30 mar 2011

29 mar 2011

Lettura dell'ultimo romanzo di Alessandro Bertante su Lankelot


http://www.lankelot.eu/letteratura/bertante-alessandro-nina-dei-lupi.html


NINA DEI LUPI


Sono diverse le cose cui a un primo sguardo potrebbe far pensare questo libro di Alessandro Bertante – molto sponsorizzato da un drappello di scrittori che lo vorrebbero vincente al Premio Strega (ma non era un premio di merda?, o si pensa di ridargli un minimo di credibilità?). A prima vista sembra un paesaggio apocalittico di quelli alla Cormac McCarthy - più per il tono che per il décor, qui rurale-montanaro -, da fine dei tempi, come succede anche al Davide Longo de L’uomo verticale; oppure una riscrittura di s-fondi mitologici e non sai quanto nostalgici di arcane, insidiose purezze da opporre all’insensata violenza del presente (non mancano suggestioni simili, sempre per restare alla recente letteratura italiana, nell’esordio della Di Pietrantonio o nell’ultimo De Pascalis), le stesse che invece smitizzano nei loro ultimi romanzi Ernesto Aloia, e per via laterale e in tutt’altro contesto Adrian Bravi. Perlopiù, nonostante la prominenza di aspetti magico-simbolici cui soggiace la stessa storia esemplare dalla bimba Nina, che seguiremo attraverso la sua iniziazione verso una risoluta compiutezza femminile, l’autore riesce a sgombrare il campo da finte nostalgie, evitando di tentare improbabili recuperi di terre promesse con quell’effetto posticcio di certa romanzeria d’oggidì che simula l’autentico “de ‘na vorta” e suona fastidiosamente falso. Interessa piuttosto qui il farsi di un mondo in frantumi dopo la “Sciagura” che lo ha quasi spazzato via,  la distruzione di tutto ciò che riconosciamo come umano lì a un passo dal paese – il mondo fuori da fine della storia che preme per chiudere i conti anche con il piccolo paese di Piedimulo, luogo centrale del racconto (“un posto selvaggio, intriso di leggende, ottusità ancestrali e della fatica secolare che solo i montanari conoscono”). Più che lo scenario catastrofico, dunque, la possibilità di una rigenerazione, un nuovo inizio possibile.
 
Quindi la storia che si racconta è essa stessa mito (con il ritorno del mito - e alternativamente, a seconda, il bisogno di finirla con il postmoderno, oppure con le macerie del relativismo, l’urgenza di una ri-fondazione sembra passare attraverso una bonifica del razionalismo che è ormai diventata un’ossessione della narrativa italiana da un po’ di anni a questa parte, con tutti i rischi che comportano le “tendenze”, per usare un termine modaiolo: le monnezze si sprecano). La tenuta diNina dei lupi è di sicuro più robusta, a tratti potente. L’atmosfera cupa e minacciosa è credibile, le parole di solito misurate, composte, alcuni passaggi belli; meno, a mio personalissimo avviso, quelli che riprendono movenze liriche da passi e ballate tradizionali alpino-celtiche e il fantasy che si affaccia a tratti corrivo e manicheo con la sua linea di separazione qui vs altrove, noi vs loro etc. I personaggi del libro si muovono in uno scenario di violenza primordiale, terribile, ma dopo il crollo della civiltà emerge la necessità di ricostruire (sono chiari i rimandi allegorici al presente). Ed è quello il compito che aspetta Nina, che nella catastrofe  che riduce le cose alla loro natura essenziale, crescerà molto prima degli altri e scaverà dentro di sé e nella natura stessa che la circonda l’opportunità di salvarsi dal buco nero della storia umana che sembra voglia inghiottirci.

26 mar 2011

Cinema Asiatico

una mia recensione a un libro di Dario Tomasi, pubblicata sulla bella rivista di Saul Stucchi
Rashomon
Che cosa conoscono i giovani cinéphiles veri o sedicenti che non mancano di seguire ogni nuova uscita di Kim-Ki-Duk (negli ultimissimi anni un po’ rallentato) o Jonn Woo della grande storia del cinema dell’Estremo Oriente, che ciò significhi Cina o Giappione, Taiwan o Coree, Ozu o Mizoguchi, Kurosawa o Imamura? Studio dunque utilissimo il libro di Dario Tomasi, professore di storia del cinema all’università di Torino. Il cinema asiatico assomma e cerca una sintesi fra le ragioni tecnico-formali e il contesto sociale di ogni paese implicato nell’indagine. 
Tomasi restituisce la traccia sintetica e per forza di cose non esaustiva ma attenta a richiami eterogenei e altamente significativi di un percorso avviato col cinema muto giapponese e gli anni Trenta, che passa per un repertorio di opere sensibili agli eventi bellici, alle costruzioni ideologiche, al genere, al dramma storico, alle “storie di samurai, eroine e cavalieri erranti”, alle arti marziali, nonché ai rapporti con l’arte teatrale del “noh” e del “kabuki”
 e consapevole delle influenze occidentali per così dire “in entrata e in uscita”. Concludendosi con una panoramica sulla filmografia essenziale degli ultimi vent’anni e in ideale rapporto di complementarietà fra esempi di espressività al limite, essendo estreme le scelte formali di fondo, che passano dal ritmo lentissimo e dall’architettura essenziale del cinema di Ozu a quello frenetico di Tsui Hark.

Quel che più conta, nel lavoro di Tomasi, è il fatto che il cinema sia visto come un’arte che racconta sì una parte di mondo (la conoscenza della cui antropologia culturale aiuta la definizione di una mappa di topoi orientativi), però inserita in un più ampio orizzonte che tiene insieme la problematizzazione di questioni tecniche ed espressive (puntuali le analisi che concercono le scelte stilistiche), i concreti apparati produttivi che rendono possibile il mondo-cinema e le più complesse ragioni storiche e sociologiche (diverse da paese a paese) che fanno da sfondo non inerte alle opere studiate  (capolavori o meno, poco importa). Di volta in volta le opere-exempla illuminano, anche con violenza, lo scenario del loro tempo offrendo perciò modelli di ragguardevole persuasività al cinema occidentale. Possono rappresentare una particolare risposta al giogo del potere o una sua introiezione più o meno obbligata, secondo dinamiche proprie a ogni  arte, a un certo modo di intendere i rapporti fra le persone, in uno scandaglio che non può dimenticare i tratti nazionali ma nei casi migliore, riesce ad andare oltre. 

