qua e là assieme alle mine presenti ancora
oggi nelle campagne) la domanda vera è: quali sono i miti fondativi con i quali
si fabbrica lo spazio mentale di questi bambini? Il racconto dell’inizio –
ossia ciò che dà forma ai paradigmi narrativi sui quali si modella qualsiasi
vita umana – non è già, qui, da subito, un racconto di morte?
Va da sé che non ci sono solo bambini in Cambogia,
sebbene i minori costituiscano il sessanta per cento della popolazione. La
presenza massiccia di poveri disgraziati che non ti dà tregua: mutilati, gente
che striscia sull’asfalto, donne che portano bambini nati da poco dentro sacche
lerce, a volte buttate per terra, a respirare gas di scarico e puzza diffusa di
marcio, di vapori culinari sospetti, il caos che in molte parti dell’Asia non
finisci di chiederti come si tenga miracolosamente in piedi. Se ciò è possibile
nel centro di Phnom Penh, in periferia accade dieci volte di più. Perché se
prima c’erano i khmer, ora avanza il capitalismo delle società compartecipate
dai paesi del sud-est asiatico, intenzionato a fare della città una nuova
Bangkok – e davvero, ne sentono il bisogno solo i palazzinari e i cultori del
brutto. A ogni modo, i più indigenti li stanno cacciando dal centro, un po’
come avveniva trent’anni fa. Muovono le fila capitali vietnamiti, coreani,
russi e appunto thailandesi, interessati sia ad affari immobiliari che allo
sfruttamento di risorse naturali. C’è l’idea di trasformare il bacino del Boeung Kak, il lago di Phnom Penh, che a detta dei soliti
geologi rompiscatole (direbbe il Marco Paolini del Vajont che “demoralizzano la
truppa”) potrebbe produrre inondazioni catastrofiche e avere conseguenze
ambientali disastrose. Gli amministratori locali hanno fiutato l’affare e alla
vita degli abitanti del lago preferiscono gli interessi degli speculatori. I
cambogiani sembrano perciò destinati a patire senza fine. Chi ha vissuto per
secoli nelle palafitte ora non può nemmeno ripararle, impedito dalla polizia
locale, così che è costretto ad andarsene per non morire affogato.
Non lontano da Phnom Penh, è avviata la
costruzione di una città satellite, con torri all’altezza di una qualunque
banale megalopoli asiatica, del tutto fuori tono con la bellezza del Palazzo Reale, della Pagoda
d'Argento, del Museo Nazionale, del Wat Phnom e dei palazzi coloniali. Di
contro, non c’è nemmeno un servizio di trasporto pubblico, esclusi moto-taxi,
ciclo-risciò e tuk-tuk. Gli ingorghi possono essere apocalittici – nulla di più
facile che perdere un aereo, a meno di mollare il taxi al suo destino di
immobilità, incollarsi il bagaglio sulle spalle e rischiare un’avventurosa
cavalcata su un motorino avventizio che non conosce marciapiedi, sensi unici o semafori rossi.
Negli occhi dei cambogiani a volte
non puoi evitare di intuire l’eco di ciò che è stato. E che non sia una
pigra fisima da turista informato, che conosce il dovuto, basta passare dalla
retina a un computo sommario; fare due conti. Se Pol Pot ne fece fuori un terzo
(dell’intera popolazione cambogiana), se non vi fu famiglia che non venne
smembrata, se non potevi che stare di qua (e renderti responsabile del
genocidio) o di là (e in questo secondo caso, se non morire, vedere altri
morire, o essere torturati etc); dunque, se tutto ciò è vero, è difficile
immaginare che vi sia un solo cambogiano vivente, come dire, fuori della
storia, che possa far parte di un’altra storia, che non abbia, quando non
vissuto in prima persona l’orrore, famigliari parenti o amici che l’abbiano
vissuto. Quell’orrore ti viene alla mente di continuo, a Phnom Penh, davanti
agli occhi sbarrati, come fissati in una sorta di agghiacciata stupefazione di
un uomo che ti serve al ristorante, ma anche in quelli di un guidatore di tuk tuk,
o di una donna seduta sulla riva del fiume. Sguardi spesso impenetrabili,
ossificati fra la durezza degli
zigomi, appena meno allarmati di quelli fotografati che ti sfilano davanti in
successione nella prigione di Tuol Sleng. E improvvisi mutismi, o altrettanto
abrupti scoppi di risa – a capire davvero, non ci riesci mai.
