30 dic 2009

Howard Jacobson


Kalooki Nights
Cargo, Pag. 568 Euro 20,00


(apparso su http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=515)

“Ero stufo dell’etichetta di ‘maggior scrittore ebreo britannico’. Ho studiato a Cambridge, ho insegnato Dickens e Jane Austen; la mia è una famiglia di ebrei illetterati che in sinagoga non sapevano da che parte girarsi. Ho scritto storie ebraiche ma ripetendomi di continuo: ‘Ebrei, ebrei, ebrei. Perché parlate sempre di voi?’. Kalooki Nights nasce da queste contraddizioni. Non volevo cominciarlo, poi ho pensato: al diavolo, non devo giustificarmi” : così l’autore in una recente intervista.
Da quando in qua qualcuno deve giustificarsi per aver scritto un bel libro? Certo, ci piacerebbe sapere che cosa pensa uno scrittore di questo calibro dell’orribile macello in corso in Palestina, ma sforziamoci di scacciare i brutti pensieri che oggi Israele con raccapricciante facilità ti trivella in testa e restiamo sul punto. Che consiste in una prova ennesima di gran valore di quella particolare vena della letteratura ebraica in cui un narratore irretito nella propria comunità di appartenenza racconta ed esibisce in prima persona il contraddittorio rapporto con il suo mondo - qui, i ghetti di Manchester, che sembrano riprodurre pari pari le fisse le ubbie i tormenti di uno shtetl dell’Europa orientale, sempre alle prese con il traumatico macigno dell’Olocausto.
Ciò che si ama nel libro è proprio la voce, il ritorno sulla scena di un monologare che a certa narrativa è peculiare, una tragicomica maniera cui qui manca a volte un po’ di sana cattiveria essendo l’allestimento delle idiosincrasie più spesso un catalogo altrui che un campionario di vezzi in proprio.
Max Glickman, vignettista impegnato da ragazzo a scrivere un enorme fumetto dal titolo Cinquemila anni di amarezza che ripercorra la vicende del popolo ebraico (è o non è la memoria, vocazione dell’ebreo?), guarda il suo mondo con irritazione affascinata; ne partecipa schivandone le ossessioni, favorito in ciò dallo scetticismo di famiglia, un padre ateo e comunista che però quando si arrabbia parla in yiddish, e la madre tutta presa dal Kalooki (una specie di ramino). Glickman, “capace di dubitare di tutto, ebreo ma non completamente”, con una passione eccentrica per le fanciulle che hanno una dieresi nel nome, preferibilmente gentili, irride la cultura ebraica ortodossa (un certo “sionismo muscolare della mente”) ma non può farne a meno: tutto è visto dentro o in contrapposizione a quel mondo. In fondo, “un ebreo è un tormento per se stesso”. La stessa contraddizione percorre il filo rosso del romanzo, l’amicizia con Manny, prima negletto per i suoi stereotipi di cui è vittima così assurda da gasare – lui! – i propri genitori, e poi “ritrovato” dopo l’omicidio. L’ambivalenza, prima che un modo è un metodo; il portato che ne deriva è la divagazione. Scartare verso l’alterità consente di guardarsi anche con gli occhi degli altri: così si cifra in quella storia il genio di ridersi dietro (inutile ricordare che non risultano antologie di barzellette contro se stessi dentro il catto-islamismo di tutti i tempi).
Insomma, Jacosbon ha scritto un libro paradossale. Kalooki Nights fa ridere ed è un romanzo pieno di rabbia (anche queste sono parole dell’autore). Fa ridere ma pretende molto dal lettore: non ha una vera trama, la mole è per lettori atletici e un taglio di fronde gli avrebbe di sicuro giovato. Il racconto procede per quadri di poche pagine e narrazioni centrifughe che raramente si sviluppano in modo lineare, per poi tornare come torrenti carsici: il destino dei personaggi si fabbrica senza grossi colpi di scena – contano i caratteri più che la storia. L’ostinata ebreitudine del libro sta nel continuo affidarsi all’arzigogolo, al sofisma, all’umorismo sadomasochista. Una “stentorea serietà etica condotta attraverso l’ingegno e la satira”, così l’autore a proposito del suo ideale di letteratura.
Definito per corrive ragioni editoriali il Woody Allen inglese, Howard Jacobson, classe 1942, è stato paragonato anche a Philip Roth, una volta tanto non del tutto a sproposito. Se è vero che il comico è la messinscena umanamente tollerabile del tragico e nulla di meno, qui tirare in ballo il grande americano può avere un senso, laddove l’attribuzione italiana di parentele con Roth di cascanti cazzeggi chiamati romanzi dice solo dell’aria che tira da noi di questi tempi.

Michele Lupo



29 dic 2009

L'onda sulla pellicola

L'onda sulla pellicola è uscito nel 2004 per Besa editrice. A tutt'oggi è il mio unico romanzo edito. Due aspettano cicogna. Un quarto non si decide a concepire.


Romanzo d’esordio, questo di Michele Lupo, uscito per i tipi di Besa Editrice nel 2004. Sappiamo poco dell’autore se non che è un insegnante molto arrabbiato di come vanno le cose nel mondo e specialmente nella scuola, e forse qualche ragione ce l’ha. Una tale rabbia ci farà compagnia per tutto il corso del romanzo, come ci annuncia un brano tratto da “Il teatro di Sabbath” di Philip Roth, del 1995, riportato in epigrafe: “… insultare e insultare e insultare finché sulla terra non resterà nessuno che non abbia insultato.”

E infatti, ecco con quali parole conosciamo il protagonista (“che ha una faccia da schiaffi, glielo hanno sempre detto.”), Livio Viola: “Livio si sentiva soffocare dalla collera, ma vomitarla addosso a loro sarebbe stato come arrabbiarsi con un cane perché non ti suona Debussy.”

Vi è disegnata in principio un’atmosfera rarefatta in cui prendono forma la figura di Livio sdraiata davanti al mare e le forme smosse dalla calura di un gruppo di ragazzi e ragazze che stanno giocando e a cui la presenza di Livio, proprio sulla traiettoria dei loro giochi, dà fastidio. Dentro questo scenario quasi trasparente si viene configurando una piccola scena di violenza rappresentata dai piedi dei ragazzi che colpiscono Livio. Avremo, dunque, a che fare con una storia dove rabbia e violenza si uniscono in una flagellazione che non risparmia nessuno. C’è da chiedersi che cosa abbia generato questo feroce risentimento collettivo. Certamente la scuola, con il suo disordine marcescente che viene da lontano (aule senza un numero sufficiente di sedie e di banchi, talvolta perfino senza lavagna), e con una gioventù tracotante quanto disorientata, è la miccia che fa scoppiare l’ira del protagonista, un’ira che travolge tutto come il fiume di questa immagine cupa e violenta: “Una notte sognò che il fiume tracimava, che una cloaca di sozzure riusciva a risalire lungo il muro dell’edificio, penetrava dalle finestre e inghiottiva tutto quello che trovava, sedie cassetti finestre. Infissi sbriciolati. Un’enorme colata di merda che trascinava con sé quel frantume grigio di città.”

Non ha ancora sciolto il dilemma “se sia possibile amare un luogo senza amare i suoi abitanti.” Dei suoi abitanti, infatti, ne vorrebbe fare a meno.

L’ambiente in cui lavora è quello di una scuola superiore privata, specializzata nel recupero dei ripetenti. Vi insegna italiano. La direttrice, Maria Malerba, è una donna abile che sa attrarre finanziamenti e famiglie, che vi iscrivono i loro figli. A qualche genitore che si lamenta, cerca di spiegare la differenza tra scuola pubblica e scuola privata, e i metodi di quest’ultima, molto più attenti alle esigenze di “libertà” dei giovani. Sussiste, non solo nella direttrice, ma un po’ dovunque nella scuola, che gli studenti siano anime candide da coccolare: “Senza minimamente immaginare il contrario. Questa era la cosa curiosa, che le botte le aveva rischiate lui. E le aveva anche prese, alla fine. Da prof.”

