31 gen 2011

modesta proposta 2

qualcuno comincia a farlo


non mi riconoscono il copyright ma l'idea sul web l'ho lanciata io

quella dei balconi intendo. se conoscete un imprenditore che vuole diventare ricco in pochissimo tempo commissionategli
un milione di bandiere -  "B. Vattene"  5 euro max

Le classi pollaio, la mascotte e le solite cose

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/01/31/vivalascuola-68/
Qualcuno le chiama classi-pollaio. Possono arrivare anche a 35 alunni. Al Tar del Lazio, bontà sua, non piacciono. Ecco così avviata la prima class action italiana contro la Pubblica amministrazione.

Per la mascotte di viale Trastevere, signora Gelmini – è sempre lei, squadra vincente non si cambia, portafortuna compreso – il ricorso presentato al Tar del Lazio “è destituito di qualsiasi fondamento”.

Le cronache infatti ci dicono che i bunga-bunga a volte sono affollatissimi e nessuno sembra si sia lamentato, tantomeno il padrone di casa più famoso d’Italia, che certo avrà aule più grandi delle nostre ma ha dimostrato che con la necessaria amabilità ci si può stringere tutti insieme. C’è qualche differenza, è vero, la più parte di noi non dispone dei mezzi persuasivi del caudillo ma bisognerà anche imparare prima o poi da certi self-mad-men: tirare fuori le palle e smetterla con il piagnisteo.




27 gen 2011

ROBERTO BOLAÑO OVVERO LA NARRATIVA DEL SITUATION PLOT

Interessante riflessione di Tommaso Pincio su Roberto Bolaño


Tommaso Pincio



La recensione sul paradiso questa volta l'hanno fatta a me

http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=961
di alfredo ronci


Michele Lupo

I fuoriusciti

Stilo editore, Pag. 130 Euro 10,00


copertina del libro
Sull’orco Lupo inutile aggiungere alcunché: parlano i suoi articoli e le sue recensioni. Ma questo continuo confronto ha portato l’autore a specificar(mi) che i racconti di questa antologia, scritti in tempi diversi, mostrano stili diversi.
Probabile – ed il mio personale riscontro conferma la tesi, anche se la distanza tra gli scritti è assai meno evidente di quanto si possa pensare – ma quel che mi preme sottolineare è l’universalità dell’azione letteraria.
Cerco di chiarire: l’autore ‘sfoggia’ spesso la prima persona, ma chi parla è diverso dal narrante, nel senso che Lupo si scinde in innumerevoli personaggi, più volte lontani dal proprio sé (bambino, donna, ragazzo, uomo, sacerdote) per essere comunque mondo.
Molti scrittori ‘utilizzano’ questa tecnica per rappresentare il presente o, come si dice nel sottotitolo, per raccontarstorie di fughe, ritorni e trascurabili vendette. A ben vedere: ma c’è il rischio (rischio che vedo tutto mio, nell’approcciarmi personalmente alla materia) di atomizzare la realtà, di renderla meno identificabile, proprio perché troppo eterogenea.
Ma è il classico pelo nell’uovo (anzi, e ripeto, una mia personale visione della narrativa): ne I fuoriusciti c’è ben altra materia e lingua, finalmente, viva e scarnificante (che bello quel passaggio in ‘Ego te absolvo’ in cui il personaggio principale, un sacerdote, ‘mistifica’ in qualche modo la propria ‘sapienza’ linguistica elargendola a secondi: Perché nonostante i buoni risultati scolastici, nulla lasciava trapelare una seppur vaga inclinazione alla riflessione filosofica, alla pruderie intellettuale (il giorno dell’esame di maturità classica, davanti ad un uditorio stupefatto, udii per la prima volta pronunciare quel termine da un amico, evidentemente più preparato di me).
Il mondo – così parcellizzato – di Lupo è davvero nevrotico, sia se si tratti di Enrico che cerca un affrancamento dai propri fallimenti tentando un ricatto ai danni di una sua ex fiamma (‘Il babysitter’), sia se si tratti di una donna preoccupata dell’attitudine un po’ mignottesca della sorella (‘La sciarpa verde’), sia se si tratti di un disoccupato che alla fine si ritrova a rubare un paio di pantaloni (‘Cimento del tempo libero’) sia se si tratti di Marta che all’improvviso ha rinunciato a vivere (‘Congedo’).
Fuori discussione la bellezza dei due racconti centrali. Si avverte nei ‘Gatti del sud’ la compiutezza narrativa (sarà che forse c’ho visto una evidente impronta autobiografica?), il fluire cospicuo delle sensazioni che soprattutto nella parte finale rasenta la partecipazione emotiva da parte del lettore. E anche in ‘Ego te absolvo’ l’innominabile assunto di un sacerdote diventa certificazione oggettiva di una cristallina sostanza della lingua.
Come si diceva all’inizio: sull’orco Lupo inutile aggiungere alcunché. O nulla di più.

Alfredo Ronci
GustosoGustoso

26 gen 2011

L’esercizio della memoria, bon.