Tomasi
Quando lo fa, questo cinema invece di chiudersi in se stesso, parla al resto del mondo: basti ricordare che Rashomon di Kurosawa è stato usato, probabilmente con eccessiva disinvoltura teorica, nell’Europa intellettuale quale paradigma di un certo relativismo del punto di vista che nel postmoderno l’ha fatta da padrone – o forse sarebbe il caso di parlare di pluralismo e ripensare Isaiah Berlin? Di fatto, così, si inserisce nella migliore storia dell’arte contemporanea tout court. Seguono una bibliografia aggiornata sull’argomento e un per niente scontato (nell’editoria attuale) indice dei nomi. Ricordo che Dario Tomasi è anche autore di monografie dedicate ai più grandi registi della storia giapponese.
Michele Lupo

Dario Tomasi 
Il cinema asiatico
L’Estremo Oriente

Editori Laterza

24 mar 2011

Professionisti del potere - dal paradiso si fa per dire



Elio Rossi

I professionisti del potere

Chiarelettere


copertina del libro
Elio Rossi non esiste. Nom de plume, ci avverte l’editore. Come prendere un libro il cui autore è sconosciuto e dice di star dentro ai meccanismi che denuncia? Ci piacciono le persone che ci mettono nome e faccia, lo pseudonimo toglie paradossalmente un po‘ di credibilità all’operazione sebbene l’autore dica di muoversi nell’intento di rendere un servizio a un pubblico il più ampio possibile. Comunque la domanda è: impariamo qualcosa che non sapevamo da questo pamphlet anonimo? "Ecco come gli italiani sono comandati e da chi" è il sottotitolo. Vediamo.
I nomi son sempre gli stessi, proprio quelli che uno immagina. A parte l’Ovvio di Arcore e Mediobanca, lo IOR del Vaticano, l’Eni, Geronzi, Ligresti, De Benedetti, Telecom, D’Alema, l’UDC e la Lega che non scherza mica. Fra politici e industriali e fondazioni bancarie e amici degli amici e parentele che si scambiano i posti nei consigli di amministrazione e si passano il testimone fra un cazzeggio e l’altro, la corte si allarga a un’estesa servitù che inscena la recita della democrazia per coglionare un popolo allegro e distratto. Il conflitto di interessi, scriveva anni fa in un libro Adelphi Guido Rossi (non è che?...) è epidemico, quindi si farebbe prima a dire chi ne sta fuori. O dobbiamo ricordare i nomi degli industriali degli ultimi governi? O l’elenco di avvocati e notai e magistrati in un parlamento che ancora definiscono sovrano?
L’informazione stessa, chiave di volta senza comprendere la quale il mondo stesso in un certo senso non esiste, è basata sull’agenda setting. Il che vale a dire che è la politica a stabilire cos’è una notizia, a decidere se e quando darla, che le crea insomma, scrivendo la traccia narrativa del mondo in cui crediamo di vivere. Inventa le priorità, depista rispetto alle questioni cruciali che non sa o non vuole affrontare. Non è una grande scoperta, così come quella degli editori che sono essi stessi politici – e non ci sarebbe nemmeno bisogno di arrivare al signor B. L’idea del libro è che più o meno l’intero pianeta giornalistico italiano soggiace a uno strumentario di propaganda, di pubblicità, di fabbricazione del consenso e occultamento della verità. Visto dal retroscena di interessi vitali, quelli del padrone e quelli della servitù che finge di allestire dibattiti e in realtà sobilla opinioni e modi di pensare spacciandoli pure per “naturali”, lo scenario è sconfortante ma ahimé noto. Perlopiù i giornalisti si trasformano in uffici stampa – e guai a rimproverarglielo, specie ai recensori di libri, aggiungo io. Si sono lamentati al Fatto Quotidiano di non essere stati segnalati come testata non condizionata da potentati economici – gli altri non lo hanno fatto, e uno non sa se considerarla un’ammissione di responsabilità.
Insomma, i pochi oligarchi che controllano il potere in Italia fanno e disfanno, condizionano l’intero paese, manovrano la finanza e il mercato, pilotano crisi e non ne risolvono altre perché va benissimo così. Il libro si propone dunque come testimonianza dall’interno; considera Berlusconi più un effetto di questo sistema che una causa. A parere di chi scrive, e detto fra parentesi spostando il discorso su un piano culturale, B. è entrambe le cose ma ne abbiamo abbastanza di parlarne. Andrebbe esiliato e morta lì. Ma a proposito di nomi, vale il solito suggerimento agli editori: in libri come questo un indice analitico ci starebbe sempre bene.

Michele Lupo

23 mar 2011

MICHELE LUPO: Venerdì 1 aprile

MICHELE LUPO: Venerdì 1 aprile: Feltrinelli di Bari (via Melo, 119)

Presentazione  del mio libro I fuoriusciti
Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette

con Gabriella Genisi


22 mar 2011

Ancora lei, la mascotte (non me ne capacito, ma si "esprime" anche lei!))

A volte basta poco per ringalluzzirsi. Alla mascotte di Tremonti – bisogna dire, il visuccio sempre più tirato che poco si addice al ruolo di portafortuna – è sufficiente la protezione dall’alto ipotetico del porcello-nano (lo scrivente è per l’insulto purché rispettoso dei dati di fatto: abbasso l’iperbole e la caricatura). Ora che la Corte Europea le ha dato ragione sulla questione del crocifisso non la tiene più nessuno. “Esprimo profonda soddisfazione” ha detto. Sicché, stando all’etimo (exprimere), quello che è successo è chiaro: la signora si è sforzata e ha cacciato via quello che aveva, dal profondo. Svelato il mistero di quel visuccio tirato – ora va meglio.