Livio vede una gran confusione intorno a sé, che non fa che accrescere la sua rabbia contro i suoi simili. Su di un traghetto carico di vacanzieri (si è concessa anche lui una vacanza intorno alla Sicilia e alle sue isole, fino ad arrivare a Tunisi), egli non scorge altro che: “Commandos di famigliole eccitate, masnade di trentenni che si allungano sul lerciume del ponte come sacchi flosci, neo-pirati ornati di bandane, ninnoli di orecchini a decorare labbra nasi e sise, piselli tatuati che si annidano fra le gambe e tatuaggi di capezzoli punteggiati su capezzoli veri, piedi nudi o scarpette da atleti stellari, occhiali a specchio, barba di due giorni e capelli scompaginati dal vento che soffia apposta per farli sentire molto fieri e selvaggi…”

Eppure è stato giovane anche lui; la sua adolescenza e la sua prima giovinezza gli erano state prodighe: di bell’aspetto, era il tipo che andava negli anni ‘70 e le ragazze facevano a gara per conquistarlo. Non gli erano mancate perfino esperienze sessuali con donne sposate e viziose, come quella con la bella tedesca Helda: “Livio se la sarebbe ricordata così, Helga, un lungo rampicante biondo, flessuoso, inarcato sulla tazza del bagno e intento a tagliarsi le unghie dei piedi.” È una scrittura moderna, agile, pervasiva, quella di Lupo, già matura e sicura, insolita in un autore alla sua prima esperienza narrativa.

L’amore per il cinema e la scrittura, anche se non gli hanno arrecato dei risultati, aiutano Livio (“un fisico asciutto e una chioma di morbidi capelli neri”) a riempire il vuoto delle sue giornate, ma senza riuscire a mutare il suo malessere di fondo, quell’odio contro tutti e tutto, e verso la scuola innanzitutto: “Non avrebbe dovuto più limitarsi a resistere, questo era il punto. Trasformare il CSM in un antro urente dal cupo fetore di morte, ecco il suo progetto. In sostanza, buttarci una bomba.” Lautreamont è uno dei suoi autori preferiti, e non è difficile riscontrare in quest’opera una sua influenza non certo marginale.

Una struttura “a rimbalzi”, in cui i pensieri spesso aprono squarci di ricordi per poi tornare alla situazione in atto, crea una coordinazione continua tra flussi e riflussi, che dànno un ondulatorio movimento alla storia. Lo sguardo di un cane, ad esempio, gli richiama alla memoria gli occhi di uno studente del Sacro Cuore, Alberto Tabazzi: “due valve slargate e liquide, informi, in cui guizzavano come colte da raptus inatteso due pupille dilatate e assetate di comprensione”, dopo di che Livio torna ad osservare la scuola dal di dentro, scandendo i tempi che la contraddistinguono, a volte irrefrenabili, a volte monotoni, a volte senza senso, quasi sempre contrassegnati da una pigrizia sonnolenta, da una voglia di lasciar correre, di rinunciare. Allo stesso modo comparirà Sonia, una compagna di studi, e così via.

La scuola con i suoi problemi annosi e sempre sul punto di essere risolti – e invece misteriosamente tutto si ferma per restare al solito punto -, resta il cardine centrale del romanzo, ed è anche ciò che imprime sul protagonista quel malore e quella scontentezza che lo amalgamo presto, come una cosa sola, con l’ambiente. In realtà, non sembra esserci molta differenza, infatti, tra Livio, Fausto, Cessani, Zampa, Imperio, Torella, Marilena, la direttrice Malerba (la cui norma era quella di “imbarcare quattrini.”), Sonia, Bettina (la giovane bidella presso il cui gabbiotto, nell’intervallo, si accalcava “una ressa di proposte sessuali e turpiloqui per farla arrossire.”), Giorgio, Balestra, Cristina, Ester, Talen (questi ultimi cinque sono alcuni degli studenti) e così via: sono tutte facce della stessa medaglia, una scuola che diffonde non cultura, bensì malessere, indisciplina e irresponsabilità. Per gli insegnanti poi, la scuola non era altro che un luogo di “precoci prove di laboratorio per il futuro dominio della flessibilità? Precari.” Dirà Livio di se stesso: “Lui il fondo lo toccava in continuazione. Viveva come in apnea, in uno stato di perenne emergenza.” La stessa natura attorno pare un riflesso di quel disordine: “Livio guardò fuori. Il cielo sembrava il largo mantello brunastro di una bestia minacciosa. L’Aniene più limaccioso del solito. Trascinava fanghiglia, fogliame, scorze di rami. Olio marcio. A tratti più denso, e rappreso in coaguli viscidi o squamosi. Una cassetta butterata di bucce di pomodori scorreva sul margine, sotto un filare di alberi spogli. Per il resto, un mare di cemento. Il fumo delle marmitte. E la gru immensa della metropolitana a sorvegliare lo spettacolo.”

Quando a poco a poco si staccano alcune figure dalle altre perché entrano in qualche modo più pervasivamente nella vita del protagonista, esse provengono da un ambiente moralmente travagliato. È il caso di Giulia Armena – che di professione fa la psicologa, e insegna anche qualche ora in una scuola parificata, il Sacro Cuore -, verso cui Livio prova una forte attrazione, e di suo figlio Giorgio. La loro famiglia vive una continua lite. Il padre di Giorgio, Rocco Morrone, picchia ripetutamente Giulia. Racconta Giorgio: “Ricordo benissimo quel pugno di mio padre, forte, preciso, sul muso, che indicò me con un dito, lui, me che avevo assistito alla scena, e lei con la bocca spaccata in una smorfia, il dente che veniva via come una barchetta nel fiume di sangue, le mani del vecchio strette sul collo… L’avrebbe uccisa, quella sera l’avrebbe uccisa se io non avessi gridato…”

Non è la prima volta che l’autore ci lascia descrizioni efficaci come questa, in cui la scrittura accompagna con un suo movimento la scena descritta: in questo caso, noi riusciamo a vedere quel dito puntato su Giorgio, dopo che il pugno si è abbattuto sul viso di Giulia. E vediamo Giorgio che osserva quel dito e contemporaneamente la maschera sanguinante che è diventato il volto di sua madre, e udiamo il suo grido. Una sequenza complessa, multipla, il cui movimento sta racchiuso nell’inciso brevissimo in cui si accenna al dito puntato sul ragazzo. Anche scene sessuali, come quelle che si svolgono tra Livio e Boccasvelta, sono descritte con grande efficacia senza mai scadere nella volgarità. La prosa si avvale ogni tanto di termini poco usati, eruditi o meno, che ravvivano il racconto: atrabiliava, anfanare, smucinarle, scemità, cantucolare, ranchettare, disfazione, mistagogica, stranimenti, scemiseria, gnacchera, algolagnìa, sturdellone, malinconiarono, girovolava, comedoni, sgrugnone. Tutto ciò conferma l’impressione iniziale di un autore che è giunto preparato al suo esordio.

In occasione di una delle tante visite di Giorgio a Livio, il ragazzo porta con sé un diario in cui ha trascritto brani della sua vita familiare. A tenere il diario è stato consigliato dal neurologo dottor Nuvola, come terapia per superare lo shock subito dopo un incidente d’auto in cui Giorgio ha riportato un trauma cranico. Livio si impossessa del diario e così veniamo a sapere che il padre di Giorgio, che fa il pilota d’aereo, quando ritorna dai suoi viaggi “fra Napolicapodichino e la Sardegna”, non perde mai occasione di fare violenza alla famiglia. Dubita perfino che Giorgio sia suo figlio e, a proposito dei rapporti tra suo padre e sua madre, il ragazzo racconta: “entravo in cucina e vedevo mio padre che le scartocciava le orecchie fra le dita. È mio o non è mio, lui? Piantala, rispondeva lei, piantala. Ma lui non la piantava mica. Una volta le infilò la testa nel lavandino, sotto l’acqua bollente.” Sarà questa rivelazione ad avvicinare Livio a Giorgio e a sua madre, “che faceva sragionare lui per quanto era bella.” Livio ama il cinema (sogna di realizzare un film e questa sua passione lascerà forti tracce nel romanzo), e vede nella loro storia qualcosa che può essergli utile.

