28 mag 2010

rivisti-riletti - ELEPHANT


Regia: Gus Van Sant  -  USA  2003


Suburbs estesi a perdita d’occhio che succhiano dietro il lindore dei loro giardini una bella quota dell’energia planetaria, fucili acquistati senza problemi  via internet, ragazze che mangiano e deliberatamente vomitano subito dopo per non ingrassare, assenza totale del mondo adulto, libertà di essere  tutto e nulla: tutto questo nello sguardo fenomenologico che Gus Van Sant dispiega in un film ispirato alla strage americana di Columbine in cui due ragazzi massacrarono tredici persone senza che il citato mondo adulto avesse mai capito perché. 
Se il regista poco concede allo spettatore sul piano estetico nemmeno tanto lo fa su quello catartico della spiegazione psicologica o sociale, sebbene il montaggio fornisca sufficienti indizi per scaricare sugli USA dell'era Bush la loro tragica razione di colpe. Ma l’epochè della rappresentazione, anche se, come detto, parziale, è motivata dalla convinzione di non poter spiegare le cose che fino a un certo punto, come accade nella storia buddista dei ciechi che smembrano ognuno per proprio conto il corpo di un elefante e non capiscono di cosa si tratti: come gli adulti con i giovani americani, floridi e perduti.



25 mag 2010

Parla con me ma fatte capì.



Nel giorno in cui si compie l'ennesimo massacro sociale, poiché non ho parole e anche se le avessi non direbbero nulla della rabbia che le muove, e poiché un blog come questo non può nulla contro la ferocia turpe di ciò che in queste ore si decide fra consiglio dei ministri e ciò che resta del parlamento, be', dirò un paio di cose di ordine più strettamente culturale. La prima è una considerazione, la seconda è la dimostrazione che se un blog come questo non può nulla contro Tremonti, la cricca, le banche e gli italiani di merda che non pagano le tasse, qualcosa per altri versi si può fare.
Nella deriva in corso favorita dalla frana inarrestabile del senso critico e del coraggio di distinguere fra arte e comunicazione, fra letteratura e intrattenimento, la chiacchiera demagogica di stampo midcult dovrebbe assumersi qualche responsabilità. Che non lo faccia il poseur torinese che agli esordi vent’anni fa dichiarò esplicitamente di intendere la letteratura come spettacolo, che per esso ha ridotto al piacere di una cena – vino californiano e non Barolo perché più democratico, il primo – opere come l’Iliade, privata dell’Olimpo (che è come togliere l’aldilà alla Commedia dantesca), o l’immenso Moby Dick , che lo faccia un imprenditore di se stesso insomma si capisce. Quello che va meno bene è il coro allargato dell’indotto culturale.
C’è in giro, per esempio e non da oggi, una gran voglia di lasciarsi alle spalle i mostri sacri del ‘900 – o forse il ‘900, o solo i mostri sacri, per tenersi i mostri alla portata di tutti. Si affannano i pochi fortunati che hanno la loro rubrichetta retribuita di promozione editoriale che chiamano critica a fingere entusiasmi per operine impapocchiate alla bell’e meglio che ci mostrano vie “inedite” per abbattere i monumenti, imponenti e inerti, che possiamo finalmente lasciarci alle spalle.
Se non fosse che spesso si coglie un’acredine sospetta che attraverso il revisionismo critico sui grandi nomi cerca di sdoganare quintali di mondezza appiccicandole addosso l’etichetta di letteratura – perché a quella ci si tiene, va da sé. Com’è successo con Marx dalle parti del pensiero politico, piace ai più sbarazzarsi della complessità e ubriacarsi di divertimento chic – hai visto che la Dandini e Fazio non ti invitano.
Quando sull’inserto settimanale del “Corriere della Sera” il solito noto che la Dandini ha definito “il grande critico letterario” ha sentenziato “che palle Musil, Kafka e Joyce” si è sentito un gran fico. Molte signore mie appresso a lui hanno tirato il famoso sospiro di sollievo; nello stesso tempo abbiamo assistito a una valanga di “grandi scrittori”. Non gli autori del Processo, o dell’Uomo senza qualità – bensì disinvolti nostrani narratori specializzati in serial-killer (indomiti, gli uni e gli altri) in sedicenti prese di posizione politicamente scorrette, ahimé prevedibilissime, in performance enogastronomiche vendute come romanzi
Siamo o no in democrazia? Ce l’abbiamo o no una bella trasmissione culturale “de sinistra” che c’invita – garante il buon Michele Serra -  a leggere (e definire come “straordinari”) i libri (sic) di Roberto Vecchioni e Uolter Veltroni? Vorremo marcare la differenza con i minus habentes della pescivendola padrona dell’Isola? “Parla come parla la maggioranza della gente” – ha detto un  troglodita a Busi qualche mese fa. Erano entrambi in mutande, immagino facesse caldo. Siccome Busi, che ha scritto alcune delle più belle pagine degli ultimi trent’anni, non è un eroe, non lo ha picchiato. Michele Mari pare invece di sì, pare che gli si sia parato davanti, nel suo ufficio milanese, e gli abbia mollato un ceffone, al grande critico di cui conciona la contessa Dandini.
Qualcosa per certi versi si può fare.




