26 lug 2010

Giulio Ferroni - Scritture a perdere (la letteratura degli anni zero)



Cominciamo dalla fine. Ferroni invoca un principio di responsabilità dello scrittore rispetto al destino del mondo. Detta così sembra assai pomposa. E il rischio della retorica in effetti serpeggia un po’ per tutto il libretto del critico, che svolge considerazioni spesso condivisibili ma talvolta banali, fra il fastidio per la vezzosa scrittura dei soliti Giordano, Mazzantini e il noto poseur torinese (“de cuyo nombre no quiero acordarme”, scrive) e quello per la vacuità rumorosa di festival, fiere e defilé mondano-culturali.
Al netto delle ovvie lamentele per lo scempio di una vita ridotta a reality (al critico però bisogna riconoscere la schiena diritta di chi preferisce passare per barbogio e passatista piuttosto che abbracciare il neoestetismo degli scrittori che si vantano di vedere le lavandaie dell’”Isola”: qualche tempo fa lo ha fatto con tratto pensoso-paraculo Antonio Pascale nel salotto dell’ironista per principio Serena Dandini), sbucciando via insomma il di più necessario a impaginare il centinaio di cartelle, resta l’attacco alla “degradazione del linguaggio e della vita civile” cui molti scrittori italiani partecipano con scioltezza di manovra e gusto vanesio per la passerella - magari per segnalare, essi per primi, l'irrilevanza della messinscena.
Nella stessa cultura che si vuole alta l’andazzo in corso è accettato come inevitabile; nessuno più mette in discussione il fatto che un libro esiste solo se ha successo; nessuno crede di doversi giustificare delle contraddizioni che questo implica. Farei un passo ulteriore rispetto al libro di Ferroni chiamando alla discussione gli scrittori accondiscendenti che ritengono normale acquattarsi nel così fan tutti di un’operazione editoriale come quella responsabile de La solitudine dei numeri primi. In molti mostrano di apprezzare l’editor Antonio Franchini come scrittore in proprio, ma si guardano bene dal criticarne la regia che porta il romanzetto di Paolo Giordano non allo Strega, che va da sé (è “solo” un premio…) ma a una diffusa indulgenza critica. Se Ferroni scrive che il libro si risolve in “una scrittura plastificata” in cui “la scienza non c’entra nulla, non diventa in nessun modo principio di organizzazione del racconto, ma solo generica metafora della solitudine dei due protagonisti (…) in un intreccio di formule e presupposti mediatici, una superficialissima disponibilità sentimentale a un’immagine di dolore incantato”, ottimo di questi tempi per connotare il clima di “un’educata borghesia progressista”, ecco, mentre un critico scrive questo – e io sottoscrivo – ho l’impressione che molti scrittori siano affascinati dall’operazione, che la sognino per se stessi.
Perciò, l’equivalenza di cospicua parte del mondo letterario italiano con la beceraggine della comunicazione (sulla quale da tempo va scrivendo pagine più impegnative e stimolanti Mario Perniola qui) sta proprio nel rimosso che la costituisce: il motore, mezzo e fine insieme, è lo stesso: il marketing, l’efficacia economica - divinità suasorie che non risparmiano nessuno, tanto da consentire la riesumazione di decomposti cavalli di troia utili a replicare l’aura di duri e puri stando ben dentro al mercato dei libri che si ve(n)dono. Fino a qualche settimana fa non risulta che autori Mondadori o Einaudi si stessero facendo problemi sulle scelte che lo definiscono; finalmente - ora che va in piazza anche Sabrina Ferilli - è arrivata una lettera di protesta rispetto all’infame ddl sulle intercettazioni, acme di un’affezione non so se più acuta o cronica del corpo sociale di questo tristissimo paese. Di solito, scrittori che si straccino le vesti per la fine che sta facendo non ne vedi. I più fra gli scrittori italiani brillano per le loro “scritture a perdere” ma anche per l’assenza di partecipazione alle cose serie – vedi il disinteresse per la scuola. Credono di cambiare il mondo con un noir, o con una battuta molto ironica, mentre si aggirano sornioni - senza l’aria sperduta di Ferroni,  che non vede l’ora di scappare - fra Saloni e Fiere del Libro che al risveglio culturale di cui abbiamo bisogno come e più del pane partecipano zero, fatturato a parte - Mondadori e Einaudi, s’intende.

22 lug 2010

FLANNERY O’CONNOR Nel territorio del diavolo -


Questi brevi saggi della narratrice americana (1925-1964) per la  cura di minimum fax sono centrati sulla questione dello scrivere, tenuta con forza e concentrazione estrema dentro il luogo che in ultima analisi le compete: quello della verità. La narrativa secondo la O’ Connor ha da fare con i sensi e la materia giacché essa “è un’ arte basata sull’incarnazione”: personaggi in situazione, dall’azione drammatica dei quali lo scrittore tenta di approssimare il nucleo d’irripetibile individuale verità. Non spiegando e interpretando dall’ esterno, ma “guardando fisso le cose”. E’ interessante come la sfida della scrittrice cattolica assuma da una tale nozione della narrativa un’idea forte del mondo che fa a pugni con un’ America che negli anni scorsi, ahinoi, ha ricordato molto quella di cui lei fra l’altro scriveva: “Il revival religioso nazionale degli anni Cinquanta ha ottuso il senso critico, ogni forma di dissenso è slealtà, se non aperta ribellione”. Situazione culturale che evidentemente produceva un manicheismo reazionario ostile a un’ idea di letteratura come esercizio sulla verità, e che nei primi anni del nuovo millennio ha mpressionato per motivi ancor più drammatici.