È Giulia, intanto, che riesce a procurargli un lavoro supplementare presso la scuola privata dove lei insegna, il Sacro Cuore, perché possa arrotondare lo stipendio. Vorrebbe cercare di sedare in questo modo la sua irrequietezza.

Giulia è andata a vivere per conto suo, lasciando il violento marito. Giorgio è rimasto col padre, per il momento. Bice, l’altra figlia, è andata in America, a Detroit, dove si è sposata. Anche a Giulia piace Livio, glielo fa capire, ma Livio ha paura che si possa instaurare un rapporto duraturo. Preferisce frequentare donne come Boccasvelta, che non creano alcun legame e non lasciano alcun segno: “Perdersi dietro una donna lo condannava a una sterilità perenne che lo deviava continuamente dal perseguimento di uno scopo, di un risultato soddisfacente.”

Tutte queste cose le apprendiamo attraverso uno schema che vede Livio ancora a bordo di quel traghetto che lo sta conducendo a trascorrere quella che appare come una vacanza, e che rappresenterà, vedrete, qualcosa di ben altro. Ossia, l’autore ha in qualche modo livellato tempo e spazio ponendoli come su di una piattaforma sopra cui si azzerano differenze e distanze, e tutto sembra avvenire in una contemporaneità cosmica. Attraverso la vita tribolata e precaria di Livio nel mondo della scuola, l’autore apre, allarga e distende, come su di un lenzuolo bianco, i segmenti di quello speciale universo che ha a che fare con il protagonista e la sua vita.

L’amore verso Giulia ha alti e bassi, ma il rapporto tiene e l’esuberante Livio può ora fare a meno di altre donne, “Boccasvelta a parte”, ma già ci domandiamo se Giulia sarà il percorso che il protagonista vorrà intraprendere in cerca di quel contatto umano da cui il suo disprezzo per gli altri lo ha sempre tenuto lontano. L’autore, quindi, dopo aver tracciato una linea di solitudine e di scontento per il protagonista, vi sovrappone, vi inserisce, così come si depone una goccia diversa dentro una provetta di laboratorio, il contatto con un altro essere umano, dal contenuto nuovo e sorprendente per lui, fino a quel momento abituato a ricercare nella donna nient’altro che una soddisfazione sessuale. L’incontro con Giulia ha acceso in lui un’aspirazione sconosciuta, ancora instabile ma ostinata, quella, ossia, di sentirsi in qualche modo legato a lei. La lettura del diario sottratto a Giorgio, l’aiuta ad entrare nel mondo di lei, oltre che nel mondo del ragazzo. Queste del diario, sono pagine molto vive, in cui la scrittura ha una sua variazione arguta e gustosa. Il diario va sempre più prendendo spazio nel romanzo e si rivelerà presto una delle sue colonne portanti, come la vacanza intrapresa a bordo di un traghetto. Sono due intelligenti inserimenti che consentono all’autore di presentarci il mondo della scuola, e soprattutto dei giovani che la frequentano oggi, in modo da collegarli in qualche modo alla loro intimità (il diario) e al loro rapporto con il mondo esterno (il traghetto e la vacanza, che però avrà un significato tutto particolare anche per Livio). In mezzo a una tale fervida ed irrequieta gioventù, colloca, infine, il lento e tormentato processo di innamoramento di Livio nei confronti di Giulia: “I ragazzi a scuola non se lo sarebbero neanche sognato che il professore si macerasse in un tinello di stranimenti estenuanti.”

Livio è un personaggio esuberante, soprattutto nei confronti delle donne. Le sue conquiste sono numerose e le scene a sfondo sessuale non mancano. Tuttavia esse riescono ad essere esplicite attraverso una scrittura costruita per disegnare il tutto dentro la fantasia del lettore, che viene abilmente sollecitata da un linguaggio che non offre mai il fianco alla volgarità. Un esempio, tra i tanti: “il corpo di Giulia scatenava in lui un rialzo vertiginoso di dopamina fino a un picco incontrollabile che lo avrebbe indotto facilmente a uno stupro – o al suicidio. Per questo, per allentare la tensione, le prime settimane non smise di scopare chiunque capitasse a tiro. A dire il vero, solo Roberta e Boccasvelta. Ma le mollava lì a metà, e correva da lei. Da Giulia.” Certe volte arriva proprio ai limiti, e riesce a fermarsi con molta abilità, lasciando intatto l’effetto conturbante della scena. È il caso, per esempio, dell’amplesso consumato con Giulia, nel bagno della scuola: “Lei, appoggiata sul lavandino, le gambe intorno ai suoi glutei, gli strinse le mani fra i capelli, lo tirò a sé e prese a morderlo sul collo. – È questo che vuoi? – disse, sfilandosi le mutandine. – È questo, amore mio? – ripeté srotolandosi il cazzo di Livio fra le mani, accarezzandolo un po’ su e giù prima di infilarselo dentro.”

Si è già detto dell’importanza che la passione di Livio per il cinema ha su questo romanzo. Alcuni capitoli sono molto espliciti, cominciando con la frase “Il film è…”, alla quale fa seguito la storia oggetto del romanzo. Ciò ha un significato preciso: quello, ossia, di dichiarare che l’autore è intenzionato a realizzare il suo film nientemeno che con lo strumento del romanzo. Del resto, altri segnali si trovano sparsi qua e là, come questo, nel capitolo 28, laddove sta conversando con Giulia e ad un certo punto riflette: “Ma era il pensiero del cinema a proteggerlo. Si sarebbero salvate quelle frasi al cinema?” È, questa, a mio avviso, una novità di un certo rilievo per la sua chiara esplicazione (peraltro introdotta in modo così semplice, con tre parole e tre puntini di sospensione), di voler unire tra loro – come due facce della stessa medaglia – cinema e romanzo. E lo fa, addirittura, mostrandoci i tentativi di Livio di realizzare un film (contro l’amore, precisa ad un certo punto) tutti falliti, perché la ragione sta nel fatto che la vera realizzazione di esso avviene con il romanzo e dentro il romanzo, di cui questa passione e questo tentativo divengono il leit-motiv. Troviamo scritto verso la conclusione: “In quel copione mai scritto, lo sapeva, si salvavano sì e no una dozzina di battute. Ma le ricordava a memoria e voleva metterle alla prova sperimentandole in una situazione reale.”, che è come dire in un modo tanto semplice da apparire scontato che il romanzo è sempre la realtà concreta con la quale si misurano i suoi personaggi.

L’autore sa come costellare la propria storia di variazioni che riescono a darle un ritmo incalzante; dalla vita che si conduce in un ambiente scolastico divenuto ipocrita, banale, scandaloso e assurdo, Lupo ne trae le singole individualità nei loro momenti di smarrimento e di disperazione; non solo Giulia, di cui traccia un significativo ritratto psicologico nel capitolo 31, ma Giorgio, le colleghe del Sacro Cuore Sonia e Rita, che aveva “un forte bisogno di contatti umani”; perfino Roberta e Boccasvelta, nel loro smodato appetito sessuale, sono figure inquiete e infelici.

Nel diario di Giorgio, che tiene come terapia su indicazione del medico curante, noi scorgiamo una lenta assimilazione da parte del ragazzo del linguaggio di Livio. Troviamo perfino quell’esclamazione, Krishna (che sta in luogo di Dio), tipica del professore. Che cosa può significare una tale confluenza di linguaggio? Non solo, ma le delusioni e gli incantamenti che si alternano nel rapporto Livio – Giulia, vengono ripercorsi anche nel rapporto tra Giorgio e l’inarrivabile – per lui, ma non per alcuni compagni – e bella Ester. Scopriremo il senso di tutto ciò più avanti quando l’autore osserva: “Ora, se Livio era un caso per certi versi tipico della tendenza sempre più evidente a protrarre l’adolescenza all’infinito (all’infinito mortale degli uomini), era molto sua e peculiare la disposizione a prolungarne le velleità per un tempo che il capitale, d’altro canto, non ti concedeva affatto.”, che è come dire che Livio – economicamente disastrato – è impegnato a conquistarsi una crescita, la propria maturità (“bambinone mai cresciuto del tutto”; “il bambino che non cresceva mai. Che non ne voleva sapere.”), così come sta facendo Giorgio che, lasciato solo dal padre e dalla madre (“sentii che dovevo essere stato un incidente, per lei, non lo so, come una vergogna, la stessa vergogna che ho sentito dopo.”), ha cercato rifugio nell’hashish ed ora nel diario, a riprova che ci troviamo di fronte ad un testo psicologicamente dotato e composito. Si badi anche a questa definizione dell’amore: “quella tentazione d’infinito incatenata a un’eccitazione non ordinaria che i vocabolari chiamano amore.”, in cui con poche parole l’autore riesce a mettere insieme nell’amore: vertigine, sogno, passione e sentimento.