22 mag 2010

Sono impazziti

Ancora un affondo. Cui bisogna rispondere mettendosi in gioco personalmente. Continuando a dire e a scrivere. Disobbedienza civile, ci mancherebbe altro.



21 mag 2010

Maria Luisa Busi

Metterci o toglierci la faccia. 
Quella che posto qui la conoscete tutti. 
Lo faccio per dirle brava e grazie, visto che lei non ce la mette più. 
Perché di eroi forse no, ma di esempi abbiamo bisogno eccome. 
Molti scrittori italiani, tanto per farne un altro, questo ardire 
se lo sognano. 
E anche il dire, non pare granché.
Chiacchierano sì, e l'enfasi non manca.
Ma poi la nascondono, la faccia, sotto una bella copertina - ché  toglierla è un'altra cosa. 



19 mag 2010

Intercettazioni: condanne per giornalisti e editori

Per quel che vale:  questa legge sulle intercettazioni, la censura preventiva ottenuta con la minaccia del carcere, è forse la cosa peggiore degli anni berlusconiani. La sua violenza è peggiore di quella del conflitto di interessi - anche il grande Altan può sbagliare. Qui, l'impunità trova uno strumento formidabile, ignoto al resto del mondo che diciamo civile. Il vulnus che produce per la cosiddetta democrazia non ha l'aspetto sanguinario dei fatti di Genova del 2001, ma impedendo l'ovvio diritto di essere al corrente delle cose, annulla alle radici la possibilità stessa di una vita democratica.

Dopo il rifiuto di aderire all'appello che la totalità degli editori ha promosso contro questa orribile nefandezza, Non so come gli autori Einaudi (quelli Mondadori va da sé) possano ancora e con tranquillità associare il loro nome all'impresa editoriale dell'uomo cui si deve il massacro in diretta di quel che resta (già macerie) - non c'è bisogno di fare nomi, ma ve ne sono alcuni che della loro presunta urgenza, come dire, ideologica? politica?, fanno cifra letteraria: dopo la new italian epic, mi aspetto una next strategy molto sofisticata.

Quanto a Genova, ricorderei che nelle caserme dei carabinieri c'erano Fini e Scaiola. Lo ricorderei a chi (micromega), a proposito della legge sulle intercettazioni, si domanda dove sia oggi il primo (ma dove volete che sia?!). Lo ricorderei alla grande maggioranza dei giornalisti italiani (che questa legge accetteranno senza tante storie: visti in blocco, specie in Tv, è un problema più nostro che loro)  che nei giorni dell'affaire vista-Colosseo, del secondo hanno ricordato diversi precedenti ma Genova no.



