28 feb 2011

Il porcello, l'otre di lardo e lo psicopatico


“Nelle scuole di stato gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie”: ha detto così. Non ero a conoscenza del fatto che nelle famiglie italiane circolassero delle idee, ma registro che l’uscita del porcello segue quella “Dal Verme” in cui il suino princeps, l’otre di lardo, sbrodolò contro la scuola pubblica e i suoi insegnanti. Disse che inculcano l’odio.
In tv ora annunciano Sgarbi, prima serata: dirà che gli insegnanti inducono il sonno, l’acquiescenza, il rigor mortis.
Segue sparatoria.
Poi riforma.
Della riforma.
Poi zero.

23 feb 2011

L'invenzione del romanzo


di Michele Lupo
La lettura ad alta voce oggi è pratica diffusa solo nei luoghi deputati a readingsletterari moltiplicati sia dalla legittima necessità per molti scrittori di farsi spazio nell’oceano dell’offerta editoriale che da un certo compiacimento modaiolo e spettacolare.
L’invenzione del romanzo di Rosamaria Loretelli ricostruisce una storia della lettura dalla Grecia antica al Settecento, il secolo maggiormente implicato nelle argomentazioni della studiosa perché è allora che alcune trasformazioni diventano significative e il romanzo si afferma come genere letterario – a prescindere dagli episodi pur giganteschi del secolo precedente. In secondo luogo, e perciò, il volume è anche una storia delle forme narrative dall’epica classica in poi.
Nel Settecento dunque la lettura diventa silenziosa e interiore. Assistiamo a uno spostamento di focalizzazione dalla voce e dai gesti allo sguardo. Si afferma il romanzo e tutto comincia a gravare sulla parola in sé, più che sulla sua esattezza come avrebbe detto più tardi l’imprescindibile Flaubert, sulla tessitura di un organismo complesso fatto di rimandi in avanti e all’indietro, di tracce proteiformi e piste secondarie di personaggi luoghi trame che l’oggetto romanzo garantisce in virtù di una costruzione materiale precipua – una segnaletica monumentale e fittissima che il romanziere trama e disperde attraverso l’opera a piacimento e in cui, come nella vita reale, i fili narrativi si accumulano dentro lo stringente accadere del tempo, ben al di là insomma del tempo astratto e mitico in cui ancora vive il capolavoro di Cervantes, con il quale pure molti fanno nascere il romanzo moderno.
Pertanto, muta lo spazio temporale attraverso il quale percepiamo il contenuto del testo assieme al mutare delle posture corporali. Ed è piuttosto con Fielding per la Loretelli che si produce lo scarto davvero decisivo; lo scrittore inglese all’inizio del Tom Jones dichiara “apertis verbis” che si augura un lettore “bramoso di leggere all’infinito”. La storia assume un ruolo centrale e con essa il tempo, l’orizzonte d’attesa che il romanzo può soddisfare in modi più immediati.
Lo scrittore di romanzi approfitta della lettura silenziosa e individuale, del supporto libro (che qualcuno non a caso ha definito l’oggetto tecnologico per eccellenza –kindle permettendo) e edifica un’architettura complessa in cui ci si può muovere a piacimento – la metafora dell’edificio è spesa da Samuel Johnson a Henry James. Egli stesso rilegge e corregge. Il romanzo crea una dinamica di attese e rinvii in cui lo scrittore mistagogo porta il lettore dove vuole.
Non solo. La nascita del romanzo inglese moderno comporta un cambiamento anche nel lettore; la lettura silenziosa beneficia dei progressi della tecnica (diversità e maneggevolezza del formato, chiarezza dei caratteri, introduzione di nuovi segni grafici ecc.), propizi alla concentrazione. È per calamitare l’attenzione di questi nuovi lettori che i teorici e romanzieri d’oltremanica saranno costretti ad approntare una nuova estetica del racconto.
Peraltro, come ricorda l’autrice in un’intervista, “non può essere uguale l’effetto di un racconto letto da un rotolo, come accadeva nell’antichità classica, o di una lettura in piedi da un volumone incatenato a un leggio, come era nel Medioevo, o di un abbandono al godimento di un volumetto in copertina morbida, scorso con gli occhi mentre si sta stesi su un letto o sdraiati su una spiaggia“. Nel Settecento comparvero le poltrone, per leggere semisdraiati, le donne magari discinte. Ci fu chi si allarmò, allora, per le conseguenze “morali”.
La lettura silenziosa gode di un maggiore abbandono, certo – trovo però meno convincente l’idea che essa rifletta una condizione di passività. Rimanderei al gran libro di Neil Postman Divertirsi da morire perché è al mondo video che possono agevolmente rimandare certe considerazioni che l’autrice fa a proposito del leggere come atto “naturale e meccanico” (con le drammatiche conseguenze, chezPostman, che registriamo qui e ora).
Detto ciò, questo saggio di marcata robustezza teorica ci insegna a vedere nel leggere un gesto materiale, mostra come le posture corporali modifichino la percezione della storia: viviamo come leggiamo. Che “i testi non sono oggetti astratti (…) bensì il prodotto di menti e corpi in situazione”. Perciò, la differenza ha da fare con l’esperienza stessa non del leggere, ma del vivere (per chi se lo fosse dimenticato in questi strani tempi smemorati, viviamo solo nella storia, appunto).