Non è facile per Livio amare, sempre arrabbiato com’è con tutti e soprattutto con se stesso, ma Giulia è caparbia e a poco a poco sembra riuscire a dargli un po’ di pace. Gli confessa un segreto che riguarda Giorgio, ma il ragazzo – si badi – non ne sa nulla, forse sospetta; e, pur detestando il padre, non vuole staccarsi da lui, che ne soffrirebbe. Giulia, al contrario, desidera di trovare il modo di portarlo a vivere con lei, ora che anche l’altra figlia, Bice, è lontana, in America.

L’autore disegna così un rapporto familiare, quello di Giulia con il marito Rocco e quello di Giorgio con il padre, disgregato e fatiscente, e su queste macerie cerca di far vivere la nascita, difficile ed anche incompresa, di un rapporto tra Giulia e Livio basato non solo sull’attrazione sessuale, ma anche sull’amore. Gli dice Giulia: “hai paura delle responsabilità con cui non sapresti misurarti.”, non solo ma arriva a pensare che “Livio sgretolava quella relazione perché lo avrebbe costretto a lavorare.” E ancora: “Era a forza di non pianificare nulla che Livio si era ridotto così.” Come si vede, sono temi di strettissima attualità, e il tutto s’innesta nell’ambito di una società ancora più confusa e precaria, alla base della quale sta una scuola che non costruisce ma disperde quel poco di positivo che è dentro ciascuno di noi.

Quello tra Giulia e Livio è un rapporto che sembra non avere un futuro, dilaniato da incomprensioni, ricatti e ripicche. È una famiglia che non vuole formarsi, dunque, al passo con i nostri tempi: né davanti all’altare né in qualunque altro modo. È specialmente Livio che fa di tutto per tirarsi indietro: “Farle credere che fosse uno stronzo e farsi lasciare per questo era l’ultima trovata escogitata da Livio per nascondere a se stesso il fatto che stronzo lo fosse sul serio.”, e ancora: “L’amore stancava.”

La battaglia che Livio intraprende non solo con Giulia, ma con se stesso, con i principi fino ad allora conclamati, è faticosa, perfino delirante: “sentiva su di sé una forza insopprimibile che lo costringeva alla guerra, a una guerra gratuita. Doveva disorientarla, voleva che Giulia smettesse di pensare a lui. Perché l’amava senza saperla amare. Perché nella vita c’era sempre qualcosa ‘di più’ che il saper amare una persona. Perché non avrebbe smesso di desiderare qualunque femmina attraente l’avesse avvicinato per sbaglio.” È una resa dei conti con se stesso, il rapporto con Giulia. L’amore che sente per lei è così devastante da mettere a nudo le sue idiosincrasie, le sue incertezze, le sue vanità.

Come è una resa dei conti, quella di abbandonare la scuola, così disastrata, ipocrita, fatta di finto perbenismo dentro cui si nasconde e si coltiva il cinismo più perfido. Nel diario Giorgio ha scritto: “Viola stava sulle palle a tanti e questo è un fatto.” È forse uno studente, Andrea Balestra, che gli ha rubato l’auto e l’ha fatta saltare in aria. Ma potrebbe anche essere stato il fidanzato di Ester, la bella e disinvolta studentessa su cui anche Livio ha messo gli occhi addosso.

Ecco, dunque, che il mondo che Livio detesta (“Con quella smorfia di disprezzo stampata sulle labbra.”), gli si rivolta contro. La lotta diventa immane. Non si può detestare gli altri senza essere ricambiati con la stessa moneta. Così che tutto diventa sempre più difficile, la conquista di sé si allontana, all’incertezza segue la sconfitta; ci sarà un approdo temporaneo in una zona desertica vicino a Tunisi, poi il naufragio. È a questo punto che le strade di Livio e di Giorgio si separano. Il ragazzo, congedandosi dal neurologo, dirà infatti: “Ma ora basta. Cristina mi sta aspettando. [...] Mi sto alzando, dottore.” Liberatosi dalla fissazione per la bella e disinvolta Ester, Giorgio ha il coraggio, dunque, di ricominciare.

Un esordio che mi ha sorpreso, questo di Lupo, narratore che sa avvincere, avvalendosi di una scrittura che trasuda della rabbia (Giulia gli dirà che è un “cinico che sta fra gli uomini come per sbaglio”) che sorge da una vita che non si accontenta e che si ribella al solo scopo di distruggersi: “Sapeva, Livio, cosa vedeva dentro di sé, ora. Un uomo dubbioso, ironico per partito preso, che non si era fatto trovare pronto per quell’occasione, l’occasione di amare un essere umano sino in fondo” E ancora: “Perché lui non sapeva che pensarsi così, come la polena di un veliero votato al naufragio”. Un romanzo corposo, del quale l’autore sa tenere solidamente e con destrezza le fila.

Un esempio, anche, di come ci siano in circolazione romanzi di cui nessuno o pochi parlano, ma che hanno consistenza, compattezza e valore molto più di altri acclamati e vezzeggiati da una critica spesso, ahimè, troppo compiacente.

bartolomeo di monaco

2 dic 2009

Scuola De Profundis (Piero Calamandrei e gli scrittori italiani)