16 mag 2010

Alcofribas 6 - ERNESTO SPARAVVISTA DAL BALCONE


Ancora una lettura dal compianto Alcofribas, caro agli dei (il passo goliardico
sì spinto era forse un segno che non ce la faceva più: come non comprenderlo?)

ERNESTO SPARAVVISTA DAL BALCONE
L’ITALIA, OGGI COME OGGI (IL VIRUS COMUNISTA)
Acapìto Editore,  Pag  111  Euro 12,50


Il lavoro dello storico, si sa, conosce un momento di crisi.
La legittimazione che gli veniva dal rispetto dei protocolli procedurali, dalla serietà della ricerca sulle fonti oggi è considerata un fardello inutile, un’esibizione di pedanteria che non giova alla causa. Parla come magni innanzitutto, fatte capì, possibilmente damme ragione che è meglio. Ma prima ancora: di’ cazzate ma dille a mo’ de’ romanzo, dille nervoso, o superbo, o ironico, dille come cazzo te pare ma dille in televisione e fatte intervista’ da giornalisti accomodanti (da giornalisti italiani, diciamo). Questi i nuovi paradigmi del mestiere.
Oggi pertanto gli storici che vanno per la maggiore non sono storici propriamente detti e va bene così. Si chiamano Giampaolo detto Panza (perché lavora de panza e non con la capoccia che poi te vie’ er mal de testa), un certo Bruno detto Vespa per via dei comedoni in faccia porello e perché hai voglia de sbattelo cor canevaccio, te lo ritrovi minimo ogni anno a Natale (difatti essendo fuori stagione è chiaro che l’individuo è fatto un po’ a cazzo, entomologicamente parlando; si sospetta che sia stato geneticamente modificato a Palazzo Chigi), oppure Dajefoco Pierangelo (o Pierannununzio, perdonate l’amnesia).
Su questa scia sembra proseguire il lavoro di uno che invece storico di professione ci sarebbe. Parliamo di Ernesto Sparavvista Dalbalcone. Ne L’Italia, oggi come oggi (il virus comunista), ha messo insieme i suoi articoli pubblicati negli ultimi anni sul Corsega e ne ha fatto un libello assai chiaro nelle intenzioni e nella linea conduttrice. Va detto che non è un’antologia di testi vaganti pretestuosamente messi insieme per farne un bel volumetto elegante da esibire in libreria. C’è un filo abbiamo detto, una ragione unitaria che lo giustifica. Esso sta nell’individuazione definitiva del male indigeno, nella scoperta della causa prima e ultima dei nostri guai. Sparavvista Dalbalcone non la manda a dire: il problema in Italia si chiama Comunismo. Proprio così. ‘Sto cazzo de’ comunismo non ne vole sape’ de togliese dalle palle. E’ morto in tutto il mondo, da noi niente da fa’. Che tu leggi e pensi: ma sei sicuro? Pensi, ma questo dove li vede tutti ‘sti comunisti? Pensi: roba che a me certe volte mi viene un po’ de nostalgia, mica proprio del comunismo, no, ma della giovinezza. La solita storia no? Che te ricordi de quando eri giovane. E pensi: oh, se ne incontrassi uno, magari cominci a dire Oh, te ricordi? Te ricordi i festival dell’Unità, la puzza delle salsicce alla brace che saliva dentro casa? E poi non è mica vero che erano tutte cozze, ‘ste compagne. Ci avevi rimediato pure qualcosa, un paio de volte.
Insomma, leggendo nn momento di difficoltà arriva. Ma Sparavvista Dalbalcone va dritto per la sua strada. Dice guarda che i comunisti si nascondono, se ‘nguatteno, dicono e non dicono, e questa mentalità, la mentalità dei comunisti è più diffusa di quello che pensi. E’ una mentalità che ci lascia indietro, come paese. E’ una cosa così infetta che nonostante il cumenda abbia tutto in mano, comprese le televisioni di questi nuovi storici, l’Italia ancora arranca. Il virus comunista è ancora in giro a fare danni. Punto.
E una volta tanto il recensore un po’ sospettoso, si mette sul piano del semplice, ingenuo lettore. Il recensore pensa: perché debbo vedere sempre il sottotesto, le sottotracce, il sottosemaforo? Perché non farsi trascinare una volta dalla lettura senza il sopracciglio alzato del critico prevenuto? E pensa: se Sparavvista Dalbalcone gli dà dentro con tanta passione un motivo ci sarà. Lui vede cose che io non vedo. E’ uno storico o non è uno storico? E’ pure aggiornato!
Così lo segue sino in fondo, questo storico coi controfiocchi, forse un po’ fissato, un po’ autistico, ma lo segue fino all’ultimo capitolo, intitolato “Dopo la diagnosi, la terapia”. Qui il lettore mi scuserà, ma per ragioni di spazio il recensore sarà sintetico. Be’, nell’ultimo capitolo si dice a chiare lettere: “Comunisti, non è ora di alzare i tacchi? (sic). Comunisti che vi annidate nei gangli” (dice proprio nei gangli) “fate un favore a chi ci governa e fatelo lavorare, lui e gli italiani come lui: sparatevi, fatevi fuori, sopprimetevi”. Che il recensore sottoscritto un po’ si dispiace. Anche perché se ‘sto comunismo è come la nebbia che c’è ma non si vede, non vorrei che poi uno s’insospettisce di tutto e spara pure alla moglie insegnante che si lamenta del basso stipendio. Potrebbe pure pensare che è una manovra della disinformazione comunista. Che hai un terrorista dentro casa, addirittura. E’ un libro da meditare, lettori. 

