17 mag 2011

Canti in paradiso



Kevin Canty

Dove sono andati a finire i soldi

Minimum fax, Pag. 187 Euro 13,50


copertina del libro
Kevin Canty è un bravo scrittore che non aggiunge però molto al già visto e al già detto da una grande tradizione letteraria, quella americana degli ultimi sessant’anni, che sulla famiglia ha esercitato una riflessione ricchissima, imprescindibile non solo per qualsiasi scrittore volesse a sua volta misurarsi con l’argomento, ma buona per qualsiasi lettore giustamente afflitto dall’inconsistenza teorica (perché letteraria) di centinaia di manualetti di psicologia che hanno volta per volta seguito questa o quella scuola ripetendone deliranti schemetti interpretativi salvo buttarli dalla finestra una volta passati di moda.
Le famiglie messe in scena da Canty assomigliano a quelle di Carter, Yates, Dubus, che sembrano nascere già precarie, orientativamente liberal più che destrorse, tentate a volte, all’apparenza, da modelli aperti, progressisti. Famiglie altre volte svagate, di quelle che s’illudono di conoscere le trappole della vita borghese, che sanno come evitarle e ci finiscono dentro con un di più di tragica ironia. Perché naturalmente si sbagliano. E famiglie ipotetiche, morte sul nascere.
Dal primo racconto, brevissimo, che dà anche il titolo alla raccolta, 'Dove sono andati a finire i soldi' emerge la capacità da parte di Canty di predisporre con poche immagini tutto il senso di una distanza irrimediabile, di un fallimento senza vie di scampo di una coppia scoppiata. I maschi e i bambini sembrano più ancora delle donne soffrire di una cupa fragilità. Nel racconto “Terra bruciata” un bambino che gioca male a pallone fa vergognare sua madre, non esattamente la mamma ideale, che vorrebbe sentirsi all’altezza degli altri genitori non a caso interessati solo al fatto che i figli vincano, appunto, più che giocare e divertirsi. L’amante della donna, che però non è il di lui padre – non solo per motivi biologici ma per manifesta inettitudine al ruolo, essendo uno sbandato senz’arte né parte - cerca di riscattarsi in un pomeriggio diverso dagli altri sforzandosi di essere l’uomo che non è mai riuscito a essere.
Nel racconto “Non c’è posto per te a questo mondo”, un altro bambino non riesce a non mordere i suoi simili all’asilo e questo semplice motivo tira a sé, come dentro una buia voragine, tutto ciò che lo circonda. 
Vero che certi tagli obliqui delle storie, il recupero di dettagli apparentemente marginali e poi collocati in un punto strategico della vicenda non sembrano particolarmente originali; vero che insomma Canty si fa leggere non senza gradevolezza (sebbene si tratti sempre di tristi storie) ma vero anche che sembra abbastanza epigonico rispetto alla tradizione nominata prima. L’oppressione della famiglia con tutti i suoi corollari quotidiani di cose da fare e faccende da sbrigare nella speranza di dare il senso stesso a una vita che invece non ce l’ha, perché aspetta solo il momento della catastrofe, ecco è qualcosa che conosciamo fin troppo bene.
L’ingombro che grava su queste vite è quasi sempre risaputo insomma, e riguarda in uguale modo uomini e donne, genitori e figli. Cercano di sfuggirvi, si aggrappano a un momento qualsiasi di speranza, come se da uno sguardo dipendesse la possibilità di riprovarci, perché anche quando all’esterno va tutto bene, dentro questi personaggi si macerano di brutto. Il narratore ha l’orecchio fine, questo è chiaro, sente i suoi personaggi fin dentro le fibre emotive più nascoste. La disperazione è gelida, senza ritorno. L’angoscia esistenziale, irrecuperabile. Certi scivoloni della traduzione invece si potevano evitare, non è necessario star dietro a qualsiasi cascame della lingua: che bisogno c’è di espressioni tipo “da paura” per dare il senso del parlato, della vividezza di una lingua? Suona finto, invece.

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