Della scuola agli intellettuali italiani non frega nulla.
Agli scrittori che si lamentano dei mediocri dati di vendita potrebbero tornare utili quelli di Tullio De Mauro sull’analfabetismo gigantesco che sommerge ormai questo paese disgraziato e sempre più ridicolo. Forse capirebbero anche loro che se un lettore curioso sarà difficile farlo uscire da una scuola mediocre, col collasso in corso potrebbe diventare problematico persino sfornare un adulto in grado di apporre un cartoncino con come e cognome sul portone del condominio.
Fatta eccezione per i soliti casi costruiti ad arte, di libri se ne vendono pochi, ma a nessuno viene in mente di spostare l’attenzione sui codici cognitivi e linguistici di base indispensabili allo stesso gesto del leggere – e non parliamo dell’immaginario, ormai sfranto sul presente orrifico dei reality (che siano targati Ventura o Noemi cambia poco), che non a caso alcuni degli scrittori italiani dicono anche di apprezzare, non come lo fanno i cagnacci travestiti da fighetti alla Carlo Rossella che li spacciano per il nuovo neorealismo italiano – con il che dicendo solo la loro pochezza, intellettuale se ci credono davvero, morale se pigliano per il culo il popolino (che d’altra parte sarebbe anche ora di dire che ‘ste valanghe di merda se le va a cercare: non siamo mica nel ’45, non veniamo mica da una guerra, non siamo mica più un popolo di contadini!).
No, gli scrittori italiani che si vogliono disinvolti discettano con allegra partecipazione sui minus habentes in digitale pur di scavarsi una nicchia di presentabilità mondana, pur di essere un nome che circola se non sui rotocalchi che nella sbandata collettiva si chiamano culturali almeno in qualche appendice giornalistico-marchettara in zona rai.
Agli intellettuali italiani, agli scrittori in particolare, è parso disdicevole, poco elegante occuparsi di scuola. Se ne sono tenuti alla larga. Non si fa bella figura a ragionarvi sopra. Sa, come dire, di scolastico…
Esclusi gli scrittori-insegnanti che non sono mai mancati, gli altri hanno preferito evitare il lezzo stantio dell’indigenza, la micragna del patetismo che pervade i discorsi intorno alla scuola. Ragionano, quando lo fanno, sull’apocalisse in corso e non gli viene in mente di farsi due domande sull’alfabetizzazione strutturale con cui si manifattura il sapere minimo di un paese; molto più interessante, ovvio, seguire i linguaggi della spettacolarizzazione di massa, il più delle volte depauperando la stessa letteratura che non può reggere certi confronti perché, semplicemente, non ne ha bisogno – sempre che letteratura lo sia per davvero. Chi riesce a campare con la vendita dei propri libri, se viene fortuitamente visitato dall’immagine di una classe di bambocci o peggio, di bulletti, ringrazia il padreterno (che non ci ha mai fatto il piacere di esserci quando ci serviva), di averlo salvato dalla iattura.
Se non fotte niente agli intellettuali, figurarsi agli italiani “medi”: popolino di cialtroni cui basta un po’ di sesso, una macchina, molto calcio e tagliatelle. Per essere felice? No, per abbrutirsi illudendosi di vivere. E che cosa sarà mai la scuola, per un italiano mediamente ignorante, un soggetto il cui massimo contributo alla polis è dato – e se ne potrebbe fare a meno – in quella parodistica caverna che è la cabina elettorale? Non capendo il valore della formazione, non avendo idea della medesima fuori dalla propria squadra – non sempre la nazionale, perché non ci sono abbastanza giocatori dell’Inter o della Roma – dal loro punto di vista ciò che può venire dalla scuola è un goffo repertorio di nozioni che possono agevolmente apprendersi davanti alla tv – giustamente, rebus sic stantibus, non si capisce cosa aspettano a chiuderle del tutto.
Talché, con l’ultima finanziaria il colpo di scure sulla scuola pubblica fa davvero male. Non starò qui ad aggiungere dati perché si possono agevolmente reperire in rete - per chi ne avesse voglia, appunto.
Preferirei riportare alcune righe dalle lucidissime pagine di Piero Calamandrei, giurista antifascista del Partito d’Azione (quanti sanno in Italia che cosa è stato questo partito?), comprese nel volumetto Sellerio Per la scuola; si riuniscono qui tre interventi sull’argomento pensati fra il 1946 e il 1950. Due sono pubblici discorsi, un terzo apparve sulla rivista “Il Ponte”. Sono preceduti da un’introduzione di Tullio De Mauro, esemplare per chiarezza e sintesi (peccato che alla lunga e meritoria attività di studioso De Mauro abbia accompagnato scelte per l’appunto politico-culturali molto discutibili, dall’incarico sbiadito di Ministro nel tardo governo Prodi ’99-2000, obbediente ai dettami di partito, alla Direzione Bellonci per il Premio Strega, macchina letale dell’odierno governo editoriale). Per dare un’idea dell’acutezza di Calamandrei: “Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione*, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci)*.

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A ‘quelle’ scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.”
Ora, cosa ne viene fuori, non c’è bisogno che lo aggiunga io. Uno scrittore – dico uno scrittore vero, non un corrivo intrattenitore - che pensa di costruirsi un pubblico in uno spazio sociale, linguistico fabbricato ad arte da governanti che sognano un dominio costante attraverso la messa a punto di un’imbecillità di massa, uno scrittore così è uno sprovveduto. Verrebbe da pensare che molti scrittori italiani lo siano se non si accorgono che al mondo prefigurato da Calamandrei qualcuno sta già lavorando alacremente.

  • *Sono solo due dei punti in cui l’analisi di Calamandrei mi è parsa ottimistica.

Michele Lupo

30 nov 2009

L'onda. Il raga.



Ci vollero un po’ di minuti, dieci, forse venti. Poi Livio prese il telecomando dello stereo dalla pila di libri che usava per comodino, accese il cd e si ridistese sul letto, nudo accanto a lei, semivestita. In posizione supina tutti e due. Fu allora che successe, dentro una specie di animistica requie il fiato di Giulia si aprì in una corolla di aromi - il suo corpo aveva la capacità di orchestrare una scenografia olfattiva irresistibile –, fu come se la sua voce si trasfigurasse in un’ altra, un tono incantatorio, un suono che sembrava sorgere da un alito arcano, lontano, era la voce di Parveen Sultana, raga da ultima notte, ultimo cielo, primo e ultimo... L’alap, al solito, era iniziato lento, come un cerchio avvolgente, sulla filigrana densa del tampura, do, re bemolle, mi bemolle, e poi di nuovo la tonica, e fu lì che si aprì la voce, su quel bordone primordiale che stava prima dell’ universo, che inglobava tutti i suoni dell’universo, e quando la voce si levò verso il sol ecco le tabla, a inventare un tempo, una scansione di tempo, e poi, inavvertitamente, una progressione, lenta ma incessante, e pian piano un po’ più veloce. Livio sentì soltanto il respiro, di Giulia, il sollevarsi del suo seno, quel corpo consegnato a se stesso, solo alla verità di quel momento lì... e fu uno scarto ritmico improvviso quello che gli fece posare con una naturalezza rubata al volo ai santi indù una mano sulle sue gambe, era il passo di danza di Shiva e Parvati, fa diesis e sol, il bottone della camicetta che saltò via da solo, come se le intenzioni degli umani e degli dei per una volta coincidessero alla perfezione, nella giustezza del tempo quand’ esso è puro, ignaro del fardello di ieri come dell’ansia di domani, fin lì si era sporta la voce, lo capì mordicchiandole i capezzoli, prima, e poi il ventre, fin lì lo aveva portato, su quella peluria umida e nera, ecco cos’era, attraverso quella voce sprofondava fin dentro l’origine del mondo, ora lo riconosceva, il quadro, lì davanti a lui, identico come l’avverarsi di una profezia, la stupefacente cava di carni, la chiusura del cerchio, il dittico cruciale, la torsione simmetrica aperta dalla magnifica schiena si avvolgeva e chiudeva infine nella rivelazione del dipinto di Courbet, microstoria dell’arte riepilogata nel corpo di Giulia Armena e tramata nell’ ipotalamo di Livio Viola per produrre ossitocina, ossia replicare l’unico portento della sua vita, indurire la verga...
... oh quanta improvvida tristezza amore mio - e non fu esattamente un pensiero, ma un asfodelo di luce che gli brillò nell’iride mentre cominciava a strofinarle la lingua sulla fica - lo senti il respiro di questi corpi che sono tutta la nostra vita, ora… lo senti... le diceva senza parlare, commosso da quel piccolo incendio di rimpianti bruciati come steli d’insensatezza, lui che non poteva seguirne le ombre in quel fato librato in spazi siderei solo per lei in quanto lontanissimi da lui che sapeva solo stare in ginocchio, lì, sulla terra... appiccicato a lei, accovacciato dentro l’origine del mondo...
... ave maria mia, Giulia e sultana...