20 feb 2011

Cosimo Argentina - Vicolo dell'acciaio

un po' deludente, alla fin fine

Vicolo dell’acciaio

Fandango


copertina del libro
Cosimo Argentina è un bravo scrittore, nonché insegnante di diritto (non so se ancora precario). Si è costruito una sua meritevole seppure non clamorosa carriera letteraria con pazienza e determinazione, a piccoli passi, guadagnandosi l’apprezzamento di non pochi adetti ai lavori.
Di solito, nei suoi racconti sfodera un umorismo amarognolo, a tratti sulfureo, una lingua crocchiante, tutta fisica, attenta ai valori fonici in un’accezione certo non poeticistica ma medio-bassa, in funzione di una rappresentazione ravvicinata e sbilenca delle cose. Difatti par di sentirli i rumori di questo condominio-casermone del vicolo dell’acciaio, in una Taranto poco meridiana, incupita dall’Ilva, il più grande impianto siderurgico d’Europa. Presenza monumentale quanto nefasta, chi più chi meno ne sembrano tutti segnati, la vita viene strappata a morsi, non senza rabbia e dolore da figure disperatamente alla ricerca di una via di fuga. 
Siamo dentro a esempi di vita che non sono intimistici perché non possono permetterselo: il lavoro, le condizioni materiali battono costantemente sulla psiche e sui corpi fuligginosi di gente che prova a vivere, sfottere, amare ma con un senso di disfatta addosso difficile da scrollare. Del resto, dice il narratore, abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa…. Non si sfugge insomma a un mondo “d’acciaio lavorato a freddo e a caldo (…) fatto di laminatoi, cokerie, bramma, tubi” etc.
Centrale la figura del Generale, il padre del giovane narratore, emerge dalle vicende con i suoi tratti severi, scorbutici, caratterizzazione esemplare di un uomo ruvido, che non ama le chiacchiere e sta ai fatti di una realtà durissima: lì si muore e ci si ammala con una frequenza che non sembra quella del mondo Occidentale. Il lutto segnato dall’acciaio, prima o poi è destinato a far capolino nelle vite di ogni famiglia.
Fin qui tutto bene - il romanzo di Argentina però non è privo di limiti abbastanza precisi; non tanto la mancanza di un plot, cui l’autore sembra francamente disinteressato, quanto il fatto che se la modalità narrativa privilegiata pare essere quella delle sit-com con le loro coartate unità di luogo, divertenti fino a quando non diventano asfittiche, anche la definizione dei personaggi e la lingua usata per raccontarli rischiano di non offrire molte sorprese se non nell’invenzione un po’ di maniera, nella battuta dialettale, nell’ammiccamento vezzoso di una spavalderia tragicomica ripetitiva. Il giovane narratore infatti attraversa il quartiere, il condominio, gli appartamenti e le singole stanze da una pagina all’altra dando l’impressione di aver visto già tutto, di sapere già tutto – almeno, questo arriva al lettore. Del resto, è il risvolto di copertina a dirlo parlando di personaggi “pittoreschi”. Ecco, il limite del romanzo di Argentina a mio avviso è questo: tradisce troppa smania di far ridere e commuovere tipizzando sia le figure sulla scena che la scena della lingua.



18 feb 2011

Luigi De Pascalis - La pazzia di DIo


"La pazzia di Dio": l'Abruzzo di un secolo fa tra guerra e miseria


La pazzia di Dio è una saga ambientata in gran parte nell’Abruzzo a cavallo fra Otto e Novecento e fa parte di una trilogia dedicata alla famiglia Sarra, schiatta di proprietari terrieri. Nel libro assistiamo alla storia di Andrea, prima bambino, poi adolescente e infine – quando un secolo fa le età della vita conoscevano rispetto a oggi un’accelerazione non troppo divertente - ragazzo maturo abbastanza da ritrovarsi nel carnaio infernale e senza senso della prima guerra mondiale. Le pagine migliori, non prive di momenti emozionanti, sono proprio quelle che arrivano assieme al conflitto. Fino a quel momento, il ragazzo “d’inverno sopportava la vita e d’estate gli pareva bella”. C’era poi stato il “Collegio degli Scarrafoni”, a Napoli, e lì aveva cominciato a capire che il mondo era un posto più infido di quello che pensava. La guerra fa il resto. La pazzia di Dio sottesa a quella degli uomini si prodiga per il solito servizio ai pochi delinquenti di Stato – inutile ricordare ignobili figure come il generale Cadorna, cui pure non hanno mancato in questo tristo paese di dedicare piazze e monumenti - esaltati più o meno interessati che invocano la guerra “come igiene del mondo”. 