Alcofribas

14 mag 2010

Ancora sulla servitù.



Continuo ad avvalermi di citazioni imbarazzanti; Carlo Taormina ha detto "Berlusconi? Sceglie schiavi e servi, non persone: sono tutte marionette. Non valuta le propensioni, le capacità etc. Gli basta che siano al suo servizio.".
Solgenitsin parlava della "selezione al contrario " delle classi dirigenti. Si prendevano i meno capaci, i più obbedienti. Si riferiva allo stalinismo.





10 mag 2010

Davide Longo - L'uomo verticale - Fandango




Un professore universitario, scrittore di successo, sparato via dalla vita pubblica e privata in seguito a uno scandalo sessuale analogo a quello raccontato nel gran romanzo di J.M. Coetzee, Vergogna, si trova a fronteggiare un paese sgretolato - il nostro, anche se mai nominato – in cui non funziona più nulla, si è interrotta ogni attività: non c’è più lavoro, scuola, banche, niente – l’apocalisse, dunque. Geograficamente, un Nord Ovest vicinissimo alla Francia e alla Svizzera, scenario di una violenza spietata, i cui viventi residui si difendono dall’invasione possibile degli “Esterni”, scappano terrorizzati e seminano a loro volta, avrebbe detto un nostro malvenuto connazionale, “terrore, distruzione e morte”.
Gli “Interni”, questi italici non molto diversi dagli alleati del connazionale di cui sopra, sono di per sé cosi bestiali da aver provocato essi stessi lo sfacelo in atto – che è della ragione, dell’etica, dei sentimenti, del tessuto sociale ma non del paesaggio, che resta bello e inalterato (rovescio leopardiano di un’umanità che non merita la natura che l’accoglie).
L’apocalisse - di un’Italia sperabilmente non prossima ventura, piagata da un male terribile, già postuma ossia capace di imprimere segni di vita solo in uno scenario infernale di già morti che con cadenza desultoria si affacciano sulla scena per aggiungere sangue a sangue - agisce più come antagonista che come sfondo nell’ambizioso romanzo di Davide Longo, L’uomo verticale, non immune da una certa ripetitività e acribia descrittiva che non invoglia sempre alla lettura.
Ronde, assassini misteriosi, bande di avvoltoi a caccia del poco o nulla che è rimasto dopo l’apocalisse (sulla scia del McCarthy de La Strada e del Meridiano di sangue) di contro a un personaggio mite, ex star della cultura, ex marito cui è impedito per anni pure di rivedere i figli, inadatto a fronteggiare questa violenza, la testa piena di citazioni libresche. Il protagonista sembra pensare attraverso le voci dei suoi scrittori preferiti, che in tutta evidenza non servono in un mondo ridotto a pura ostentazione di forza; cerca di tenere il male a distanza, teso non sappiamo se verso un’improbabile redenzione che solo un lettore molto paziente può verificare portando a termine la lettura.
Perché se lo scenario umano è interessante (proprio perché inquietante), non lo è altrettanto la lingua usata per narrarlo: la descrizione è spesso pedante, ingolfata, i dettagli si accumulano e il personaggio è invischiato in una trama di falsi movimenti che non mandano avanti la storia. La scrittura s’ingravida di gesti domestici, momenti puramente biologici, sudori umani e canini, tenta virtuosismi avventurosi (“La donna lo guardò come si guarda un uomo che si è orinato addosso” – ora, se c’è una lettrice che sa di cosa si sta parlando ci aiuti a capire, visto che un’esperienza de genere appare molto improbabile, uno, e di sicuro, se accadesse, quella stessa donna penserebbe che il povero disgraziato “si è pisciato addosso” non orinato, due, a meno di non essere una pervertita; e ancora “l’odore che emanava era quello delle cose appena venute al mondo, ma ancora prive di nome”: già, l’odore, a tratti è proprio quello, Torino, scuola Holding come la chiama malignamente qualcuno).
L’eccesso descrittivo insomma nuoce al romanzo. Il narratore non dice mai che un personaggio entra in macchina e parte, ma ”inserisce la marcia", eventualmente "fa inversione” etc; per troppe righe il protagonista ascolta “il proprio respiro affannoso e i battiti raddoppiati de cuore” o fa “schioccare le labbra”; e via di questo passo, troppe volte, troppo spesso.
Avesse tagliato, Longo, risolto meno lentamente certe statiche situazioni, azzardato similitudini meno improbabili, lo avremmo letto più volentieri.