15 nov 2009

Gianni Biondillo


Nel Nome Del Padre
(apparso su   http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl)


D’accordo, il tema merita. I padri separati penalizzati da una legislazione sbilanciata in modo smaccato in favore delle donne, o meglio, dei genitori affidatari, che sono quasi sempre le donne. Una scelta esistenziale, la separazione fa due coniugi con prole, o un destino inevitabile, quello che si vuole, che s’incancrenisce in un impasto malato di ragioni economiche, ricatti emotivi, agonie affettive e tracolli sociali: il merito di averne trattato, all’autore glielo riconosciamo. Bastasse il tema, però,, ci sarebbero milioni di scrittori al mondo, chi più chi meno sensibile a questo o a quello, chi più chi meno sul punto, al momento giusto, o munito di antenne vigilissime che riafferrano onde psichiche lasciate sotto traccia dal rumore bianco in cui siamo immersi.
La faccenda di cui si parla in questo libro non è priva di interesse. Peccato però che Biondillo ne faccia una storia didascalica, un repertorio di banalità, goffamente addomesticate da un tentativo maldestro di accattivarsi la simpatia, se non l’indulgenza, del lettore. A pagina 16, di due personaggi che rinunciano dopo i sogni di gloria alla musica, il narratore dice che “hanno appeso lo strumento al chiodo”. Sicché, egli stesso aggiunge fra parentesi “(Che brutto modo di dire. Perché continuiamo a parlare per modi di dire? Quale vuoto nascondiamo dietro queste frasi fatte?)”
Non tocca certo a noi dare una risposta. Il fatto è che Biondillo, noto per una serie di romanzi gialli che hanno goduto di un certo credito fra i lettori, con questa lingua scialba, satura di frasi fatte, sembra andarci a nozze. Il catalogo di luoghi comuni è fitto, e non si vorrebbe essere impietosi. Estrapoliamone qualcuno (per la verifica decida il lettore se ne vale la pena). Il protagonista, il padre disgraziato del titolo, che una ex moglie stronzissima costringerà a meditare il suicidio, è in un bar con Sandro, il suo migliore amico (scopriremo solo verso la fine che è con lui che la moglie lo tradiva, soluzione non proprio originale, ma tant’è). Li serve al tavolo una cameriera cilena. Sandro è uno che di solito con le donne ci prova, quindi lo fa anche con lei. Ordina fra l’altro un bicchiere di vino. – Rosso? – dice la donna. E lui risponde – Rosso. Caliente…
Qualche riga dopo, Sandro e l’amico continuano come sopra, fino a quando uno fa all’altro – Ma smettila, magari è pure fidanzata. – E il secondo – Qual è il problema? Io non sono mica geloso…
Si potrebbe obiettare che a parlare così, con queste battutine terra terra, sono i personaggi. Che tocca beccarceli per quello che sono, schematici, banali. Che se la donna non ha più voglia di scopare con il marito e comincia con l’accampare il solito “mal di testa”, l’autore non ha fatto altro che registrarlo, trascriverlo pari pari. Peccato però che la voce narrante s’intoni con disinvoltura a questa faciloneria (e non parliamo, beninteso, di indiretto libero, che sarebbe questione diversa). I “bastoni fra le ruote”, le cose che accadono “in fieri”, “ l’infanzia che è “un amalgama di sensazioni”, essere “felice come una pasqua”… insomma per un autore che in una recente intervista radiofonica ha rivendicato il merito di una “scrittura molto letteraria”, questi non ci sembrano esiti folgoranti.
Il libro ha uno scatto di tensione solo nella parte centrale e le soluzioni drammaturgiche non sembrano originali, piegate all’esigenza di un racconto troppo “dimostrativa” per essere convincente sul piano letterario. I dialoghi sono quelli di una fiction televisiva, e con una così lingua blanda, molto “rai”, molto “un posto al sole”, non si fa un libro ambizioso.








10 ott 2009

Cosimo Argentina


Beata Ignoranza
Fandango
Lo scrittore Cosimo Argentina, romanziere tarantino trapiantato in Brianza, insegnante precario di diritto da molti anni, è autore di un breve pamphlet sulla scuola uscito per i tascabili Fandango nel 2008. Ha lavorato dappertutto Argentina, scuole private comprese. Ne sa abbastanza, insomma. E ne ha anche abbastanza, si capisce. Per esempio di sentir parlare di scuola da incompetenti assoluti, e/o da prestanome agli ordini del Ministero del Tesoro, dal quale, come molti italiani non sanno, effettivamente gli insegnanti dipendono. Tanto che, visto lo stato dell’arte, il dicastero della Pubblica Istruzione lo si potrebbe pure smantellare e cavarci un estemporaneo risparmio una tantum che ad Argentina, a chi scrive e forse anche a chi legge, farebbe comodo (ogni riferimento alle esoteriche, ineffabili competenze della signora Gelmini è dovuto).
Il libretto è diviso in una quindicina di brevissimi capitoli; si passa dalla tragicomica questione della precarietà alla famigerata faccenda della meritocrazia, dalla stanchezza dei colleghi alla supponenza analfabeta dei genitori – se in Italia comanda chi comanda e ci chiediamo ancora perché, si osservino attentamente, questi genitori: “i genitori dei geni incompresi”, “i genitori abbagliati” (dal paranoico pregiudizio che i prof ce l’avrebbero con i loro pargoletti), quelli disperati “che non sanno più che fare”, quelli che vanno ai consigli di classe solo per sapere come vanno i loro figli, quelli violenti, quelli supplicanti etc.
I motivi per arrabbiarsi sono tanti e, per chi fa questo mestiere, tutti noti, ma Argentina si fa leggere per la verve sagace e l’acutezza divertita che agilmente ritmano la sua prosa. Si diceva una volta: è come sparare sulla croce rossa, se ad esempio si fa del sarcasmo sui collegi docenti, ma resta il fatto che continuiamo ad accettare questo rito per lo più svuotato di senso quando è ridotto, e ben lo racconta Argentina, a scazzi grotteschi sulle ‘funzioni obiettivo’ (si chiamano ancora così?), interminabili schermaglie dialettiche concernenti i criteri con cui stabilire i criteri per decidere i criteri… i sonni degli inguattati, gli sms non più di nascosto alle babysitter, i pistolotti dei retori innamorati della propria voce…
Nel cahier de doléances di Argentina (ma ripeto, con ammirevole sens of humor, considerato che vive tutto sulla propria pelle) la parte più consistente è dedicata al precariato. Dai ricatti che anch’io ho raccontato altrove dei gestori delle scuole private ( - Tu mi lavori gratis in cambio del punteggio), agli stipendi da fame (che riguardano tutti ma con l’aggravante per chi il 30 giugno viene rimandato a casa di sentirsi sempre come sul Titanic mentre sulla riva  si confezionano agevolazioni fiscali per mantenere Mourinho), al disagio di contare ancor meno dei colleghi in quella stupida guerra fra poveri che insegnanti non sempre all’altezza (etica, intellettuale) del compito conducono in sordina mentre la nave affonda. Magari qualche pagina in più la si sarebbe potuta dedicare alla brillante intelligenza dei dirigenti, figurarsi, eccitati prima dalla prospettiva di finire nell’olimpo delle alte magistrature di questo farsesco paese, poi scornati dal ridimensionamento provocato dalla cronica mancanza di danaro (peraltro, chissà quante persone in Italia sanno che molti dirigenti scolastici non sono stati insegnanti strepitosi, soprattutto perché alla cultura hanno preferito l’intrallazzo utile a fare il salto di qualità al momento giusto – e nemmeno tutto ‘sto gran guadagno, economicamente parlando). Molti di noi invece non si sorprenderanno di scoprire che anche per Argentina, alla fine della storia, la scuola resta un luogo che può regalare momenti irripetibili, di bellezza autentica. E per quanto antico e demodè possa suonare, alla fine lì torniamo: “irrobustire la mente, crearsi uno stile, scoprire attitudini, abituare al sacrificio (…) tutto per loro, sono loro, la dolce marmaglia, il pane quotidiano”: la scuola, ecco quanto – si provino a sostituirla con qualcos’altro.   