21 mar 2011

L'otre di lardo 4

Potrebbe anche schiattare domani, ma per quanta prepotenza esibisca nel riempirsi di lardo maleodorante manco fosse il solo contenitore capace del tuo singolare paese, non gli riesce nemmeno a lui di stravincere su tutta la linea. Non è il solo, anche se gli piace apparire come l’unico. Simbolicamente potrebbe pure farcela, ha ragione di ritenersi un maiale di razza: si fa pagare caro, si direbbe profumatamente, per dire quel che dice e fare quel che fa. Col profumo suddetto ci disorienta, trattandosi di materia nobile rispetto a quella che di solito usa nei combattimenti. Che poi c’era già la vocazione, per farlo, un’inclinazione spontanea. 

20 mar 2011

su Lucio Klobas

un mio articolo pubblicato originariamente su http://www.lankelot.eu/letteratura/klobas-lucio-anni-luce.html la rivista seria e poco modaiola di Gianfranco Franchi



ANNI LUCE



Libro non facile non semplice questo di Lucio Klobas, ma di pertinace lavorìo – quello del lettore compreso. Un romanzo fitto, folto di pensieri tenaci, instancabili, dalla prosa avvolgente e scarnificata nello stesso tempo, una prosa che insegue le meditazioni del narratore e non dà tregua al lettore, chiamandolo a un ascolto continuo, paziente, laborioso – senza nessun agio spettacolare, senza colpi di scena e trucchi da quattro soldi, senza ammiccamenti, birignao e salamelecchi di nessun genere. In breve, un libro ostico per chi si è abituato in questi anni a confondere la letteratura con le classifiche di D’Orrico, i sermoni interessati dei neobarbari che vogliono farti credere d’essere all’avanguardia (detestandola) perché hanno accettato in sé l’inaccettabile e lo hanno anzi promosso non a segno positivo dei tempi ma a sua sperticata apologia: la promozione della propria inconsistenza a figura dell’Inconsistente dominante. Klobas va in cerca dell’opposto non curandosene, nonostante la nomea di scrittore sperimentale a me pare che Anni Luce badi davvero al sodo di un avvicinamento al suo oggetto attraverso un racconto piano ma inflessibile, circondandolo da ogni lato, saggiandone la consistenza, il peso, misurandone persino l’elusività non perché sia vuoto ma perché è nella natura delle cose quella di perdersi – il narratore lo sa.
Tutto tranne compiacimento, dunque; il narratore cerca in una fotografia le tracce di una storia, una storia d’amore, una storia che ha da fare con la propria, quella dei propri genitori, e non si illude di trovarle – come ha creduto forse per un momento il fotografo che ne fu artefice –, registrando con puntiglio l’inventario delle gradazioni, delle occasioni, quelle perdute e quelle che spera(va) di fissare in un senso, fors’anche in una realtà definitiva. Intorno a queste memorie di famiglia si misura un lungo periodare parentetico; il romanzo è un applicazione sulla verità di una storia che la lingua meticolosa (uno sciocco potrebbe ritenerla pedante) tampina, tormenta, senza mai arretrare. Nulla difatti riesce a placare il flusso continuo di parole e precisazioni e parentesi e ripensamenti, solo sette tappe che focalizzano l’attenzione su un motivo poi su un altro ma non smettono di fibrillare, inquiete epperò controllate, ricche di digressioni che sono però modi indispensabili per tentare di non lasciare indietro nulla, di non risparmiarsi nulla, di guardare sempre oltre i limiti laterali della traiettoria prestabilita per scorgere chissà il dettaglio rivelatore, il miracolo di un’ultima rivelazione. L’infanzia è lontana, preceduta anche dall’aurora del non-essere, il momento del matrimonio dei genitori, un momento che la fotografia vorrebbe invano fissare come una promessa di felicità eterna ma la lingua inesausta che ne scruta la luce, i volti dei protagonisti, le incertezze della posa, si apre già al movimento di quella che potrebbe essere una macchina da presa: sicché ne viene una domanda: lo spazio visivo coincide o no con la possibilità dello sguardo di comprendere la verità delle cose una volta per tutte? È la storia dei genitori l’oggetto del racconto o la fotografia che voleva riprodurla (forse salvarla dal futuro più che garantirne uno)? 
La cosa felice è questa, che il lunghissimo periodare non inficia per nulla la chiarezza del testo, anzi la sua sfida (a mio avviso stravinta) sta proprio nel mantenersi compatto pur senza smettere di tentare l’inafferrabile del tempo (della vita, del senso) che sfugge da tutte le parti – come le pretese di verità di una fotografia. Mi è venuto fatto di pensare che Klobas sia un Mozzi in chiave maggiore. Ma direi che si tratta solo di una modesta lettura preliminare – il libro meriterebbe un’indagine approfondita, lenta e paziente, di una pazienza degna di quella con cui è stato scritto.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Lucio KlobasAnni luce,   Effigie Milano 2010
Istriano di origine, Klobas è nato nel 1944. Vive a Bergamo. Ha pubblicato numerose opere di narrativa, alcune delle quali tradotte all'estero. "Galleria del vento" (1976); "Crudeltà mentale" (1983); "Giorni contati" (1994); "Il verme solitario" (1997); "Senza scampo" (1999); "Il tempo vola" (2000); "Passo felpato" (2002); "Mono Trilogia" (2004).


Approfondimento in rete
http://www.lankelot.eu/letteratura/klobas-lucio-giorni-contati.html 