4 mag 2010

Etienne de La Boétie e l'Italia



L’odierna ma non nuova subcultura di un popolo pigro, quello italico, cinico e sentimentale, di consumatori del già dato e sempre pronti a servire il padrone di turno, immuni da qualsiasi tentazione riguardante la propria dignità, sembra manifestarsi apposta per dar ragione alla lettura scettica e virile che dell’umana specie dette in un libretto memorabile ma sconosciuto ai più l’umanista francese Etienne de La Boétie.
Il Discorso sulla servitù volontaria di questo eccellente filologo, nato intorno al 1550, traduttore dal greco, consigliere al Parlamento di Bordeaux, configurava un ritratto di quelle che poi si sarebbero chiamate “masse” da prendere oggi come stoica lezione non per derivarne una pratica politica autoritaria secondo la classica vulgata di destra ma per piantarla con il piagnisteo dei “bisogni della gente” che essa saprebbe soddisfare rispetto ai birignao inconcludenti delle sinistre. Pensiamo alla stucchevole pubblicistica che vorrebbe l’uomo di Arcore dotato di grande carisma, laddove La Boétie scriveva con benvenuta lucidità che un tiranno non ha altro potere se non quello che gli altri gli attribuiscono.
Questo amico del grande Montaigne non se ne capacitava: gli altri animali, scriveva, quando vengono catturati, dimostrano di essere consapevoli della loro sventura, “si dibattono con tanta forza con le unghie, le corna, il becco e la zampa da dimostrare chiaramente il prezzo che essi attribuiscono a ciò che perdono (…) e preferiscono gemere sulla felicità perduta piuttosto che crogiolarsi nella servitù”.
La Boétie trovava quindi la chiave di lettura della tirannia non in un di più del carnefice, quanto in una disposizione volontaria delle vittime – contente di asservirsi al primo. “Questo tiranno non sarebbe necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla. Non è necessario che il paese si affanni per fare qualcosa per sé, purché non faccia niente contro di sé. (…) E’ il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che pur potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo cerca”.
Basterebbe un po’ di rispetto per se stessi, un banale desiderio di libertà che sia la propria e non quella del tiranno lasciato libero di fare ciò che crede – basterebbe avere l’animo di contraddirlo. 
 “Ciò che egli (il tiranno) ha in più sono i mezzi per distruggervi che voi stessi gli fornite. Dove ha ottenuto tutti quegli occhi che vi spiano se non da voi stessi?”. Per quanto pessimista fosse, La Boétie non poteva immaginare che la sua metafora si sarebbe trasformata cinque secoli dopo nell’enorme apparato di controllo costruito da milioni di teleschermi che ci guardano in luogo di essere guardati, che ci tengono buoni davanti allo spettacolo addestrati come domestiche bestiole. Né che il suo discorso potesse trovare agevoli e più tragicomiche conferme nelle vicende dell’homo italicus lungo un’arco storico che sembra non chiudersi mai. Mussolini, un po’ più spiccio, disse una volta che non era difficile farsi padrone di un popolo di servi (e alla vista di una mediocrazia così riuscita si sarebbe sentito uno sfigato).
Il libro è pieno di riferimenti al mondo greco-romano, dai cui exempla, alla maniera di Machiavelli – uno che gli italiani hanno letto come gli è parso e piaciuto, cioè alla cazzo di cane – il filologo trovava modo di cavare ragionamenti lucidissimi. “Ha qualche potere (il tiranno) su di voi che non gli derivi da voi stessi? Come oserebbe attaccarvi se non potesse contare sulla vostra complicità?”