La delusione successiva al conflitto, per gli ingenui mandati a morire, sarà cocente. Il protagonista è un po’ più sveglio, del resto “la dichiarazione di guerra è uno specchio magico, ognuno ci vede dentro quello che vuole”, lo avvertono una volta lì. E non ci mette molto a comprendere a cosa serva; qualcuno sibila: “I soldati vanno al macello per spirito di branco. Solo che i generali preferiscono chiamarlo spirito di corpo”. La guerra, viatico ingannevole di svolte capitali, promessa non mantenuta di nuove terre, via per scongiurare quella per molti ben più spaventosa di un’indesiderata emigrazione, più pitocca che epica, il terrore dell’Oceano da attraversare per raggiungere gli Stati Uniti o l’Argentina, la guerra scellerata degli straccioni impreparati e malissimo equipaggiati insomma, costituisce solo un’amara iniziazione alla vita, che non termina nelle turpi trincee, ma con il ritorno a casa, nell’immaginario paesino abruzzese nella Valle del Sangro. Niente è come prima agli occhi del reduce, se non l’apparente ripetersi del moto lento delle montagne abruzzesi: mentre l’epidemia spagnola enfatizza lo sfacelo, l’elegia e il candore lasciano il posto all’amarezza di scoprire che quel mondo, come era stato vagheggiato, forse non era mai esistito. 



La narrazione soggiace a uno stile limpido che simula a tratti l’oralità e addolcisce anche la ruvida asprezza delle rocce abruzzesi; si tiene dentro un tono costantemente alieno da spigoli o effrazioni, in una sorta di verismo favolistico, domesticato però solo in apparenza – siamo dalle parti del romanzo storico, anche sensibile a richiami mitologici,  che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già sappiamo. La lettura è gradevole sebbene percorra disegni narrativi tanto sapienti quanto convenzionali, senza schivare qualche ingenuità (il bambino che manca l’iniziazione erotica assistendo a un amplesso dal classico pertugio: il narratore scrive che il membro “era duro come un pezzo di legno”, laddove lui lo vede soltanto). Non propone attraverso una vicenda esemplare (la tipizzazione di una famiglia e del suo contado) una rilettura della storia sparandole grosse, né difetta nella ricostruzioned’antan. Un buon libro però con un netto sapore di déjà vu.
Michele Lupo


Luigi De Pascalis

La pazzia di Dio

La Lepre Edizioni


17 feb 2011

paradiso 17 febbraio

http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl

di mio: la presunta ironia di Dajefoco, cortigiano del suino più rumoroso d'Italia, a sua volta cortigiano del porcello di Arcore (ah, i cortigiani de 'na vorta!)

una lettura dell'ultimo romanzo di Cosimo Argentina (che sembra essersi fermato dove stava)

16 feb 2011

Una lettura de I fuoriusciti - Ivano Mugnaini

Un grazie a Ivano - DEDALUS


I FUORIUSCITI di Michele Lupo


È un libro forte, I fuoriusciti, schietto, capace di abbinare l'impatto  con il reale alla riflessione, seppure dentro le cose, nella corsa del tempo, con lo stesso passo e lo stesso sangue. Il sottotitolo, "Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette", è, allo stesso tempo, consono e (volutamente) spiazzante. Perché le fughe ci sono, ma sono parziali, imperfette, i ritorni auspicati, certo, ma beffardamente ciclici e claustrofobici, percorsi di umanissimi criceti in gabbie autoprodotte e autonomamente serrate buttando via la chiave. Ma le vendette, in questo contesto, non possono essere "trascurabili", se non nell'accezione ironica, abilmente sarcastica, proposta da Michele Lupo. Le vendette non sono trascurabili, sono definitive, vitali, oppure mortali, che poi, nel contesto specifico del libro, non sono concetti e realtà troppo dissimili. Le vendette pongono fine a storie impossibili, eppure vere, verosimili, giocate sul confine incerto tra simbolo e corporeità, metafora e materia. Sei racconti di varia lunghezza, quelli de I fuorisciti, libro edito da Stilo Editrice nel 2010 ma contenente racconti che l'autore aveva già pubblicato nel corso degli anni in riviste ed in altri volumi. Un percorso lungo e coerente, giocato sempre a viso aperto, in uno scontro con la vita armi alla mano, in cui lo scrittore non possiede né un fucile né una pistola, ma non è uomo morto in partenza: non lo è se può fuggire, scappare fuori, restando però sempre all'interno, dentro l'assurdo e la follia, la fame e la sete di vino e di corpi, la foga di cercare ancora, sperando di non trovare mai una chiave unica, univoca, per poter cercare ancora, in quel tragitto disincantato ma anche intensamente e fascinosamente lacerante, mai sconfitto, in fondo, che è la vita, la scrittura. Se lo sguardo è sincero, come nel caso di questo libro, e l'ironia è possente, capace di dare il coraggio di guardare dentro le cose, vedendo anche noi stessi, per un istante, senza compiacimento, e senza rabbrividire. Trovando la giusta dimensione allo specchio troppo nitido, arrivando perfino ad un sorriso, amaro, crudele a tratti, ma autentico, genuino.