http://www.ilcaffeillustrato.it/numero_12_artklobas.html
Michele Lupo



19 mar 2011

Venerdì 1 aprile


Michele Lupo

I fuoriusciti

Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette


alla Feltrinelli di Bari
(via Melo, 119)
presenterà Gabriella Genisi
Ore 18.30

17 mar 2011

su Ernesto Aloia in paradiso



Paesaggio con incendio

minimum fax


copertina del libro
Ernesto Aloia, già autore di raccolte di racconti – marchio minimum fax, come questo Paesaggio con incendio - e di un romanzo Rizzoli, è uno che scrive bene. Mi piace dare subito un’idea della sua prosa (il narratore descrive una donna che non è più quella di una volta): In attesa di diventare polvere Stefania, che era stata una bellezza bionda e vistosa, ricordava piuttosto una barca tirata in secca e lasciata per anni in pasta alla salsedine, sotto la frusta delle intemperie, con la vernice che si stacca a larghe pacche e lo scafo che si sfascia al sole.
L’evidenza con cui lo scrittore torinese cura ogni frase – e non si tratta di frasi “semplici” evidentemente – appare qui e a ogni pagina; alla brillantezza descrittiva corrisponde un ritmo sempre all’altezza, in questo romanzo un allegro continuo di ammirevole tenuta che scandaglia paesaggi, situazioni e rovelli interiori dei personaggi (se dovessi indicare un limite nel libro di Aloia è che il racconto rischia a volte di disperdersi in troppi rivoli e di smarrire la tensione necessaria).
Il personaggio principale è Vittorio, uno storico quarantenne che come ogni estate per due settimane se ne torna assieme a moglie e figlia in una vecchia casa sull’Appennino. 
Questa volta però è diverso, l’elegia che si accompagna sempre ai ricordi dell’infanzia è scartata da un lutto recente, quello della madre, che Vittorio non riesce a scrollarsi di dosso. Il suo controllato cupio dissolvi contrasta con il desiderio deciso della moglie di avere un altro figlio. Una sorta di contrapposizione fra vita e morte è dunque il portato di queste due vite nel momento in cui le incrociamo noi lettori; contrapposizione che i due cercano di tenere faticosamente a bada in uno scenario meno rassicurante di quanto non accada nella recente narrativa italiana incline a una rappresentazione mitologica, non di rado ingannevole, dell’Italia contadina o comunque “paesana”. Nel libro di Aloia l’affacciarsi lento ma implacabile di un nucleo di odi atavici, di passioni ingestibili, di mali soffocanti che corrono fra gli abitanti e i villeggianti non sempre desiderati del luogo, sembra essere meno di maniera e più realistico. 
In special modo, una coppia di amici qui è perseguitata dall’ex spasimante di lei, ormai uno psicopatico, ricco e nullafacente, che non ha perdonato quello che nel suo delirio è uno sgarro fatto alla sua persona. Preso dalle proprie inquietudini, Vittorio non capisce subito quello che succede, laddove la moglie, pittrice mancata, cerca di recuperare nei suoi dipinti un senso a quel momento. Quella luce, quei segnali mobili alla ricerca della verità del luogo sono anche la premessa per tornare a vivere sul serio, mentre lui vorrebbe fermare il tempo nel sogno di un’età felice che non solo è fittizia ma lo blocca e non lo fa andare avanti. In quella luce si nasconde in realtà un delitto, la possibilità del male, che va visto per ciò che è. Nel miraggio di un tempo mitico rischia di cristallizzarsi infatti anche il risentimento, un irrazionale e inestinguibile desiderio di vendetta per i presunti torti subiti: “n paese i rancori crescevano mostruosi, smisurati; in paese, i pregiudizi com’è noto sono duri a morire, se ci si fissa con le colpe di qualcuno, con le sue manchevolezze, non c’è scampo. 
Un thriller atipico che sgombra il campo minato e sin troppo frequentato negli ultimi tempi dall’editoria nostrana di un’idealizzazione dark-folk di montagne e dirupi e rovine. Di un’Italia che non si sa più dove sia.


Michele Lupo




L'otre di lardo 3


Un otre di lardo del resto non puoi sperare che se ne vada in giro e non lasci odori. Puoi evitare di pensarci fino a quando non ti capita d’impattarlo da qualche parte. Il posto in cui vivi si presta, non ci piove su questo. Ci sarebbero cattivi odori ugualmente, anche senza l’otre di lardo. Per quanto egli si sforzi, sudando visibilmente, di  riassumere in sé tutti i cattivi odori del posto in cui vivete tu e lui, non ce la fa. Il terreno intorno è favorevole, i sodali numerosi. Gli amici degli amici, potenti. E anche gli avversari (presunti secondo certe malelingue) facevano a gara per elogiarne l’abilità, l’intelligenza persino. 



Premio Strega a I fuoriusciti

ma poi mi hanno telefonato, tutti e 400 insieme, gli amici della domenica, dico, per il premio come si chiama, Strega, sì, Strega, dice guarda sì, è vero, te lo avevamo promesso, però sai, poi ci sono i giornali comunisti, le toghe rosse, e bla bla, dico mbè? e allora? dice no, sai quest'anno ci sono pure le cozze acide, quelle che, insomma quelle che capito... mica facile







LA LEGA MI FA SCHIFO


15 mar 2011

L'otre di lardo 2


2 Però gli veniva difficile non pensarci, a volte. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, sicuro. Non puoi rovinarti la vita pensando a cose come quelle. Il segreto è proprio andarsene da un’altra parte con la testa, con l’immaginazione. Il segreto era l’immaginazione. Ma non tutto funzionava a dovere. C’erano troppe cose che non andavano in giro, c’erano di quelle cose che facevano un rumore del cazzo, in giro, che non sempre potevi non sentirle. L’orecchio ne soffriva. Ne soffriva l’attenzione. La tv di stato potevi spegnerla ma non era detto che i suoi rumori non arrivassero fin dentro la tua casa. Non sempre l’umore restava immune da quella roba.