L’infermità che ci condanna alla servitù è favorita dall’abitudine. Essa “esercita un enorme potere su di noi, soprattutto quello di insegnarci a servire e, come si tramanda di Mitridate che finì con l’assuefarsi al veleno, quello di insegnarci a inghiottire il veleno della servitù sena più trovarlo amaro” (suggerisco a proposito di questa nozione da niente che è l’abitudine di rileggere lo splendido saggio che Samuel Beckett dedicò a Proust). “L’abitudine – scrive ancora La Boétie – ci modella sempre a modo suo, a dispetto della natura. (…) La natura dell’uomo è di essere libero e di voler esserlo, ma prende facilmente un’altra piega quando è l’educazione a imprimergliela. La prima causa della servitù volontaria pertanto è l’abitudine”. E poi, siamo sempre lì, il “teatro, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori etc”, vecchi “strumenti della tirannide che addormenta i suoi sudditi”, i favori con cui si blandisce una parte del popolo, “zoticoni che non si avvedono di stare recuperando solo una parte di quel che gli appartiene” mentre il resto gli è stato tolto proprio dalla tirannia.
Anche sulla proposizione secondo la quale “il popolo ignorante è sempre stato così: disponibile e aperto verso il piacere che non può ottenere onestamente”, il caso italiano fa da luminosissimo esempio: mazzette e dritte e raccomandazioni mentre si viene spogliati di tutto. Diritti, giustizia, equità sociale. “Il popolino non è mai tanto asservito come quando ci si burla di lui”. E quanto gli piaccia ce lo ha ricordato recentemente Daniele Luttazzi, in un monologo che è tanto dispiaciuto a Francesco Piccolo, alla De Gregorio e altri sofisticatissimi ed eleganti cervelli della sinistra.
Ma qual è la molla segreta e più vera del potere? Non “gli squadroni a cavallo, le guardie, le alabarde,” etc. Non la forza come tale, insomma, piuttosto una rete di complicità che si allarga a dismisura, a partire da “quattro o cinque uomini che lo sostengono (il tiranno), complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, lenoni della sua lussuria, beneficiati delle sue rapine (…) Questi sei ne hanno seicento sotto di loro, corrotti che hanno alle loro dipendenze seimila che innalzano di grado, fanno dare loro il governo delle province o la gestione delle finanze allo scopo di tenerli in pugno, puntando sulla loro cupidigia o sulla loro crudeltà, perché essi le esercitino al momento opportuno e facciano tanto male da non poter più sostenersi se non alla loro ombra, da sfuggire alle leggi e alle sanzioni solo grazie alla loro protezione. Grande è la serie di quelli che vengono dopo…” la catena di comando e servitù dilatandosi in modo abnorme, ecco. Per cui, “a causa dei favori strappati ai tiranni si arriva a un punto ove quelli che traggono vantaggi dalla tirannide sono numerosi quasi come quelli che aspirano alla libertà”.
Verrebbe voglia di trascriverlo per intero, il libro di La Boétie, che non manca di notare lo zelo dei sottoposti, “vigliacchi e rammolliti”, i quali “non basta che eseguano gli ordini del tiranno, bisogna che immaginino quello che vuole e, spesso, persino che prevengano si suoi desideri”.
Potete agevolmente applicare alle figure disegnate qua sopra le facce quotidianamente vomitate in tivù, ridere dell’affanno con cui si cimentano nell’impresa, “essere intenti giorno e notte a riuscire graditi a un uomo, e a diffidare di lui più di qualsiasi altro al mondo!”.
Questo per le cerchie più strette - gli altri, la gran massa di italiani li vedete per strada, suppongo. La volontaria servitù che aspetta di rivoltarsi aggressivamente verso i più deboli è un dato niente affatto esoterico, verificabile nel rinnovato protagonismo di analfabeti padani, nord solo apparente di un altro sud, e nel fatalismo di quello propriamente detto, oscillante fra la ferocia malavitosa e l’accettazione di una subalternità animale indifferente alla legge e alla dignità.
Peccato che la narrativa italiana scansi come disdicevole il racconto di questa tristezza, costringendoci a tornare per l’ennesima volta al racconto busiano del Celestino Lometto che di queste nefandezze aveva fatto lezione – stanno tutti lì adesso a cercare le più immediate radici del male attuale negli anni ottanta: il perfido maestro li aveva raccontati in diretta, assieme al resto, servilismo compreso.

