30 nov 2009

L'onda. Il raga.



Ci vollero un po’ di minuti, dieci, forse venti. Poi Livio prese il telecomando dello stereo dalla pila di libri che usava per comodino, accese il cd e si ridistese sul letto, nudo accanto a lei, semivestita. In posizione supina tutti e due. Fu allora che successe, dentro una specie di animistica requie il fiato di Giulia si aprì in una corolla di aromi - il suo corpo aveva la capacità di orchestrare una scenografia olfattiva irresistibile –, fu come se la sua voce si trasfigurasse in un’ altra, un tono incantatorio, un suono che sembrava sorgere da un alito arcano, lontano, era la voce di Parveen Sultana, raga da ultima notte, ultimo cielo, primo e ultimo... L’alap, al solito, era iniziato lento, come un cerchio avvolgente, sulla filigrana densa del tampura, do, re bemolle, mi bemolle, e poi di nuovo la tonica, e fu lì che si aprì la voce, su quel bordone primordiale che stava prima dell’ universo, che inglobava tutti i suoni dell’universo, e quando la voce si levò verso il sol ecco le tabla, a inventare un tempo, una scansione di tempo, e poi, inavvertitamente, una progressione, lenta ma incessante, e pian piano un po’ più veloce. Livio sentì soltanto il respiro, di Giulia, il sollevarsi del suo seno, quel corpo consegnato a se stesso, solo alla verità di quel momento lì... e fu uno scarto ritmico improvviso quello che gli fece posare con una naturalezza rubata al volo ai santi indù una mano sulle sue gambe, era il passo di danza di Shiva e Parvati, fa diesis e sol, il bottone della camicetta che saltò via da solo, come se le intenzioni degli umani e degli dei per una volta coincidessero alla perfezione, nella giustezza del tempo quand’ esso è puro, ignaro del fardello di ieri come dell’ansia di domani, fin lì si era sporta la voce, lo capì mordicchiandole i capezzoli, prima, e poi il ventre, fin lì lo aveva portato, su quella peluria umida e nera, ecco cos’era, attraverso quella voce sprofondava fin dentro l’origine del mondo, ora lo riconosceva, il quadro, lì davanti a lui, identico come l’avverarsi di una profezia, la stupefacente cava di carni, la chiusura del cerchio, il dittico cruciale, la torsione simmetrica aperta dalla magnifica schiena si avvolgeva e chiudeva infine nella rivelazione del dipinto di Courbet, microstoria dell’arte riepilogata nel corpo di Giulia Armena e tramata nell’ ipotalamo di Livio Viola per produrre ossitocina, ossia replicare l’unico portento della sua vita, indurire la verga...
... oh quanta improvvida tristezza amore mio - e non fu esattamente un pensiero, ma un asfodelo di luce che gli brillò nell’iride mentre cominciava a strofinarle la lingua sulla fica - lo senti il respiro di questi corpi che sono tutta la nostra vita, ora… lo senti... le diceva senza parlare, commosso da quel piccolo incendio di rimpianti bruciati come steli d’insensatezza, lui che non poteva seguirne le ombre in quel fato librato in spazi siderei solo per lei in quanto lontanissimi da lui che sapeva solo stare in ginocchio, lì, sulla terra... appiccicato a lei, accovacciato dentro l’origine del mondo...
... ave maria mia, Giulia e sultana...




15 nov 2009

Gianni Biondillo


Nel Nome Del Padre
(apparso su   http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl)


D’accordo, il tema merita. I padri separati penalizzati da una legislazione sbilanciata in modo smaccato in favore delle donne, o meglio, dei genitori affidatari, che sono quasi sempre le donne. Una scelta esistenziale, la separazione fa due coniugi con prole, o un destino inevitabile, quello che si vuole, che s’incancrenisce in un impasto malato di ragioni economiche, ricatti emotivi, agonie affettive e tracolli sociali: il merito di averne trattato, all’autore glielo riconosciamo. Bastasse il tema, però,, ci sarebbero milioni di scrittori al mondo, chi più chi meno sensibile a questo o a quello, chi più chi meno sul punto, al momento giusto, o munito di antenne vigilissime che riafferrano onde psichiche lasciate sotto traccia dal rumore bianco in cui siamo immersi.
La faccenda di cui si parla in questo libro non è priva di interesse. Peccato però che Biondillo ne faccia una storia didascalica, un repertorio di banalità, goffamente addomesticate da un tentativo maldestro di accattivarsi la simpatia, se non l’indulgenza, del lettore. A pagina 16, di due personaggi che rinunciano dopo i sogni di gloria alla musica, il narratore dice che “hanno appeso lo strumento al chiodo”. Sicché, egli stesso aggiunge fra parentesi “(Che brutto modo di dire. Perché continuiamo a parlare per modi di dire? Quale vuoto nascondiamo dietro queste frasi fatte?)”
Non tocca certo a noi dare una risposta. Il fatto è che Biondillo, noto per una serie di romanzi gialli che hanno goduto di un certo credito fra i lettori, con questa lingua scialba, satura di frasi fatte, sembra andarci a nozze. Il catalogo di luoghi comuni è fitto, e non si vorrebbe essere impietosi. Estrapoliamone qualcuno (per la verifica decida il lettore se ne vale la pena). Il protagonista, il padre disgraziato del titolo, che una ex moglie stronzissima costringerà a meditare il suicidio, è in un bar con Sandro, il suo migliore amico (scopriremo solo verso la fine che è con lui che la moglie lo tradiva, soluzione non proprio originale, ma tant’è). Li serve al tavolo una cameriera cilena. Sandro è uno che di solito con le donne ci prova, quindi lo fa anche con lei. Ordina fra l’altro un bicchiere di vino. – Rosso? – dice la donna. E lui risponde – Rosso. Caliente…
Qualche riga dopo, Sandro e l’amico continuano come sopra, fino a quando uno fa all’altro – Ma smettila, magari è pure fidanzata. – E il secondo – Qual è il problema? Io non sono mica geloso…
Si potrebbe obiettare che a parlare così, con queste battutine terra terra, sono i personaggi. Che tocca beccarceli per quello che sono, schematici, banali. Che se la donna non ha più voglia di scopare con il marito e comincia con l’accampare il solito “mal di testa”, l’autore non ha fatto altro che registrarlo, trascriverlo pari pari. Peccato però che la voce narrante s’intoni con disinvoltura a questa faciloneria (e non parliamo, beninteso, di indiretto libero, che sarebbe questione diversa). I “bastoni fra le ruote”, le cose che accadono “in fieri”, “ l’infanzia che è “un amalgama di sensazioni”, essere “felice come una pasqua”… insomma per un autore che in una recente intervista radiofonica ha rivendicato il merito di una “scrittura molto letteraria”, questi non ci sembrano esiti folgoranti.
Il libro ha uno scatto di tensione solo nella parte centrale e le soluzioni drammaturgiche non sembrano originali, piegate all’esigenza di un racconto troppo “dimostrativa” per essere convincente sul piano letterario. I dialoghi sono quelli di una fiction televisiva, e con una così lingua blanda, molto “rai”, molto “un posto al sole”, non si fa un libro ambizioso.








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