Adrian Bravi - Il riporto - Nottetempo





“Uno non pensa mai che un giorno, quando meno se lo aspetta, gli può capitare di dover fare i conti con la propria vita, perché nessuno crede che uno spiritoso qualsiasi può metterlo a nudo davanti a una platea di studenti che si danno di gomito e se la ridono a squarciagola, come una volta è capitato a me, a lezione”.
In questo incipit c’è la storia e il compendio di questo piccolo divertissment, condotto con mano salda da Adrian Bravi, scrittore argentino di stanza a Macerata che ha ormai all’attivo diversi romanzi nella nostra lingua.
Il narratore soffre di un’alopecia androgenetica, e come gli uomini migliori della sua famiglia rifiuta i mezzucci che i calvi e i semicalvi inventano per sopperire a un handicap spesso mal tollerato. Niente parrucchini o rasature complete, dunque. I Gherarducci cercano soluzioni controcorrente, eccentriche, demodè, e il narratore li batte tutti: vuole un riporto in avanti, lui, alla Giulio Cesare. Ma una frangetta così precaria non dà garanzie, qualsiasi sia l’accorgimento con cui viene allestita: il colpo d’aria ci sta tutto. Lo spiffero. L’incidente fortuito.
Quello che sconvolge Arduino è invece altro: il gesto arrogante, inconcepibile, beffardo di un  suo studente, che davanti al gruppo di universitari che seguono le sue lezioni di “scambio dei dati bibliografici”, glielo scompiglia, il riporto, e manda a puttane una vita intera. Il suo è un corso universitario serio, non fosse che per questo non si sarebbe mai aspettato un gesto del genere (mica viene da un ragazzo iscritto a “Scienze della Comunicazione”, dice). L’acconciatura che pareva allo studioso di una sopraffina “finezza” diventa la causa di una crisi profonda che lo fa fuggire dall’università e dal resto, moglie compresa.
L’imbarazzo e poi la vera e propria umiliante vergogna che seguono al gesto efferato sono però materia di un racconto ironico, comico, per situazioni ma anche per le tonalità in uso, sottolineate come sono dallo sconcerto reiterato, dal rimuginìo che accompagna la fuga – attraverso le montagne delle Marche, piuttosto che nella Lapponia in un primo tempo vagheggiata. Ma Arduino, benché finisca per rifugiarsi in una grotta, in mezzo al bosco, e in quella solitudine sia costretto ad affrontare altri tormenti, non ci pensa minimamente ad abbandonare il suo riporto. Avrebbe altro cui pensare, insomma, se è vero che si trova a rivivere paure ancestrali, profonde, infantili; se è vero che teme addirittura l’arrivo dei cannibali di cui si favoleggia in giro. Eppure, il pensiero gli va a finire sempre lì, al riporto. Che, va da sé, è la chiave di volta di una vita – così, cogitabondo, è costretto a fare i conti con una verità amarissima: quella con la moglie era tutto tranne che una grande intesa - mai compreso la portata del suo dramma, lei, visto che il giorno delle nozze non fece una piega quando uno sboffo d’aria gli smosse la sua “finezza”.
Lasciarla, una donna così, è il minimo, ma nella grotta succede qualcosa di inaspettato – che non riveliamo, per chi avesse voglia di avventurarsi in questa lettura sfiziosa, dall’umorismo insolito, quello di un personaggio che non nasconde la sua “antipatia per il genere umano. Antipatia che non solo ho coltivato con la lettura di certi libri di storia e di certe teorie filosofiche e teosofiche, ma anche dormendo nella stessa stanza con mio fratello”.



Cose serie


dunque, tu ti metti in fila ad aspettare il tuo momento - la botta di culo che ti cambia un po' la vita, prima di quella che te la cambia completamente, il Nobel, va da sé - e ti dimentichi che sei in Italia: qua la fila non si fa, qua tutti corrono e scavalcano, a dire: tocca a me, ci sto io, tocca a me - 'sto premio Strega insomma lo vogliono tutti e tutte, chi manda avanti gli amici e chi si mette in posa da sé (e io qua proprio non vi vedo, mosciarelli e tristanzuole) AMICI DELLA DOMENICA (perché gli altri giorni chi vi conosce!) - votate e fate votare I FUORIUSCITI (sono racconti, l'editore è sconosciuto, non manca niente no? 

14 mar 2011

L'otre di lardo 1

L'otre di lardo. Non c'era bisogno di guardarlo. Faceva schifo solo a pensarlo. Difficile immaginare qualcosa che facesse più schifo. La parola schifo se solo pensavi all'otre di lardo acquistava un senso di assoluta nitidezza. Come dire merda - dicevi merda e pensavi a lui. Non c'era bisogno di guardarlo. La tv di stato dovevi solo spegnerla.


12 mar 2011

Donatella Di Pietrantonio


madrefiume1


Donatella Di Pietrantonio è un’esordiente. Scrive da quando era piccola, dice l’aletta di copertina, fiabe, poesie, racconti, e per campare fa la dentista per bambini. Nel romanzo Mia madre è un fiume, dell’editore romano Elliot, racconta la malattia di una donna, la cui vita e i cui ricordi perduti da un impianto neurologico in disfazione, la figlia - voce narrante - cerca di riconquistare a un senso, un significato, una dignità esistenziale da strappare alla perdita. Lo scavo, la sollecitudine della narratrice riguardano ciò che è stato fuori, nel mondo quasi ancestrale di un Abruzzo senza tempo, e ciò che si è scritto nel rapporto, difficile, doloroso, fra loro due. Il rendiconto è complicato, scavare nella memoria fa male, peraltro con il senno della madre è tutta una cultura contadina che sembra allontanarsi per sempre. La figlia, cercando di aiutare la madre, stringe il racconto in immagini un po’ ansiose che dovrebbero renderlo visibile, quel mondo, anche a lei. Le ferite non si rimarginano e i personaggi delle terre appenniniche sconosciute ai più ma non dissimili dal resto del mondo contadino centro-meridionale si affacciano sulla scena come pietre trascinate da una slavina, pronte a perdersi eppure dure, coriacee. Storie di migranti, di andate in guerra, di lavori mal digeriti in città.

In Mia madre è un fiume sembrano tornare certi echi rurali di tanta narrativa tardo verista, ma, piuttosto che articolati in una narrazione fluente, appaiono fissati in pochi tocchi, di rallentata emotività, a volte sapienti, a volte stucchevoli. Ora, a giudicare da questo inizio d’anno l’editoria italiana sembra puntare molto su una letteratura femminile che insiste a mostrarsi tale fine all’apoteosi del clichè: intimismo, poeticismo, nonne e zie, disgrazie assortite, malattie, ricordi che vanno e vengono, sintassi raccolta in frasi brevi – altrove, ho chiamato tutto questo “profondismo”. 

