Intervista a Michele Lupo di Lucia Tosi
su LPELS
Michele, hai scritto un romanzo, L’onda sulla pellicola, pubblicato nel 2004, dei racconti, I fuoriusciti, 2010, a breve uscirà un secondo romanzo: qual è la forma attualmente più consona a Michele Lupo e quale quella ai lettori d’oggi, ai quali si voglia dare delle storie che si facciano leggere e dei contenuti etici? Per esempio, Giulio Ferroni invita gli scrittori a cimentarsi con il racconto ritenendolo la forma più adatta, oggi, a confrontarsi “con la complessa contradditorietà del presente“.
Mah, a me queste proposizioni lapidarie su quello che “oggi sarebbe” etc mi hanno sempre fatto un po’ ridere. Perché il racconto dovrebbe sapersi confrontare meglio “con la complessa contradditorietà del presente” e non invece un romanzo di mille pagine? Per quanto mi riguarda, mi sento maggiormente a mio agio con testi più lunghi dei racconti, sebbene recentemente abbia scritto anche cose brevissime. Tutto qui.
Non so più dove, ma ricordo di aver letto che tu non sei del tutto d’accordo con chi ti definisce barocco (forse perché fa paronomasia con Baricco?): io stessa nel recensire L’onda e I fuoriusciti qui equi ho trovato, al contrario, delle parentele con la linea Gadda/nipotini di, vale a dire Manganelli, Ceresa, Arbasino. Tu ti definisci piuttosto espressionista. A me pare che le due cose si combinino, tuttavia: puoi spiegare le differenze?
La lettura di Manganelli, o dello stesso Arbasino (che ha smesso di dire qualcosa di interessante da più di trent’anni) è stata a suo tempo importante. Ma ero giovane. I maestri vanno traditi e forse anche dimenticati. Per quanto mi riguarda, mi definisco in qualche modo proprio se debbo. Solo dopo questa precisazione, aggiungerei: più espressionista che barocco. Mi pare fosse stato proprio Arbasino a dire che l’espressionismo, rispetto al barocco, aderisce a un dettato più corporale, basso. Direi che una scrittura espressionista dal punto di vista stilistico presenta una gamma di variazioni più ampia di quella barocca, meno automaticamente assimibilabile a una sintassi enfatica, per esempio. Meno obbligata a un dettato spettacolare, ma di sicuro più imprevedibile.
Per restare in tema di ascendenze: diversi scrittori tengono a sottolineare con orgoglio di avere Carver come riferimento, forse perché la loro scrittura tende al grado zero. In un’intervista che hai rilasciato di recente si è fatto il nome di Carver: dunque, quanto c’entra questo scrittore con la tua formazione?
Non credo molto. Ma ho una vera venerazione per alcuni suoi racconti. Con o senza la mano di Gordon Lish.
Quanto incide, secondo te, nella vita di uno scrittore la comunicazione internettiana: ha un’azione di feedback, è di disturbo, di crescita, offre delle opportunità legate alla scrittura (intendendo non solo quelle di visibilità e di carattere promozionale)?
Entrambe le cose. Opportunità e distrazioni. Spazi vitali altrimenti chiusi, ma anche grossi abbagli. Ci sono fior di scrittori in Italia che sopravvivono grazie alla rete, che Fazio e la Dandini non inviteranno mai; e ci sono migliaia di scrittori e poeti sedicenti verso i quali invece la rete, per la sua stessa “natura” aperta, è oltremodo generosa. Il paradigma “google” che privilegia la quantità e non la qualità (e che non a caso tanto piace a Baricco – non a caso destinato a tramontare con Berlusconi), non è il massimo della vita.
Quello che si percepisce di te è che conservi in età matura un notevole grado di incazzatura nei confronti dell’esistente. La scrittura la filtra, le conferisce razionalità, ma tuttavia si avverte chiaramente.
Non mi sono rassegnato all’orrore della stupidità e del potere, alla volgarità e alla ferocia di questo paese cinico e sentimentale – segno che qualcosa non va in me.
Non si finirà mai di parlarne (e tuttavia il rischio, secondo me, è che l’argomento che segue cada in prescrizione): l’editoria in Italia, tra piccoli e grandi editori, premi letterari, mostre del libro, sconti sugli acquisti on-line, quali prospettive offre alla narrativa, e alla saggistica, di restare su un livello di qualità almeno buono?
Dipende molto dalle persone che lavorano intorno ai libri. Dovrebbero aiutare il talento vero, difenderlo contro lo strapotere del mercato, l’acquiescenza dei grandi giornali e dei premi importanti – economicamente importanti. Ma si dà il caso che i nomi implicati siano sempre gli stessi, gli interessi anche. Perciò…
Tu accosti alla scrittura creativa frequentemente quella di recensore. Quali sono gli ingredienti, o i segreti, per una buona recensione? Ritieni che l’arte della (buona) stroncatura vada recuperata? Che si possa fare, cioè, senza certo cinismo internettiano, senza sfregio, demolendo per costruire?
La stroncatura non è un’arte particolare. Come dire, adesso vi mostro come si fa a pezzi un libro. Messa in questi termini, resta un gioco. Basterebbe recuperare il coraggio di dire quello che si pensa, a proposito di un libro. Stando sul testo. Cosa che oggi molti evitano di fare, per non precludersi favori, attenzioni, appoggi. Ma prima ancora servirebbe che si tornasse a studiare. La rete da questo punto di vista favorisce colossali malintesi. Molti giovani iniziano presto a cimentarsi con un esercizio che richiederebbe prima qualche centinaio di chili di buone letture. Invece scrivono di cose che non conoscono, fanno “i critici” senza sapere molto altro, a parte aver letto Avallone, Giordano, o qualche nome americano che ci sta sempre bene.
A giugno sarà in libreria per Cult Editore il tuo nuovo romanzo, Rosso In Fuga. Un’anticipazione?
Rosso In Fuga è stato scritto ormai sei anni fa. È un romanzo di sentimenti estremi sul tema del fascino, della malia nera che può distruggere una vita. Una doppia storia che si intreccia all’interno di una struttura che recupera forme canoniche della tradizione musicale occidentale, nonché, parodisticamente, stilemi del noir e del melò. Alcuni editors se la son presa perché racconto anche un sottobosco editoriale di frustrati in cui qualcuno si è a torto riconosciuto. E prendo in giro il mondo della letteratura di genere che in quegli anni ci ammorbava con la storiella che fosse la sola a raccontare seriamente la società. Ora hanno smesso, hanno fatto fortuna.