Non potendo partecipare al Concorso "La vita in prosa" con testi editi, Michele Lupo ha inviato il racconto "Le lenzuola dell'architetto", coerente con i temi e lo stile de I fuoriusciti. Il racconto è stato prescelto nella fase preliminare del Concorso, e, seppure decisamente lungo, lo propongo qui di seguito ai lettori nella versione integrale.
I.M.





14 feb 2011

Come si ascolta il jazz - pdo


Ben Ratliff

Come si ascolta il jazz (Conversazioni con Wayne Shorter – Pat Metheny – Sonny Rollins…)

minimum fax


copertina del libro
Ben Ratliff, critico del New Yor Times, già biografo di John Coltrane, ha raccolto in questo libro quindici interviste-ritratti di jazzisti di fama più o meno storica. Si tratta in realtà di conversazioni – lo dice il sottotitolo – con pazienza concertate e “costruite” dall’autore assieme a musicisti del calibro di Sonny Rollins, Joshua Redman, Branford Marsalis e altri. Ascoltando dischi propri e registrazioni altrui in situazioni all’apparenza informali, a volte persino domestiche, con tanto di rumori di vita quotidiana e familiare, i musicisti presenti in questo libro si sono lasciati andare evitando l’atteggiamento difensivo che spesso (a mio avviso non sempre a torto) assumono rispetto alle domande della critica, segnate come sono da un linguaggio convenzionale o da un canone storiografico che possono allontanare il senso più profondo dell’esperienza estetica. L’altro rischio delle interviste ai musicisti, ricorda Ratliff, è quello di approfittarne per operazioni di marketing. Il critico americano è stato bravo nel favorire un’aria friendly all’origine della sincerità dimostrata dagli intervistati, la qual cosa fa guadagnare a tutta l’operazione un’intelligenza della musica (non solo jazz) molto interessante per qualsiasi appassionato. 
Ratliff nell’introduzione al volume dichiara i propri debiti con Leonard Feather, che inaugurò il blindfold test (test a occhi bendati), metodo nel quale si chiedeva all’intervistato di riconoscere l’autore della musica che ascoltavano, il che consentiva di tirar fuori un giudizio spassionato, meno segnato dal pregiudizio o dall’insofferenza personale. 
Così qui, succede che ognuno degli intervistati consegni senza volerlo una definizione della propria musica, o di cosa sia il jazz, parlando di altri musicisti piuttosto che di sé, sottolineando liberamente passaggi, modalità espressive, tecniche altrui. 
Prendiamo degli esempi; Sonny Rollins, incontrato in un momento non felicissimo, dopo la morte della moglie. All’intervistatore che gli chiede un giudizio su un suo concerto, il grande improvvisatore di sax tenore manifesta un’acuta ritrosia nel rispondere: “Io vedo le cose dall’interno”, dice infine - che a me pare una definizione limpidissima di poetica: perché fa a meno di gettare sull’opera la finzione di secondo grado che le viene dall’ideologia. In altre parole, una risposta onesta che rifiuta di archiviare la musica secondo tassonomie critiche che pretendono di collocarla (sia pure scivolosa com’è nel caso dell’improvvisazione) in un “contesto” di misure oggettive (vale per la musica qui un principio ben applicabile alla letteratura: oggi nella nostra lingua qualcuno si contende un presunto primato di necessità attribuendosi il valore di una nuova epica o, all’opposto, rimasticando cascami neoneoavanguardisti che avrebbero bisogno di dosi farmacologiche più massicce e possibilmente non omeopatiche). 
Ratliff ci mostra lo stesso Rollins rilassato che canticchia Fats Waller e si lascia sfuggire che una sua canzone “evoca tutta la scena di Harlem”, per poi dire a proposito di Charlie Parker che la sua “concezione ritmica era veramente una cosa dell’altro mondo”. Questo genere di conversazione permettendo ai musicisti di uscire dalle secche della critica, lascia emergere una serie di concezioni più interne al sentire dell’artista. Impressiona per esempio come spesso ritorni il concetto di storia, del singolo brano costruito come un racconto - attitudine che sarebbe nella musica di Louis Armstrong secondo Ornette Coleman, o in Lester Young ancora secondo Rollins. Coleman offre molte suggestioni culturali (non a caso ha ispirato un personaggio di Thomas Pynchon in V), laddove in Pat Metheny troviamo il concetto di collante, per cui il senso della musica, di un “brano” è visto nella sua capacità di costruire una sintassi, ossia, ancora una volta, una storia. 
E il racconto torna in fondo nella stessa scrittura di questo libro. Ratliffe è abile infatti nel passare dalla descrizione della scena in cui si svolge la conversazione, comprensiva spesso di un ritratto fisico, di una segnaletica della gestualità, del portamento, del modo di vestire, all’inserto biografico riassuntivo di una carriera - o ancora all’intervallo aneddotico dislocato attraverso veri e propri artifizi narrativi in altri contesti temporali: e tutto questo fa assomigliare il libro a una raccolta di short stories.
Completa il volume – fra gli altri anche Paul Motian, Bebo Valdés, Maria Schneider… - un’appendice di ascolti consigliati.