Rispetto al repertorio di suddette convenzioni, il romanzo di Donatella Di Pietrantonio garantisce un dettato sopra la media, e dimostra una certa abilità nella costruzione. Si riscontra un’apprezzabile tenuta della lingua che bilancia i rischi di una narrazione evocativa, che ha il difetto però di non rivelare mai niente di particolarmente disturbante, di tradire le attese che il tono talvolta contegnoso richiama, e benché intense le sensazioni che corteggia non lasciano il segno più di tanto. Anche in questo libro largheggiano sussiegosi sostantivi astratti che cercano di afferrare verità definitive, un po’ sentenziose, fra personaggi talvolta interessanti talaltra meno, un po’ rapsodici, tutto in una terra d’Abruzzo che resta un po’ mitologica un po’ favolistica anche se la storia si dipana a distanza di molti decenni da quella raccontata in un altro libro recente ambientato da quelle parti: La pazzia di Dio di Luigi De Pascalis, romanzo inscritto dentro una riconoscibile tradizione storica ma di sicuro meno monocorde e più solido nell’architettura narrativa. Scrittrice da rivedere.
Michele Lupo


Donatella Di Pietrantonio  
Mia madre è un fiume
Elliot 



11 mar 2011

abbraccio questo ragazzo

grazie a Giacomo Russo
parole semplici e inconfutabili - l'intero Partito Desolante non le ha mai sapute dire

10 mar 2011

Splendida lettura del mio romanzo L'onda sulla pellicola

ringrazio la poetessa Lucia Tosi per l'appassionata lettura del mio primo romanzo e il poeta Francesco Marotta per averci ospitati nel suo bel sito "La dimora del tempo sospeso"