9 set 2009

Todd Hasak-Lowy



Prigionieri



Dopo Non parliamo la stessa lingua, una raccolta di racconti uscita in Italia nel 2007 da minimum fax, lo stesso editore pubblica il primo romanzo dell’ebreo americano Todd Hasak-Lowy. Si è gridato all’evento ed evento non è. Prigionieri racconta la storia di Daniel Bloom, sceneggiatore di successo e marito e padre in crisi che, schifato dalla politica americana degli ultimi anni, ne viene a tal punto ossessionato dall’immaginare una storia in cui un tizio comincia a far fuori un bel po’ di gente di potere, perlopiù cagnacci da guardia di multinazionali. Questa urgenza di giustizia sociale coglie di sorpresa lo stesso protagonista, fino a quel momento inserito benissimo nella macchina di Hollywood (i suoi sono film adatti a un pubblico vastissimo purché intrappolato nella banale estetica della violenza spettacolare). Ora, il tentativo di sfogarsi nella scrittura legittimando la violenza sistematica su un piano etico-politico ha da fare i conti non solo con le difficoltà tecnico-espressive del progetto ma anche con i dubbi riguardanti la giustezza dell’implicita posizione ideologica (la legittimità della vendetta, appunto, della violenza politica) assunta da Bloom che mette alle costole dell’omicida un agente per nulla convinto di volerlo prendere. E soprattutto si scontra con la sua crisi personale: marito periclitante, padre assente ed ebreo a disagio con la sua religione. Talché, influenzato da un inquietante esemplare di rabbino aduso all’acido lisergico, decide di partire per Israele, in un viaggio a dir la verità senza capo né coda che culmina in un’improbabile, sostanzialmente isterica palingenesi. Il libro racconta la storia dell’uomo (che verrà lasciato dalla moglie e vedrà il figlio allontanarsi sempre di più) e quella che egli scrive sperando di farne un film che scuoterà gli spettatori dal torpore di questo orribile primo decennio del duemila (politicamente parlando). Naturalmente, tutta la sua crisi si risolve nell’assunzione della banale consapevolezza (e ci mette più di 400 pagine a capirlo) che ciò che gli preme di più è essere lasciato in pace, ossia scrivere senza sensi di colpa per le sorti della famiglia e del mondo che possono andarsene tristemente a puttane. Il problema non è l’esilità della trama ma il tentativo di Todd Hasak-Lowy di volare alto con certe questioni di fondo e soprattutto certi modelli letterari senza possedere, al momento, le ali per farlo. L’allestimento dello spettacolo concernente i travagli interiori di scrittori o film-maker et similia, in cui si intrecciano questioni estetiche, esistenziali e famigliari andrebbe riservato ai grandi: in una rispettabile bibliotechina casalinga sull’argomento c’è abbastanza da godere per dieci anni di lettura. In Prigionieri (si veda il primo capitolo) assistiamo a periodi prolissi e slabbrati che ripetono per troppe pagine le stesse cose con un lessico generico che non aggiunge nulla al detto prima; sembrano esercizi di maniera di uno studente in cerca di applausi, dotato ma non abbastanza da soddisfare le proprie ambizioni. La frase gira spesso su se stessa, fatica ad avvincere, spesso è accademica quando non proprio pleonastica. Roba del genere: “Sebbene le fatiche tutt’altro che trascurabili richieste dallo scrivere e vendere una sceneggiatura di successo fossero, appunto, tutt’altro che trascurabili” etc…: giudicate voi che bisogno c’era di sprecare tempo, suo e nostro, carta, energia…vita, insomma, per aggiungere niente alle prime due righe. Visto il libro nell’insieme, poteva andar meglio. Perché non mancano spunti interessanti. L’inscenarsi nella mente del protagonista del conflitto fra arte e spettacolo per esempio, la messinscena dei meccanismi mitopoietici contemporanei che sostanziano il lavoro creativo, la morsa che lo stringe fra la necessità di fabbricare una storia pensando a milioni di spettatori e il bisogno di raccontare la propria versione del mondo, il contrasto fra il Demiurgo che lo plasma nelle sue forme e gli accidenti temporali macchinati dalla tentacolare onnicomprensiva ragione del denaro. Sarà l’estate, ma ho pensato a quelle gelaterie dall’aspetto tremendamente invitante e al senso di parziale delusione alla fine del cono dal gusto un po’ vago. Coi dialoghi va meglio, a tratti molto buoni ma non di rado manieristici e troppo lunghi. Poiché il romanzo l’ho letto solo in italiano, non saprei dire quante e quali sono le cadute stilistiche dovute alla traduzione. Certo è che, visto che da minimum fax non lesinano civetterie come quella di aggiungere alla fine del libro filmici “titoli di coda” in cui si passano in rassegna non solo i nomi del traduttore ma anche quello di chi la traduzione l’ha rivista, dei redattori, dei correttori di bozze etc, decidano loro di chi è la responsabilità di quell’imbarazzante “molto certamente” di pagina 330. 










1 set 2009

Giorgio Falco



L’ubicazione del bene
Un lettore intemperante davanti all’incipit del secondo libro di Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, potrebbe quasi credere di trovarsi di fronte a una rappresentazione manieristica, alla descrizione di un décor infernale che indulge al capriccio: “I topi annusano di notte lattine compresse nell’asfalto, muovono baffi, fiutano ruote, risalgono nei motori delle auto parcheggiate tra batterie, liquidi di freni e di raffreddamento, imbevono code nell’olio semisintetico, costeggiano marciapiedi, pronti a rifugiarsi nei tombini”. Orbene, le pagine successive smentiscono l’eventuale impressione ingannevole e cambiano di segno all’intero lavoro. Che riguarda l’inferno sì, ma come luogo domestico a noi molto familiare perché è quello che abitiamo nelle nostre depresse, sfilacciate periferie irriducibili a una significazione ancora umana. Questi “animali – dice Falco - sono parte integrante della narrazione, irrompono, la modificano, sono il correlativo oggettivo dei personaggi”. Io aggiungerei, sperando di non forzare le intenzioni dell’autore, che nascondendosi nello stesso spazio in cui vivono gli umani, le bestie ne denotano l’aspetto globale di inganno auto-organizzato: il mondo che ci siamo scelti, che ci rappresentiamo, del quale non sappiamo fare a meno è falso perché la sua faccia notturna è occultata, specie quando si affanna a disegnarci un’idea del bello che è la sola oggi a portata di mano dei più: il brutto delle villette a schiera disseminate attraverso anonimi agglomerati urbani confezionato da chi decide per tutti. Si direbbe che oggi il demiurgo è un cosmico agente immobiliare. E lo scrittore non è dio, lo scrittore è semmai Lucifero che ce ne mostra il fallimento.
La presenza inconciliata e mai doma delle bestie, nonostante patetici tentativi contrari, sembra un contrappunto ribelle alla dispersione urbanistica – umana - che è lo spazio slabbrato in cui si delineano le vicende di questo libro. Precisamente a Cortesforza, immaginario hinterland milanese, piccolo comune in cui si addensano rimanendo disperse e reciprocamente ostili vite inguaribili di famiglie rotte, di coppie subito scoppiate, di imprenditori avventizi di cupa inettitudine che non capiscono il mercato. “Il mercato è tergiversare (…) è saltare il pagamento con un fornitore. Dilazionare. Minimizzare. Usare diminutivi e vezzeggiativi (…) lettere di sollecito. Carte intestate degli studi legali.” Ma il mercato è il mondo così come gli è stato raccontato, a questi personaggi. Sono impossibilitati a fare altro. A immaginarlo, un mondo diverso. Costretti tutti come sono in un presente pesante come l’acciaio, vissuto come se fosse condizione di natura, al punto che nemmeno la morte sembra riguardarli mai da vicino. “Nei luoghi come Cortesforza la morte sembra un’anomalia abusiva”, scrive Falco in uno di questi racconti (al solito, per incrementarne le vendite, qualcuno lo ha definito romanzo). Le case - il bene materiale - in cui cercano rifugio dal planetario apparato aziendale che ha sostituito la vita si disfano e si macerano nell’umidità: formiche, termiti, scarafaggi brulicano nei muri. La rabbia attonita di un fallimento costante, l’esito beffardo di una corsa senza senso non sono la storia di un personaggio particolare ma il destino cui sembra essersi consegnata la piccola ma significativa porzione d’Occidente che è raccontata in queste pagine.
Intorno, l’opacità astiosa di una banale tangenziale, (non) luogo di un passare senza fine (sostantivo da intendersi in entrambi i generi), di catatonica fissità violentemente interrotta da piccole esplosioni di furore in dialoghi compressi come i protagonisti, che sono protagonisti di nulla se non di una coazione a ripetere: vite replicate secondo i modelli dettati dalla narrazione pubblicitaria sedimentata nella pelle di cemento di un paese come tanti, ormai, senza storia, ove il bene – morale - non sembra ubicato da nessuna parte. Un libro importante, necessario. Che rattrista, ma nello stesso tempo rassicura ancora una volta sulla forza della letteratura: che sta nel nominare le cose con la lingua giusta, atto conoscitivo primo fra gli altri, approssimazione alla verità. Il contrario della pubblicità.

