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L'ultimo inverno (Neri Pozza, la traduzione è di Luca Briasco), romanzo di Paul Harding, per un bel po’ non ha avuto vita facile. Ha collezionato decine di rifiuti editoriali. Poi è stato scoperto da una piccola etichetta no profit, la Bellevue Literary Press. In seguito alla pubblicazione è nato un passaparola di quelli rari, fortunato fino al punto di far conoscere l’autore a qualcuno che lo ha proposto per il Premio Pulitzer. E Paul Harding, nel 2010 il premio Pulitzer lo ha vinto.
Il sapore di favola della storia non insinua il dubbio che il mondo sia migliore di quanto pensiamo, ma piuttosto conferma la regola che per lo più si va avanti a fatica e molti ce li perdiamo per strada. Perché si dà il caso che stiamo parlando di uno dei maggiori premi letterari del mondo; quanti sono quelli che avrebbero potuto meritarlo almeno quanto L’ultimo inverno?
Oziose considerazioni parafilosofiche a parte, resta che questo è un buon libro con un ottimo avvio, un andamento misurato e costante sul piano del ritmo e degli accadimenti narrativi e un punto di forza indubitabile: uno straordinario trattato, con esempi doviziosi, dell’arte della descrizione. Di ciò che convince meno, dirò alla fine.
Siamo nel Maine, a qualche centinaio di chilometri a nord di Boston. Washington Crosby sta per morire e soffre di allucinazioni. Steso sul letto, vede la sua stanza crollare, i vetri disintegrarsi, il soffitto creparsi, le suppellettili rotolare una sull’altra, i parenti precipitarsi fuori, gli animali del bosco invadere la casa, gli insetti occupare le pareti, il letto, il suo corpo. Raramente vediamo gli oggetti con una tale definitezza e precisione di dettagli, di forme, colori; raramente ne percepiamo in un romanzo una tale consistenza materiale fuori da una poetica banalmente oggettuale: qui la mappatura delle cose non si esaurisce in un campionario di materiali inerti cui contrapporre lo sguardo nitido ma in fondo inutile dell’uomo occidentale perso in una realtà straniante. Perché gli oggetti nel romanzo di Harding sono presenze vive, anche merci come vedremo, ma come piccole divinità che accompagnano la vita di molte persone semplici in una quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Il padre di George, Howard, di mestiere venditore ambulante, ha trascorso la vita passando di villaggio in villaggio sopra un carro pieno zeppo di oggetti di tutti i tipi, appunto, “spazzole, olio di legno, polvere dentifricia, calze di nylon, creama da barba e rasoi, lacci per stivali, manici di scopa e spazzoloni”… E curiosi rimedi contro i malanni degli avventori… La bravura di Harding sta nel consegnare a questi oggetti un valore ben superiore a quello effettivo della merce di scambio; ce ne fa sentire il tramestio, e sa farne risaltare una sorta di magico potere evocativo. Oggetti che attraggono e respingono, dando colore alla vita.
Epperò quest’uomo fragile e silenzioso, falotico, non sembra giovarsene più di tanto. Ha dovuto lottare non solo per tenere in vita quattro figli sperando ogni giorno di vendere un po’ della sua mercanzia, ma soprattutto si è dovuto arrendere a un male beffardo e sinistro: l’epilessia. Un male che in famiglia è stato sottaciuto, quasi nascosto per la vergogna.
Il romanzo si scrive letteralmente nel travaso di precedenti omissioni che ora hanno bisogno di uscire dalla testa sbalestrata di George. Con un montaggio alternato ma fluido, osmotico più che cinematografico, si affollano nella mente ormai i ricordi del padre con quelli della sua vita, anch’essa legata a oggetti precisi(ssimi): gli orologi. La sua casa ne è piena, perché è con essi che George si è dato da vivere, con qualche patema d’animo in meno rispetto a Howard. Ricordarlo non è una passeggiata. Man mano che la storia si avvicina al suo cuore nascosto, dal ricordo del primo vecchio orologio acquistato assieme a un manuale per orologiai del settecento, passando attraverso episodi tremendi come quello in cui il bambino viene accidentalmente morso dal padre durante un attacco, fino al momento in cui la madre si appresta a far rinchiudere il marito, sondare quei dolori nascosti e quasi rimossi negli anni passati, gli fa male. Tutto questo mentre il tempo trascorre inclemente, la morte si avvicina, i meccanismi meravigliosi che fanno funzionare gli orologi, la maestria in virtù della quale aveva trasformato il lavoro di restauratore in un’arte, non possono salvarlo. Anzi. La fine arriva ineluttabile, il dolore si può solo attraversarlo, raccontarlo. In mezzo a una natura che sembra a sua volta "parlare" da ogni recesso. E può sembrar strano, ma l’eccesso di sapienza linguistica nuoce in parte al romanzo, così come certe venature romantiche: i pensieri che Harding mette nella testa dei suoi personaggi sono a volte troppo sofisticati per essere credibili, le parole eccessivamente eleganti. Quando è lo scrittore a “parlare” e non i personaggi, sono i secondi a perderci qualcosa. Quindi il romanzo stesso. Vale la pena però di essere letto, perché il piacere è ben maggiore della prima.