Lucia Tosi


Michele Lupo, L’onda sulla pellicola
“uomo, si fa per dire: la sua evoluzione si era arrestata a uno stadio adolescenziale, primo perché gli faceva comodo, secondo perché non aveva un briciolo di curiosità per ciò che viene dopo e terzo perché questo lo rendeva antipatico a un sacco di gente, e stare sulle palle a tanti subendone la sdegnata disapprovazione era un modo sfizioso per impallinare la noia.” (p. 200)
La quarta di copertina del romanzo d’esordio di Michele Lupo, L’onda sulla pellicola, Besa, 2004 potrebbe agevolmente avvalersi di queste righe, circa sei nell’originale, per illustrare il personaggio di Livio Viola, il protagonista. Detto tra noi: ad un pubblico di lettori non ingenui tale descrizione dovrebbe bastare per indurli a leggere il libro, ma è più probabile che il lettore viziato-smaliziato invece pensi: “L’ennesimo inetto? E che ce ne facciamo?” Ce ne facciamo, e molto. Vorrei intanto chiedere a chi si occupa seriamente di romanzo se può, in tutta coscienza, affermare che la traccia del personaggio malcontento, inadatto a vivere secondo i ritmi e i canoni di una data società, ha mai veramente smesso di agire e fruttificare in certa letteratura successiva a Dostoevskij, Kafka, Musil, Svevo. Ci sarebbero poi Mann, Joyce, di nuovo Svevo, per la figura dell’artista giovane e meno giovane, poi Gadda per l’ironia feroce con cui ogni diversità è percepita e raccontata. In America incontriamo Bellow, Malamud, P. Roth: casualmente tutti ebrei, e tutti alle prese con personaggi dal successo apparente, che però vivacchiano, molto spesso, rimbalzando da un’insoddisfazione all’altra, come saltellano da un letto all’altro. Del romanzo italiano più recente non parlo, perché L’onda non ha con esso nulla a che spartire.
Livio Viola, trentacinquenne dal nome che sembra un giochino di parole (o un nome parlante, se spostiamo sulla i l’accento del cognome: ma avremo modo), insegnante precario al quadrato: perché insegna in due scuole private, un diplomificio grottesco e una scuola confessionale, con velleità cinematografiche che oscillano tra il voler fare l’attore, più che altro per sfangarla, e il sogno di un film (sceneggiatura, regia, tutto), bello, pare di cogliere qua e là, e di gentile aspetto, irresistibile grande seduttore, si muove, nell’arco di circa un anno scolastico, con qualche eccezione, dentro una Roma che ci è data per brandelli e che potrebbe essere qualunque altro luogo al mondo, da casa a scuola e da scuola (scuole) a casa. Sosta talora da un’amica compiacente giusto il tempo di una fellatio. Si porta a letto, e senza tanti preliminari, questa e quella. Vive perennemente impriapito: gli basta una scollatura, uno sfioramento, un odore. Le donne finiscono presto, in sua presenza, giovani e vecchie, fanciulle in fiore e attempate befane, donne mature e navigate, trentenni in caccia dell’eterno principe azzurro, per sognare ad occhi aperti (a gambe aperte) di catturarlo, di tenerlo per sé: se lo strattonano, fanno a gara. Ma Livio è irriducibile: ammalato di dongiovannismo, schizoide, lo definisce la fidanzata psicologa, per niente preoccupato, anzi, fieramente convinto a diffondere il verbo della solitudine: della quale più presto si convinceranno gli umani, meglio sarà, è come un cavallo che non conosceva steccati se non quelli che si imponeva da solo momento per momento (p. 343)
Il teatro (teatrino), contro cui si stagliano le vicende erotiche del protagonista è quello della scuola. In una, studenti per lo più ultraventenni, coatti, dannati e cannati, bighellonano per i corridoi, stanno in classe attaccati al cellulare, sgommano all’uscita sui suv, nell’altra ragazzine perbenino recitano la preghiera prima di iniziare le lezioni, ridacchiano alle trasgressioni del professore, lo credono un po’ matto. Inferno e Paradiso: o due inferni, uno proprio e uno improprio. Teatro, o cornice, però intercambiabili: la rapsodia che caratterizza le azioni-coazioni del protagonista mette sullo stesso piano pubblico e privato, lavoro e vita personale, scuola e sesso. Attraversa questo ritmo di quattro quarti il contrattempo del diario di Giorgio, allievo di Livio e figlio della sua quasi compagna Giulia. Giorgio è sensibile, infelice, vive con il padre anziano, incazzato perenne a prescindere. Interrompono il flusso quasi di coscienza i giochi analettici e prolettici in cui erompe il paesaggio del sud, nel quale Livio si annulla, facendo tacere un poco la mente che di solito gli galoppa a mille.
Giorgio è giovane, Livio gli vuole bene, a modo suo: come è capace di voler bene un narciso. Vede in lui un po’ se stesso: o meglio: quel se stesso che non ha avuto modo di essere. Vi vede la possibile costruzione di un’identità affettiva che egli ha smarrito. Giorgio è adeguatamente sfortunato con le ragazzine, Livio da ragazzo si scopava le ragazze più grandi, girava senza una lira in tasca per mezza Europa, Giorgio è ingabbiato tra una scuola che odia e una casa in cui il padre, piedi puzzolenti e scaracchi nel lavandino, si aggira come un trapassato, inveendogli contro per ogni cosa. Come se il sostare rabbioso nella minorità di Giorgio fosse presagio di voli spiccabili in luoghi e tempi opportuni in futuro, mentre la vita, vissuta troppo avidamente prima, quella vita cui assistiamo a volte quasi dal buco della serratura, altre quasi presi in mezzo, non potesse riservare a Livio nessuna ulteriore piacevole sorpresa.
Livio va tuttavia avanti. E’ un precario, poi un licenziato, uno che, in quanto tale, fa bene al rafforzamento della specie. Non un timore, non un tremore per il futuro. Perché semplicemente il futuro non c’è, almeno per lui. La sua precarietà è perdente e resiliente allo stesso tempo. Incarna il tipo del potenziale suicida, di quelli che se compiono il gesto tutti si meravigliano: ma come? così bello, intelligente, giovane… ma Livio, per cominciare, non è giovane: non è cresciuto, il che è diverso, è infantile e prepotente. E’ molto intelligente, questo sì. Vede attraverso le situazioni, dentro le persone di cui vìola costantemente il territorio, impedendo loro di essere quelle maschere tranquille che sono state fino ad allora. Così il vecchio professore in pensione, convinto irriducibile comunista: meglio: luogocomunista, viene sottoposto al fuoco di fila delle domande senza risposta di Livio. Poiché ne capisce meno della metà, dovrebbe essere lasciato in pace, se non altro per impedirgli di emanare con le risposte la tremenda puzza di aglio che assume come cura antipressoria. Ma Livio non perde occasione: essendo Imperio un bel prototipo di quella sinistra imborghesita e ciabattona, che ha consegnato l’Italia a degli sfacciati che non nascondono minimamente di saper vendere il nulla, la sua rabbia non vede l’ora di esercitarsi ripetutamente, senza freni, senza inibizioni. Livio è un selvaggio e allo stesso tempo un libertino: colto abbastanza, supponente, svelto a dissimulare le sue eventuali ignoranze e a simulare conoscenze che non ha. Ama sentirsi parlare: a volte si esprime come un esteta decadente, altre come un sentenzioso filosofo stoico. E’ il primo a sorprendersi della sua abilità linguistica: se la ride tra sé e sé del colpo che assesta sugli uditori che non possono non odiarlo vieppiù ogni giorno, per quella costante umiliazione cui li sottopone.
Un solo personaggio non si fa impressionare dal professore e, tra i molti che cambiano, non modifica minimamente il suo stile. E’ Malerba (altro nome parlante), la proprietaria del CSM, il diplomificio, avamposto in gonnella (e pelliccia) di certo potere che nel 1995-96 era solo agli esordi. Su di lei Livio non ha nessuna influenza. Potrebbe averla se avesse lo stomaco di superare l’imperativo che si è dato: desiderare (e scopare, possibilmente) tutte le donne attraenti che gli arrivino a tiro. Ma Malerba è vecchia e odiosa: affarista spudorata, paga gli insegnanti diecimila lire l’ora, nessuna copertura per malattia o altro. Si lancia ipocritamente in strenue difese della sua scuola che è pensata, dice lei, per i ragazzi: sembra un bar in piazza, le sue strategie educative sono quelle di un commerciante, per cui il cliente ha sempre ragione; ma ciò non solo costituisce un dettaglio insignificante: la miseria intellettuale, la cialtronaggine sono assunte, anzi, a vessillo di distinzione. E’ evidente che la critica esorbita il personaggino ributtante che è Malerba: in modo profetico (dantescamente profetico: i fatti sono narrati dall’auctor nel 2004 e collocati nel 1996 in cui l’auctor era forse quell’agens) si ritrovano annunciate evoluzioni (piuttosto: involuzioni) del sistema socio-politico italiano che nel 2010-11 hanno ricevuto ulteriori conferme al ribasso. La pervicace fissazione dell’imprenditrice scolastica a voler interpretare Il Principe di Machiavelli riducendolo in pillole scontatissime da distribuire ai suoi clienti (pardon: studenti) è una strizzatina d’occhio eloquente a proposito della sovrapponibilità di Malerba al Presidente delle tre I.
Si percepisce di dantesco un evidente richiamo all’inferno, come anticipato. Livio Viola è però uno che la diritta via non l’ha mai smarrita, dal momento che nulla ha sin lì fatto per starci almeno un po’ o per cercarla. La sua dimensione è quella, più propriamente, dell’antinferno: pur non essendo un vero pusillanime, è attratto da idoli plurimi e disparati. Le donne, il cinema, scrivere: per ciascuno di questi nutre un’ammirazione soverchia, ma per nessuno è disposto a rinunciare alla quiete insofferente del suo vivere. Fantastica incessantemente su battute folgoranti di non si sa però quale film: non lo sa neanche lui; ne ha collezionate circa una dozzina e con quel’abbozzo (aborto) si reca a colloquio con un possibile produttore. Al solito straparla (il passo è esilarante e imbarazzante insieme), non ascolta, mentre il suo interlocutore cerca di dirgli che lui non è quello che Livio crede, il produttore, ma il fratello gemello. Il pensiero corre a Kafka, al Castello: il colloquio tanto agognato qui si risolve in un nulla di fatto perché l’agrimensore K. si addormenta, lì si ribalta nel suo contrario. Livio fallisce perché ha sbagliato persona (come Zeno sbaglia funerale): è lui a parlare a ruota libera, dicendo peraltro un mucchio di sciocchezze, il presunto produttore, al contrario, tace. Un Kafka degradato, senza metafisica, carnevalizzato, reso grottesco.
Livio è un condensato contemporaneo (si vorrebbe poter dire post-moderno: ma si sbaglierebbe strada) di spezzoni di vite di illustri personaggi del Novecento, ma anche ben più lontani. Ha la stoffa del picaro: un picaro dei nostri giorni, che si muove in spazi angusti e soffocanti, per lo più, ma con la stessa leggerezza di chi non ha che velleità, non ha attese e deve sbarcare dannatamente il lunario. Un picaro rinnovato nella curiositas e nell’energia vitalistica da quell’Augie March di Saul Bellow, ma anche un Portnoy (citato, tra l’altro, in un dialogo del romanzo) scontento, ipercritico, idiosincratico, erotomane che vuole e disvuole essere normale.
Il libro di Michele Lupo è passato ingiustamente quasi inosservato. Non conosco le vicende editoriali, se l’autore lo ha presentato a case editrici più grandi prima della piccola Besa, per certo, anche il solo godimento del testo avrebbe dovuto garantirgli una circolazione molto maggiore e meritatissima.
La lingua impiegata dall’autore, riconfermatasi di recente nella raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo, 2010, è proteiforme. Sanguigna, elettrica, sfacciata, colta, espressionistica. Poetica. La lingua ora di un saltimbanco dell’anima, ora di un virtuoso, ora di un consapevole/inconsapevole nipotino dei nipotini di Gadda: ma non di quelli della seconda generazione, dei cannibali, per intenderci, da cui si ribadisce, anzi, una distanza abissale. Un autore che può stare accanto, con gli opportuni adattamenti epocali, come a parenti più prossimi, a Manganelli, a Ceresa, a Ceronetti, ad Arbasino: nei confronti di quest’ultimo si avverte nel libro una sotterranea ammirazione per l’intelligenza acuta, il gusto dissacratorio, la parola colta. Una lingua stratificata, densa, capace di associazioni inusitate e precise, che il lettore consapevole riconosce come irrinunciabili, felicissime, perfette per la cosa rappresentata e per lui, per il suo godimento. In questo senso è possibile invocare, con cautela, la definizione di barocca anche per la lingua di Lupo, perché barocco è il mondo. Lingua e struttura narrativa si soccorrono vicendevolmente: su entrambe vige come un velo una nonchalance, una sprezzatura, una specie di flânerie, che abbandona il campo della fabula, come attratta da un’altra vicenda o il campo di un dato registro, per sondarne un altro. Ma tout se tient: in un modo che i racconti de I fuorisciti hanno confermato, questa apparente distrazione, quest’avidità di sguardo, pari solo alle diverse avidità dei suoi personaggi, è ricondotta ad un ordine: le vicende sono strettamente tenute in pugno, non vengono aperti ingenui rivoli e rivoletti che dilagano, ma canali ingegneristici che conducono le acque del racconto, tra salti, deviazioni, chiuse, ritorni, ad un unico grande fiume.
Certo coraggio intellettuale può non essere piaciuto a chi si aggira nei corridoi, o nei meandri, delle majors. Lo sguardo beffardo, chirurgico, acido con cui Lupo indaga e mai assolve il mondo circostante, di chi sta di sghimbescio alle cose, non paga. Dopo aver cannibalizzato il mondo, e dunque digerito, è ora di estrometterlo sottoforma di cacatine esistenziali: non troppo puzzolenti, per favore. Da circa un decennio, con rare eccezioni, il panorama letterario sforna dei piagnistei irricevibili. Senza contare la letteratura di consumo, ché di quella non fa conto parlare, che grandi case tranquillamente mettono in circolo, ove si narra di amori sotto terra o sopra il cielo e di colpi di spazzola, per palati deboli che non sapranno mai cosa sia un vero libertino dei nostri giorni. (Lucia Tosi)