Michele Lupo






13 feb 2011

Una sobria Norimberga, noo?



Ne sentivamo la mancanza. Poi, in questo paese che a volte ti verrebbe di sognare luterano, severo, bergmaniano, finalmente è arrivata: lei, la salvatrice, l’emancipatrice, la vera femmina che non muore mai, che non è quella che scende in piazza (ma le piazze nei borghi italiani non stavano prevalentemente in alto, appena sotto il castello?), ma la femmina archetipica, prima ancora che mignotta: l’ironia, l’ironia italiana sparsa ovunque come un prezzemolo da supermercato, buona a giustificare qualsiasi porcata o pochezza (perlopiù coniugate), a salvarsi il culo qualora cambiasse l’aria, si sa mai, a non farsi beccare in castagna quando la proposizione è lasca, fessa, improbabile: spesso e volentieri.
È arrivata la sera del 12 febbraio, la sera del teatro “Dal Verme” (ironico, anzi no), quello dell’enorme mucchio di pus che dirige “Il Foglio” – giornale pagato dai contribuenti, da te lettore (ma non lamentartene, cerca di essere ironico) – circondato da un certo Camillo Tristo, chierico rimasto traumatizzato da piccolo appena si è visto allo specchio, convinto assertore come il suo capo(doglio) purulento della probità del magistero del papa-sorcio (un tedesco non avvezzo all’ironia se non involontaria, ma di stanza in Italia da tanto di quel tempo che all’occorrenza – nel caso per es. improbabile che rischiasse di vedere la magistratura intromettersi nelle faccende della Banca Vaticana – pronto a una svolta anche lui), salvo rimestare le carte in corso d’opera perché se il prezzo da pagare alla coerenza protestante è la disfatta, sempre meglio darci dentro di cazzo e di bordelli non essendo stato eletto casualmente a sacramento l’esercizio della confessione – dalle parti loro, intendo, di Santa Romana Chiesa della domenica, e gli altri giorni chi s’è visto s’è visto.
Dopo la performance nel ventre del “Verme” insomma (teatro il cui nome non era tutto un programma come pensate voi che difatti non avete colto l’ironia), bello cucco e avvinazzato, s’è presentato in televisione (la7) dal duo Costamagna-Telese, giulivi e allegretti pure loro – siamo italiani – un altro dei paladini del mucchio di pus di cui sopra (bisogna dire, pura letteratura vivente, quest’ultimo: magnifico e irripetibile esemplare di correlativo oggettivo, una composta coprostatica riassunta  - si fa per dire - in una vis fescennina lì lì per sbrogliarsi in diarrea). Il paladino, certo Dajefoco, si sperticava in applausi, al “Verme”, dava di gomito al coprostatico spronandolo a una performance spettacolare, eroica; ignaro, il siciliano piromane, o forse incosciente, della sciolta in arrivo (una lezione su Kant a Umberto Eco, mica cazzi); più tardi, brillo, è arrivato in tv, s’è assiso, ha sorriso, s’è passato una mano sui capelli come a sistemarsi un riporto che fortuna sua non aveva, e l’ha detta. L’ha detta la parola magica, la parola passe-partout più sputtanata d’Italia dagli anni Ottanta a oggi dopo “libertà”: ironia. Ha sfoggiato un largo e furbesco sorriso e ha ammonito la Costamagna – un biondo traliccio elettrico imperturbabile -  che come al solito non si capiva il carattere “ironico” della performance. Ce l’aveva, Dajefoo, senza dirlo, con un certo genere di coglioni, quelli così apostrofati dal porcello di Arcore, quelli che avevano pensato di non votarlo, quelli che non avevano capito che il duce d’antan non faceva male a nessuno, avendo escogitato il “confino” non come una punizione bensì come una vacanza forzata per “rinfrescarsi le idee” (peraltro, ad alcuni toccarono in sorte paesini dal clima salubre, con vedute niente male, non come gli alberghi della costa abruzzese, notoriamente non il meglio della regione, cui il porcello era stato costretto dalla sfiga che lo ha attanagliato in tutti questi anni, a parcheggiare i terremotati aquilani).
Insomma Dajefoco, autore pare di romanzi pupari, rideva; rideva non dello sconcerto del traliccio – che non v’era – ma di quello immaginabile nella serie dei coglioni di là dallo schermo; e anche prima, mentre il liquame intestinale del capo(doglio) sommergeva il “Verme”, se la ridevano anche il cyborg Santanché, e il paleofascista ministro della Difesa, che s’è interrotto solo un attimo per pigliare a calci un altro coglione che si era permesso di fargli due domande sull’affaire Ruby, la zoccola del Rif, montagne care ai freak de ‘na vorta (le canne difatti fanno ridere). Il coglione era un giornalista, d’accordo, ma poco ironico. Io l’ho ascoltato Dajefoco, e debbo dire mi sono divertito; insomma mi sono istruito, ho imparato, sono persino arrivato a una conclusione. Che per gli altri, per i giornalisti che in questi venti anni di merda si sono astenuti dal fare domande, e che hanno fatto pure una redditizia carriera, mi piacerebbe immaginare una sobria Norimberga. Vorrei sentire quel mantra così poco liberale, “ho obbedito agli ordini”. Sarebbe spiritoso, quasi ironico. Ironicamente, la sentenza sarebbe forfettaria: dieci anni per uno a pulire i cessi, a scuola. La mascotte di Tremonti, la signora diventata avvocato in Calabria e assurta a (ironico) capo dell’Istruzione, sarebbe contenta per il risparmio. E dentro, nella composta aula di cui sopra, porterei anche il “bivacco di manipoli” e mignotte che in questi anni ha legiferato per noi.
Naturalmente, sono ironico.