michele lupo

2 mag 2010

La scuola è finita






Questo appello è apparso prima su La Stampa e poi girato a nazione indiana


Sono anni che lo vado dicendo (perché lo sfascio non è mica iniziato con la Gelmini, della quale ho già detto che è solo una mascotte): o della scuola si fa carico l'intero mondo della cultura italiana - sebbene non sia un problema solo italiano - o essa sparirà dalla scena pubblica come può accadere a qualsiasi altro prodotto storico.
l'ho scritto per es. qui e qui e qui  Ora se n'è accorto Marco Belpoliti, speriamo che altri seguano, ma alla svelta.
Un appello di Marco Belpoliti
Cari Amici e Amiche di Nazione Indiana,
Vi mando queste poche righe che ho pubblicato ieri, 30 aprile, sulla Stampa di Torino. Sono scritte per il lettori di quel giornale, e in poco spazio. Ma credo che il tema del degrado della scuola causato dal ministro Gelmini e da questo governo sia molto grave. Tutti quelli che hanno figli a scuola lo toccano con mano ogni giorno.
Il mio articolo è davvero poca cosa, ma dice una cosa concreta, a partire dal caso del Liceo Keplero di Roma.
L’opposizione fa qualcosa per questo?
Mi pare di no. O se sì, non abbastanza.
Perché non usare il web per lanciare una proposta di mobilitazione, scuola per scuola, di fronte a questa situazione?
Nazione Indiana può fare qualcosa?
Tocca a noi reagire e non accettare passivamente quello che accade Come un destino ineluttabile: non ci sono soldi…
Un caro saluto
Marco Belpoliti

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