10 lug 2010

Frammentismo novecentesco: Joyce fra avanguardia e racconto.




Scrivevo tempo fa che da più parti si smania per rimuovere il ‘900 dall’odierno discorso critico. Il fatto è che nessuno ci ha spiegato perché. Quando si voltarono le spalle al grande romanzo realista dell’800 si disse, per semplificare, che il paradigma onnisciente da esso implicato non era più credibile. Era lo stesso ‘8oo a nutrire in sé i germi di quell’implosione; la lezione nietzscheana (morte di Dio, fine della metafisica - a prescindere qui dalla lettura di Heidegger) preparava la frammentazione centrifuga del dettato romanzesco. Prima che letteraria la questione era epistemologica.
Che cosa sia successo negli ultimi trent’anni, a parte l’ostentato e reiterato proclama del bisogno di tornare al racconto, non è ben dato di sapere. Non che non dovesse succedere, ma spesso invece che a una rielaborazione critica assistiamo a giudizi sommari, ove più che altro si coglie la fregola di abbandonare a se stessi testi di non immediata leggibilità. Come questo Giacomo Joyce, tra tutti i titoli del grande scrittore irlandese certamente uno dei meno noti, nonché l'ultimo pubblicato – postumo, solo una cinquantina di anni fa.
Lavoro autobiografico, vi si racconta – se il  verbo non è improprio - l’infatuazione di Joyce per un’allieva del corso di inglese che lo scrittore teneva a Trieste negli anni della sua esperienza italiana. Anni che coincisero con quella che allora chiamavano "la mezza età". Il protagonista è dunque un uomo sui trentacinque anni (non i trentacinque di oggi, iniens aetas spappolata da una coatta estetizzazione di massa) che si innamora di una donna molto più giovane di lui, e che tenterà di sedurre  con le armi subdole, raffinate quanto inutili della sua cultura. E, come accade ai patetici antieroi dei romanzi dell’amico Svevo, anche qui il dotto seduttore, tumido del suo sapere e imbranato malgrado gli sforzi, fallisce. Di questo fallimento la prima pagina è presaga: la ieratica distinzione di lei, la vana conversazione di Giacomo che cita mistici e filosofi, la goffaggine del contatto e il rapido esaurirsi di quell'onda fabulatoria che non approda a nulla:  è già tutto chiaro dall’inizio.
I lettori attenti di Joyce si accorgeranno che alcuni tratti di questo libello compaiono mutati o ampliati nel Portrait  e nell'Ulysses: Joyce li utilizzò probabilmente pensando che il breve lavo­ro non sarebbe diventato un libro, non ravvisandovi quel modello di drammatizzazione che egli considerava come la forma artistica per eccellenza. Ed è proprio per questo che risulta un tentativo esemplare della scrittura novecentesca. La stessa difficoltà di definirla è sintomatica. Lì per lì sembra felice la scelta del Binni quando parla di prosa poetica; forse lo si potrebbe dire meglio poemetto in prosa. Vi è chi ha parlato, come riferimento compositivo e ideale, della Vita Nuova di Dante, modello non del tutto improbabile che Joyce conosceva e amava.
Per certo, come testimonia la riproduzione fotografica del taccui­no, il racconto appare tracciato alla maniera di un testo poeti­co, con ampi spazi bianchi, che rimandano a suggestioni di certa poesia mallarmeana e visiva. Motivi crip­tici inseguono e prolungano, in quegli spazi, i  meri significati dei grumi verbali. Pur mancando il pletorico addensamento di grovigli lin­guistici dell’Ulysses e di Finnegans-Wake, ci  troviamo anche qui di fronte ad una prosa che parla come nella poesia soprattutto attraverso il "come”. E il discorso, frammentato, stringatissimo e poi aperto in quelle rivelazioni bianche e allusive, rivela ancora una contiguità all’arte dei versi, dove le visioni improvvise  (definite "epifanie" dallo scrittore), che configurano una tipologia o dei caratteri, e svelano la realtà in un’intuizione improvvisata, saranno per loro laconica natura più prossime all"evocazione violenta di un clima, di un ethos, che a essere trasferite ad un esteso svolgimento di accadimenti concreti (che qui mancano perché la ragazza proprio non ne vuol sapere, ecco).
Se per le opere narrative maggiori si potrà parlare, come Eco ha fatto, di epifanie-struttura, qui invece abbiamo di fronte un'epifania della parola isolata, della microproposizione descrittiva che sradica le cose dalla loro condizione comunemente conosciuta, svelando della donna ambita l'immagine preziosa e inattingibile di cui sopra, attraverso rapide, coloristiche folgorazioni che fanno pensare alle rilucenti decorazioni del "romance" o all'arabesco muliebre di Klimt. Lo scenario è attraversato da nebbie oniriche che definiscono il solo spazio in cui diventa possibile realizzare il desiderio di possederla. Lontano da quei sogni ingannevoli, Giacomo non saprà, contraddittoriamente, non scorgere in lei pure dei "falsi sorrisi", una leziosa gentilezza, un’ambigua virtù: già qui, dopotutto, l'acre senso del grottesco che sarà di Ulisse. Il risvolto da umor nero di un esteta che non può accontentarsi dell’estetismo.

Edizione considerata
James Joyce
Giacomo Joyce
Guanda


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