 
Una speranza non la si nega a nessuno; ne ho una tutta per me. Mi auguro che non venga in mente a nessuno, fra venti o quarant'anni, di proporci versioni aggiornate della "Grande Storia", quella che 
abbiamo visto per anni su rai 3Specie q
uel genere di puntate sui gerarchi fascisti o gli uomini del  fuhrer



12 feb 2011

da L'onda sulla pellicola

Nell’ufficio di Malerba in quel periodo di campagna elettorale c’era un via vai di giacche e cravatte coi fermagli d’oro. Molte, e riconoscibilissime, le vecchie teste di cazzo democristiane e socialiste che nel ‘94 avevano infilato il preservativo, si erano chiamate forzaitalia e l’avevano allegramente messo in culo all’altra metà del paese.







11 feb 2011

Philippe Djian - Incidenze

dal paradiso


Philippe Djian

Incidenze

Voland


copertina del libro
Protagonista di questo romanzo è una carissima carogna, un professore universitario quasi sessantenne, scrittore mancato, che passa da una studentessa all’altra, che le donne le scoperebbe anche da morte, cosa che quasi gli succede con una ragazza che dopo aver passato la notte con lui gli riappare al mattino stecchita chissà come chissà perché: ovvio e primo turbamento a parte, ci fa un pensierino su, Marc, poi lascia perdere e le chiude delicatamente le cosce – più che altro per sbrigarsi a occultare il corpo, della cui morte non ha colpa. Ma la colpa lui se la porta dentro a prescindere perché il vizietto nel suo ambiente non è gradito.
Senti echi di certo cinema francese in questo romanzo di Philippe Djian che pare scorrere attraverso il ripetersi quotidiano di una vita eccentrica ma a suo modo regolare: insegnamento – sesso con una studentessa - ritorno a casa dove il protagonista vive con una sorella di cui con l’andare avanti il lettore intuisce la verità inquietante. Le descrizioni sono secche, essenziali, precise, gli oggetti sembrano letti e ripassati attraverso successivi spostamenti dello sguardo in soggettiva e un’attenzione prensile; il paesaggio si impone non sai se come un’eco impressionista sulle vicende del protagonista o inventariato seguendo la lezione dell’école du regard. A tratti però le descrizioni si protraggono, come le digressioni, e marcano l’abulia del protagonista nella serie di interni ed esterni che rischiano di assediarlo - in certi momenti vorresti che la penna fosse in mano a Martin Amis. Ma come in quel cinema, un momento prima che decidi di averne abbastanza, ecco lo scatto: narrativo e stilistico insieme.
Il tran tran viene stravolto dall’incontro dell’uomo con la madre della ragazza morta: non per chissà quale scompiglio interiore dovuto al caso specifico, ma perché la donna, evidentemente di età di ben superiore a quella delle pischelle che il tipo suole portarsi a letto, dispone di qualità che Marc non aveva mai trovato sino a quel momento.
È solo allora che accetta finalmente l’idea di non avere nessun talento come scrittore, e la rivelazione gli giova, si sente salvo, si accontenta di essere un bravo insegnante, di portare qualche studente “al livello medio della produzione attuale (…)” visto che “le regole sono abbastanza facili, i primi posti non sono forse occupati da pessimi individui, più lesti di una scimmia?”)
Mentre qualche sospetto sulla morte della ragazza comincia a farsi largo intorno a lui, il suo capo – l’accademico imbecille e invidioso che non capisce niente di letteratura e (perciò?) gode di pieni poteri – minaccia di cacciarlo per le imbarazzanti avventure di letto e ne approfitta per corteggiare la sorella (“ci sarebbe voluta una legge contro sorelle di quel genere, sempre incredibilmente in grado di stanare quello con più rogna del circondario, il fidanzato più ignobile nel giro di cento leghe, lo stronzo assoluto destinato a rovinarti la vita per secoli”); ma il ricatto produrrà un esito tragico, scoprendo il lettore che in realtà la convivenza del protagonista con la sorella non si fa mancare i piaceri umbratili e cupi del sesso. Tremendo finale che non sveliamo. Uno scrittore di talento, Djian.