Nella prigione S-21 per esempio, ora
museo del genocidio, non ti decidi mai, fra l’ovvia necessità della
testimonianza e della salvaguardia della memoria, e la constatazione che ti trovi
lì, a segnare una tappa del tuo viaggio, in una catena sintattica che mette
insieme il Tuol Sleng col bellissimo museo khmer costruito dai francesi – tutto
di rosso, padiglioni aperti - meno di un secolo fa. C’è qualcosa che non va, in
questo. O forse è inevitabile; forse è inevitabile che i cambogiani abbiano
fatto un museo di una prigione e si facciano pagare per vederla – poco, a dire
il vero. Eppure, la sensazione che le migliaia di fotografie di poveri
disgraziati torturati e uccisi dai khmer rossi facciano parte della serie spettacolare delle immagini di un viaggio, mi inquieta assai.
Quando, da insegnante, mi sono trovato dinanzi alla proposta di portare i miei
studenti ad Auschwitz, ho sempre mostrato perplessità. Tempo che sia un fatto
estetizzante: il viaggio in treno, la visita alle celle, non so, non mi
convince. Mi dicono che in effetti ormai torme di scolaresche verbigeranti
fanno il medesimo, distrattissimo chiasso ad Auschwitz come a Disneyland. Così
anche l’ossario nel campo di sterminio di Choeung Ek, a 15 chilometri dalla
capitale, su una strada crepata, tutta
polvere e fango: mi vien fatto di pensare a questo più che altro, al
fatto che migliaia di militanti e intellettualini qui da noi abbiano scambiato
vicende terribili per straordinarie avventure politiche, magari da importare,
modelli di quella POLitica POTenziale che quel pazzo ostentava di perseguire.
Ma forse anche per questo, la contraddizione resta, e irrisolvibile: a
qualcuno, vedere dal vivo le tracce di ciò che è stato può servire, come si
dice, a futura memoria, e anche gli ossari necessitano di manutenzione. Nel
prodotto interno lordo della Cambogia, se Angkor la fa da padrone, la visita ai
killing fields (con tanto di
escursioni cinematografiche e riduzione della faccenda all’indutria
hollywoodiana) fa da complemento non disprezzabile. Anche la corte di storpi e
mutilati dalle mine che ti aspetta davanti a quei luoghi è ormai parte di una
specie di “sistema” che sta in piedi sulle proprie macerie – che di quelle
macerie vive.
Paese complicato, non c’è che dire.
Si dice che i cambogiani siano super-individualisti, ma lì si è fatto il
tentativo più mostruoso, violento e astratto di negazione dell’individuo.
Persino i matrimoni venivano imposti a caso -
un altro ossimoro. E’ una fesseria, probabilmente, ma per un momento
penso che solo una popolazione votata al delirio poteva dar luogo a quella
stupefacente visione fatta forma e materia che è Angkor, il complesso
monumentale forse più imponente del pianeta, centinaia di formidabili templi
immersi nella giungla.
Delirio di onnipotenza, ma delirio
visionario di sicuro, grandezza impareggiabile dell’immaginazione: stiamo
parlando di questo. Di un’enorme, meravigliosa topografia urbana che i khmer
disegnarono fra il IX e il XV secolo dentro un immenso organismo vivente di
risaie piantagioni canali dighe all’insegna di una geometria insieme di
irripetibile efficienza e spettacolarità. Questo superbo sistema che
incastonava nella giungla lo stupendo artificio umano di Angkor è stato nei
secoli successivi abbandonato e sommerso dalla foresta. Pol Pot era convinto
che il suo fosse un popolo tremendamente interessante, ed è difficile dargli
torto. Spietatamente gerarchico, convinto della propria superiorità.