Michele Lupo

8 apr 2009

Giorgio Bona






Chiedi alle nuvole chi sono

Besa Editrice  Pag 157 ,  Euro 13,00

Un’umanità entusiasta e accorta insieme, eccitata e disincantata corre in queste pagine. Quello raccontato nel romanzo di Giorgio Bona è un mondo lontano. Non solo perché vi si narra di uomini e donne che nel teatro tele-metropolitano sembrano scomparsi ma perché è il modo stesso, stile e tono, del narratore che cifra un indubbio sentimento nostalgico, virile e apprensivo insieme, di rievocarlo ossia di farlo emergere dal passato. Così è anche della lingua, impastata nella stessa terra che racconta, “storie che devono molto ai racconti dei vecchi di famiglia”, secondo le parole dell’autore.
Bona gli ridà vita con la chiara intenzione di enucleare dai personaggi il cuore poetico del loro stare al mondo: un senso di fedeltà ai luoghi cui appartengono - la Val Susa -  anche quando se ne dipartono per terre promesse – il Venezuela – che non le mantengono, all’ethos che la sostanzia che consiste poi in una ruvida concretezza, una primaria partecipazione all’urgenza materiale del vivere. Per cui non v’è contraddizione in quella nuda crudezza di natura nell’oscillare fra un bucolico sentimento del tempo e la scabra disillusione di piccoli eroi costretti a sfangare la vita ogni giorno.
Se la storia principia per piccoli quadri lirici, scorci di paesaggio visti con la meraviglia di un ragazzino attento ma innamorato della sua terra, ancora disposto a lasciarsene stregare, ben presto assume le movenze di un western. Le peripezie si moltiplicano, le occasioni per guadagnarsi il pane s’inventano e non tutto riesce a dovere – che romanzo sarebbe se tutto andasse bene?
Ma la sgangheratezza del nonno e del padre del narratore, impegnati soprattutto in avventure di contrabbando dai risvolti comici e malinconici, non è quella dei pitocchi: ribalderia e affanno del vivere qui si congiungono sì ma suggellati in uno stigma di decoro, di dignità personale non negoziabili. Nella descrizione che ne fa l’autore tutto ciò sembra stargli molto a cuore; lo stesso uso del dialetto piemontese in funzione financo narrativa e non relegato a puro accidentale inserto, traduzione di una mentalità, di un’orchestrazione sintattica della realtà ben codificata intorno a una circoscritta ma solida compagine di intermittente saggezza, tutto questo sembra fare del suo libro soprattutto un atto d’amore per un’umanità di cui le statistiche odierne non sembrano avere contezza. La dimensione del sogno, rivendicata dall’autore a mo’ di preludio al libro, è nelle cose, nella stessa terra-personaggio, e perciò la lingua che la nomina si acclimata in un accordo elegiaco, dall’andamento fortemente emotivo, partecipato. Il che non impedisce al racconto di tradursi in vera e propria avventura fra Val Susa e il confine francese. Il contrabbando è la strada più spregiudicata, percorsa a rotta di collo - e sempre giocando al limite - da questa famiglia di sodali inquieti e un po’ spacconi; fra sparatorie e salti mortali di furgoni carichi di sigarette disperatamente decisi al grande colpo della vita - e intervallati nel montaggio dalle sequenze infelici del malriuscito viaggio del nonno in Venezuela - i fatti si susseguono a ritmo sostenuto. E si concludono dov’erano cominciate, in una terra “carica di stupore e meraviglia”. 

4 apr 2009

Daria Galateria

Mestieri di scrittori   Sellerio  






 Da Céline a Morand, da London a Hrabal, la francesista Daria Galateria colleziona ventiquattro brevi ritratti di scrittori colti in un momento – a volte la vita intera – che precede o accompagna la fatica dello scrivere per quella più prosaica del vivere, ossia nel tragicomico travaglio dello scrittore che fuori della pagina deve combattere per assicurarsi pane e companatico. Perché una costante che emerge da queste mini-biografie è il disagio degli scrittori nell’accettare l’idea di fare altro nella vita che non sia scrivere. Diciamo subito che nonostante l’interesse del tema – non so se un interesse da maniaci – il libro, forse per l’occasione da cui è nato (una serie di trasmissioni radiofoniche), non sempre brilla per verve e nel complesso si lascia leggere senza grandi entusiasmi. A volte il tono da regesto inficia il resoconto di biografie che immaginiamo piuttosto sapide - esemplare il caso del ritratto dedicato a Céline.
Ci saremmo aspettati dosi più massicce di humor nero, ingrediente che nella vita degli scrittori alle prese con difficoltà materiali non manca mai. Basti pensare ai casi di Svevo (prima impiegato in banca, poi responsabile della ditta di vernici dei suoceri), o ancor più in Kafka (una vita intera nel ramo assicurativo), nei quali è interessante la contraddizione fra l’aspirazione a un’esistenza votata interamente alla scrittura e la consapevolezza di doversi aggrappare a qualcosa, a un’occupazione materiale che li tenesse ancorati al banale regime delle preoccupazioni quotidiane, non tanto per ragioni economiche quanto per sentirsi - gli veniva facile – meno lontani da quella che potremmo definire, al netto di aggiornate considerazioni postmoderne, “la realtà”. A Svevo bastava che gli galleggiasse una frase nella mente per mandare in crisi la sua vita pratica per una settimana, per farne quell’inetto che il suo primo romanzo descrisse con l’implacabile ferocia del vero scrittore. Kafka confida al giovane amico Janouch il sospetto che “il lavoro manuale avvicina gli uomini”. Non stupisce il seguente paradossale corollario: la tensione per uno scrittore è tale che fuori della scrittura per molti di loro è meglio avvicinare la brutale fisicità del lavoro corporale piuttosto che riempirsi la testa con altre chiacchiere, idee o preoccupazioni di concetto. La testa di uno scrittore, perché dia il meglio, deve svuotarsi, lasciare campo aperto all’immaginazione, guadagnare vigore ed energia dallo sgombro che deriva dal pieno del gesto fisico. Sempre che ve ne sia stretta necessità: andare a chiedere a Jack London, costretto da un’adolescenza infame a rubare ostriche nella baia di  San Francisco, a cacciare foche nell’Artico, ad accatastare carbone in una centrale elettrica e molte altre cose ancora. La sera era distrutto e la letteratura sembrava un miraggio. Però in seguito ci lasciò alcuni racconti memorabili che non poco dovevano a quelle esperienze. Mille lavori (e vita davvero avventurosa) anche per il poeta svizzero naturalizzato francese Blaise Cendrars, prima della serie sgobba e muori (fuochista anche lui, cacciatore di balene, scaricatore nei mattatoi…) poi più consoni alla dimensione espressiva (reporter, sceneggiatore, animatore di riviste culturali). Proprio in area francese si dà il numero maggiore (fra quelli compresi nel libro) di scrittori nella cui vita si è affacciata la politica. Da Morand a Malraux alla Duras una certa urgenza ideologica, o uno smaccato interesse per il potere – elementi tutti non proprio proficui per la scrittura – sembra segnare l’intellighenzia creativa francese del secolo scorso. Cosa che non passava minimamente per la testa al grande Gadda, vessato da una madre rigidissima che lo costrinse a prendersi una laurea in ingegneria per la quale l’autore della Cognizione del dolore non aveva interesse (checché ne abbiano detto critici smaniosi di reperire sostegni tecnico-scientifici alla sua scrittura, che caso mai si nutriva di suggestioni epistemologiche, desunte dall’interesse per la filosofia, interesse non pacifico, problematico come tutto lo era nella sua vita). Per Gadda, parte della fatica insita in un mestiere, che fosse quello di  ingegnere o di giornalista, era già nel contatto coatto con i propri simili, che spesso faticava a considerare tali; lo spazio agito della polis per lui sarebbe stato un incubo. Laddove invece Ottiero Ottieri a modo suo lo indaga, quasi lo provoca andandoselo a cercare nelle nervature materiali dell’Italia industriale. Ma non fu una passeggiata, nemmeno per lui.





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