Michele Lupo
GustosoGustoso

I fuoriusciti

http://www.stiloeditrice.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id=330:lupo-michele-i-fuoriusciti&catid=53:nuovelettere-&Itemid=60

ricordo, per chi avesse difficoltà a reperire il libro, che può sempre ordinarlo online
- e anche direttamente all'editore senza spese di spedizione

questo poi è l'elenco dei distributori della Stilo regione per regione

  • C.P.E. - Centro Promozioni Editoriali Srl, S.S. 96 km 117+810 - 70026 Modugno (BA) - tel. +39 080 5354760 - fax +39 080 5309735, email:info@cpedistribuzione.com (Puglia, Basilicata e Calabria).
  • C.D.A. (Consorzio distributori associati) - Filiale di Roma, Via Pasquale II, 33 - 00168 ROMA – tel. 0661283620/0661008342 - Fax 0689280497, email: cda.roma@cdanet.it (Lazio).
  • EdiQ distribuzione - Runde Taarn s.r.l., Via Inglesina 44 - 21040 Gerenzano (VA) - tel. & fax +39 02 9689323, email:commerciale@ediq.eu . (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Campania).



9 feb 2011

Un'intervista

grazie a Katia Ciarrocchi per questa intervista che mi ha fatto a proposito de  I fuoriusciti  e non solo su 
http://www.liberolibro.it/a-tu-per-tu-con-michele-lupo-autore-de-i-fuoriusciti-storie-di-fughe-ritorni-e-trascurabili-vendette/


A tu per tu con Michele Lupo, autore de “I fuoriusciti. Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette”

9 febbraio 2011 |
Michele Lupo, critico letterario, scrittore, insegnante e quant’altro la sua creatività necessità di confrontarsi”, sintetizzando ti presenterei con le parole sopracitate, ma mi chiedo: se Michele Lupo si dovesse raccontare come lo farebbe?
Critico letterario direi di no, leggo libri e mi limito a tenerne una qualche traccia. Per quanto mi riguarda, temo di essere un nevrotico che cerca di trovare scampo nella scrittura, propria e altrui.
Non sei nuovo dell’editoria, hai in attivo un saggio su Boccaccio e un romanzoL’onda sulla pellicola: come ti rapporti con le case editrici, cosa pensi dell’editoria a pagamento?
Con le case editrici è una fatica di quelle eroicomiche. Molti non sanno fare il loro mestiere, nemmeno promuovere ciò che fabbricano. La cosa più comica di tutte è l’assillo con cui cercano di classificarti: ben prima di decidere se la tua scrittura è buona oppure no debbono capire come potrebbero piazzarti. Poiché io sono inclassificabile, capisci che le difficoltà aumentano… Poi ci sono quelli che non solo ti chiedono soldi ma pretendono pure per contratto che tu faccia lo scemo in giro, in modo da attirare l’attenzione. Una volta, negli uffici di un editore romano ho provato a farlo con sua moglie ma non ha apprezzato – lui.
Scrivere Boccaccio, uscendo della retorica, non è cosa facile. Come nasce il tuo saggio su Boccaccio?
Dalla tesi di laurea. Amavo il comico. Leggevo Bachtin. Pensai che fosse un modo, il carnevalesco – categoria allora declinante ma ancora spendibile nei sonnolenti ambienti accademici – per tirar fuori “il boccaccesco in Boccaccio”, come scriveva Guido Almansi, ossia il suo proprium, benché tenuto fuori dalle aule scolastiche. Bachtin e Foucault e Bataille come lasciapassare per ricordare che nel Decameron innanzitutto e perlopiù si scopa. Furono tutti contenti. Vittore Branca – un’autorità mondiale in materia – mi inviò una lettera che conservo gelosamente in cui registrò che avevo scritto le parole definitive sul parodico in Boccaccio. C’est tout.
Alain Elkann, scrittore e giornalista, ha detto: “Chi ha letto dei libri e ha il gusto della lettura certamente si trova meglio di chi non li ha letti, perché leggere libri è come laurearsi continuamente, come continuare ad andare avanti, a studiare, a conoscere, nulla ti insegna più dei libri.
Credi sia fondamentale leggere per divenire un buono scrittore?