Ora, uno dei modi di definire il
genio è la capacità di mettere insieme cose lontane - è la storia della poesia,
più o meno. Quando a farlo sono cervelli devastati dalla follia, impegnati in
politica, si rischiano catastrofi. Pol Pot, venuto in Europa a confondersi le
idee, mescolò inconfessate suggestioni nazistoidi di matrice etnica a
fantasiose riletture in chiave rurale del marxismo. Ne conseguì un delirio
criminale che provocò milioni di morti e l’invidia di parecchi scrittori di
fantascienza di scarsa immaginazione. Perché nella giostra di sinapsi che
incapricciava la testa di quel pazzo c’era il disegno di una perfezione
sociale, quale che fosse, ma insomma la fabbricazione di un sistema immanente -
impossibile e perciò stesso delirante – in cui gli umani fossero ridotti con la
violenza alla regola costruttiva di un disegno: gli uomini come frammenti della
laterite che impasta l’Angkor Wat (il tempio centrale, di splendida ma non per
questo meno misteriosa esattezza geometrica) inerti automi ridotti a blocchi di
pietra come quelli che compongono una delle più straordinarie concezioni
architettoniche della storia.
Va dato atto a Pol Pot che il suo
totalitarismo era, come dire, filologicamente meno scrupoloso di quello
nazista, più vorace e ondivago, ma non meno stringente quanto alle vie di
fatto. E di nuovo, vengono in mente i volti delle bambine cambogiane –
l’eleganza naturale e inavvertita (non il frutto di una complicata
sofisticazione intellettuale: insomma ragazzi, qui non c’è trucco), la
leggerezza appena indolente nella camminata di corpi di morti di fame
bellissimi, e ti chiedi
attraverso quale filogenesi si sia giunti a tale perfezione, perché proprio
qui, in questa parte di mondo.
A colpire, nella prigione di Tuol
Sleng, è l’ossessività nomenclatoria con cui gli aguzzini schedavano le loro
vittime. Le facce fotografate perlopiù sono attonite, terrorizzate; ma a volte
esibiscono incongrui sorrisi, perlopiù in qualche ragazzino che probabilmente
fa un ultimo tentativo di ottenere clemenza. Non si contano le donne, colpevoli,
al minimo, di essere sposate con
gente malvista. Il cartellino numerato sul petto, anche loro. E i bambini,
molti neppure decenni, delle cui colpevolezze sapevano solo le menti superiori
di chi andava fabbricando a colpi d’ascia l’Uomo Nuovo. Le mani quasi sempre
dietro la schiena; a volte invece nascoste dentro fasciature che avvolgono
entrambe le braccia. Assieme ai temporaneamente vivi, i burocrati della
prigione non mancavano di fotografare chi per le torture moriva prima di essere
trasferito al campo di sterminio di Choeung Ek. Qui le
vittime venivano trasportate a bordo di camion, chi ancora era vivo veniva
finito a colpi di bastone o di machete, per risparmiare sulle pallottole;
migliaia di persone.
Ora, se a Tuol Sleng, non le celle o gli strumenti di
tortura, ma la visione di quei volti, le migliaia di fotografie di morituri o
già crepati per le torture (corpi mutilati, scuoiati, carbonizzati) ti lascia
tutta la sera tramortito – e imbarazzato dalla tua veste di turista - , davanti
allo stupa di Choeung Ek, che conserva i teschi dentro teche di vetro su più
piani, davanti a questa cruda rappresentazione della morte in serie, ti chiedi non tanto se tutto questo serva a
ricordare o a fare - nel caso qui specifico – trascurabile business ma una cosa
forse più oziosa ma molto insistente nel suo rumore di fondo; ossia se serva ad
ammonire lo spettatore o piuttosto a consolarlo, a rassicurarlo che a lui tutto
questo non accadrà mai, a farlo sentire ingannevolmente migliore.
michele lupo