Michele Lupo, L’onda sulla pellicola  
Nardò (Lecce), Editrice Besa, “Lune nuove”, 2004


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Beatitudine dei cattolici


Naturalmente non si è burnout alla leggera, tanto per far scrivere i giornali e darsi un tono. Minimo minimo, la lucidità se ne va a ramengo. Difatti, non avevamo capito niente manco stavolta. Difatti, l’immarcescibile lo ha detto, ha detto guarda che i vostri stipendi fanno schifo, mica che non lo so, guarda che noi ci stiamo lavorando a ‘sta cosa qua, la colpa è degli inculcatori – quella ci maledetta – che rovinano tutto. Domandate un po’ a Santa Romana Chiesa quanti soldi gli abbiamo dato. Domandatelo un po’ agli insegnanti di religione che servizietti gli abbiam fatto. Domandatelo etc – si sa, quando ci si mette, l'ometto, è prolisso.
Così, in breve: insegnanti e lettori cattolici, va tutto bene a questo mondo, no?

9 mar 2011

Qiu Xiaolong

Qiu Xiaolong  Il vicolo della polvere rossa


Romanzo in cornice questo bel libro edito da Marsilio dello scrittore Qiu Xiaolong, nato a Shangai nel '53 ed esule negli Stati Uniti dai tempi di Tienanmen. L’autore ha scritto gialli di successo e ha ideato il personaggio dell’ispettore Chen, protagonista di una serie che può vantare molte traduzioni. Per ciò che attiene al volume in oggetto in realtà si tratta di una serie di storie slegate fra loro quanto ai personaggi o agli intrecci ma tenute insieme da qualcosa di ben più saldo forse: il vecchio quartiere di Shanghai presente nel titolo. Dalle sue parti si svolgono le vicende - o almeno ivi si raccontano seconda un’abitudine invalsa da tempi immemorabili –, vicende che attraversano mezzo secolo e oltre di storia cinese. L’unità di luogo richiamata nel titolo suggerisce – sono parole dell’autore – anche un’indicazione di lettura: “noi tutti siamo fatti di polvere”, intanto, e il rosso rimanda alla passione, alla rivoluzione, al sacrificio… 


continua su alibionline
http://www.alibionline.it/biblioteca/2144-qiu-sceglie-i-vicoli-di-shangai-per-raccontare-la-storia-della-cina-.html















8 mar 2011

Ancora una recensione a I fuoriusciti



"Tratti di vigoroso espressivismo lessicale alternati a passaggi più morbidi, più consueti. Michele Lupo è autore che probabilmente rifiuta gli schemi convenzionali"


per tutta la recensione : http://www.mangialibri.com/node/8047

I fuoriusciti
Paolo Pappatà




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