Mi pare il minimo. Se vi sono eccezioni, appartengono al calcolo delle probabilità.
Recensisci libri importanti, le tue letture non sono mai banali e riesci ad essere critico rispettando sempre l’autore; come ti poni, tu scrittore, dinanzi alle critiche soprattutto se negative?
Medito. Porto pazienza.
Quali letture credi fondamentali per la formazione di uno scrittore?
Ognuno ha le proprie. È utile anche la lettura dei cattivi scrittori: quando un libro non ti convince, impari quello che non devi fare.
- Ti metti in competizione, – perché il mondo dell’editoria è una competizione non facile viste le uscite annuali di libri -, con una raccolta di racconti, I fuoriusciti, non credi possa essere una scelta azzardata visto che i lettori preferiscono in gran lunga romanzi a raccolte di racconti?
Negli anni ho scritto un po’ di racconti e ora mi era venuta voglia di metterne insieme qualcuno. Leggo e scrivo da tempo, il rischio lo conosco. A fine anno, la Edilet pubblicherà un racconto lungo – o romanzo breve, non saprei bene come definirlo. In mezzo, spero per maggio, un romanzo vero e proprio, il cui passo forse mi si addice di più.
C’è un abisso, narrativamente parlando tra “Gatti del sud” e “Ego te absolvo”, sia stilisticamente che nella trama, mentre il primo è un racconto che vive e permette al lettore di viverlo, il secondo sembra più un flusso di coscienza. Non credi che questa differenza di narrazione sia penalizzante? Con quale criterio hai scelto i racconti da inserire nella raccolta?
Ne ho proposti una decina all’editore e lui ha fatto delle scelte – non le ho condivise completamente, ma abbiamo trovato un punto d’intesa. Approfitto della tua osservazione per farne una a mia volta – ribadita più volte. La differenza di lingua, tono etc è per me tutt’altro che accidentale. Per me, sono la storia e i personaggi a fare lo stile, non l’autore. Si dice che uno scrittore debba trovare la propria voce – è un assunto un po’ specioso. Dipende dal libro. Se riesco a sparire dietro un personaggio, credo di aver lavorato al meglio. Cerco la sua voce, non la mia. Poi può darsi che la sua e la mia si assomiglino, succede suppongo ne L’onda sulla pellicola, il mio primo romanzo, e probabilmente ancor più nel terzo, che sto rivedendo. Se non avessi la possibilità di giocare con queste voci per farne emergere una qualche verità profonda, non mi divertirei.
Ne I fuoriusciti penetri la mente umana, soprattutto in personaggi “contrari, usciti”, descrivendo paturnie e disordini inerenti al mal di vivere. A tuo avviso cos’è capace di fare la mente umana se lasciata libera di agire?
Nel peggio non le è precluso nulla, lo insegnano i ducetti e le maggioranze silenziose che li appoggiano – i criminali disperati e soli possono essere più dignitosi. Nel meglio nemmeno, ma questo vale per i pochissimi che hanno concepito l’inconcepibile. Al riguardo vorrei dire che bisognerebbe avere rispetto per la vera grandezza (l’ammirazione oggi sembra fuori portata). Mi pare che la democrazia liberale – almeno in Italia, se v’è mai stata – abbia appiattito le differenze non meno di quanto abbia fatto il socialismo reale, solo che così la vanità di ognuno può farla da padrona. S’inventano grandi scrittori da tutte le parti, ma se ne citi uno grande davvero ti dicono, i nostri che tali si credono, che guardano l’Isola dei famosi. Questo modo di credersi snob è una cosa da idioti.
Qual è la più grande aspirazione di Michele Lupo, ma soprattutto cosa vuol trasmettere al lettore?
Raccontare personaggi indimenticabili, anche pessimi, ma possibilmente più vivi dei troppi mai nati che ci circondano.
In cantiere hai un secondo romanzo, Rosso in fuga, cosa ci anticipi?
Una gran brutta storia. Anzi, due in una, e altre limitrofe. Sottobosco editoriale e sentimenti estremi. Humour nerissimo più che noir: un’ilaro-tragedia, con tutto il riguardo possibile per l’inarrivabile Giorgio Manganelli.
Grazie Michele per la disponibilità che mi hai riservato. Sono certa che “I fuoriusciti” non mancherà di entusiasmare raggiungendo così il meritato successo.
a cura di Katia Ciarrocchi


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