L’esercizio della memoria, bon. Ma se non è accompagnato dall’azione vigile nel presente serve a qualcosa? Da più di un decennio è invalsa l’abitudine di portare gli studenti ad Auschwitz. Per alcuni (pochi, molti?) di loro, è una gita come un’altra, e questo è noto. E dovrebbe esserlo anche il fatto che neppure Hitler fece quel che fece da subito – nemmeno il falò ai libri. La Lega Nord, ossia un partito che si dichiarò fuori dello Stato con l’esplicito obiettivo di farne uno a parte, avrebbe dovuto essere messa al bando a suo tempo – con gli extraparlamentari, a sinistra, si faceva con disinvoltura anche quando non amavano giocare con la P38. La sua lotta, la Lega, avrebbe dovuto condurla, per ovvie ragioni politiche, fuori dal parlamento, ne fosse stata capace, manu militari.  E noi tutti avremmo dovuto essere un po’ più svegli.

25 gen 2011

Recensione a I fuoriusciti su thrillermagazine

grazie a giorgio bona


uno stralcio: 
"Il titolo fa immediatamente pensare a un mondo di esclusi, reietti, uomini e donne ai margini della società, che con questo mondo non vogliono avere a che fare.
Invece un lettore attento questi personaggi potrebbe vederli sotto un’ottica diametralmente opposta, come degli eroi che prendono di petto la dura e cruda realtà dando subito la sensazione che il mondo, questo mondo, gli è distante e non gli appartiene."

24 gen 2011

Un vero classico


George Steiner

Tolstoj o Dostoevskij

Garzanti, Pag. 360 Euro 13,50


copertina del libro
Un libro capitale della storia della critica letteraria. Ha molti anni e li dimostra tutti – ma parliamo di vino buono. Lo ripropone ora Garzanti in economica. Un lavoro gremito di riflessioni analisi exempla. Uno stile nitido, nonostante la necessaria capillarità dei percorsi intertestuali, l’ossatura enciclopedica che si avvale di richiami dottissimi, da Omero a Hoffmannsthal, da lettore che ama i testi epperò non li usa per lambiccarsi con il proposito di farsi bello lui – v’è chi per questo lo ritiene vecchio, ossia da buttare, senza spiegarci in cosa consista il nuovo. Né tantomeno sapersi affrancare da infantili sindromi avanguardistiche più noiose che irritanti.
Il dolce stile di questo capo d’opera sta davanti ai due monumenti con devozione e rigore. Il romanzo russo, fosse solo per quei due, diventa cioè il campo d’indagine di una ricerca che investe l’universo-mondo, che dalla letteratura ricava due concezioni fondanti e antitetiche: Tolstoj situandosi al punto liminare della tradizione epica persuasa del carattere unitario dell’esperienza umana, Dostoevskij avvicinando come nessun altro il paradigma di una visione tragica della realtà. Essa ai suoi occhi appare “spettrale e inconsistente”, sicché egli, con tutti gli sforzi possibili, non ha da proporre una verità definitiva del mondo. Il finale di Delitto e Castigosuona posticcio (parere di chi scrive non di Steiner) essendo evidente come il senso dell’opera sia nel processo dialettico delle lingue che ivi si scontrano; e come aveva mostrato un altro grande dimenticato, Michail Bachtin, il mondo nell’opera di Dostoevskij prende il tono e la consistenza che gli forniscono i personaggi – lo stile, in lui, è faccenda che riguarda i suoi fantasmi. Tolstoj, non più morale dell’altro, ma tetragono nella dura necessità di un fondamento, cerca una giustezza, quasi una rettitudine dell’opera che sia inclusiva della biografia del suo autore. La frattura, in lui, è “composta”, la lacerazione meno agitata – il principio speranza ancora un vessillo (anche qua: ma ci crede davvero?). Tolstoj in somma sembrerebbe illudersi di fissare il tempo in una superiore sostanza metafisica che dia ragione del mondo, laddove Dostoevskij accelera sul pedale dell’entropia con un’intensità drammatica che il mondo glielo toglie sotto i piedi.
L’idea è – per chi non lo avesse ancora fatto: leggersi almeno tre o quattro opere dei due grandissimi russi e poi tuffarsi in questo libro per tornare suLa morte di Ivan Il'ic e I Fratelli Karamazov come quando, dopo averne goduto attraverso gli occhi, ci riavviciniamo a un ritratto fiorentino del Rinascimento avendo imparato la lezione di Ady Warburg.
Diceva difatti da qualche parte Steiner, anni fa: Agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. I miei studenti a Cambridge hanno un esame in cui discutono l'opinione di T.S. Elliot su Dante senza dovere leggere Dante, un solo verso di Dante. (...) Quello che ci vuole è un'interpretazione dinamica, un'interpretazione che sia azione e non passività. Leggere la critica, leggere i testi "secondari", significa essere passivi, come davanti alla televisione; significa rinunciare alla responsabilità dell'azione. Chiaro no?

Michele Lupo

I fuoriusciti

Per chi avesse difficoltà a reperire il libro e non volesse per qualsiasi motivo acquistare nelle librerie on-line ricordo che può anche chiederlo all'editore senza spese di spedizione.


http://www.stiloeditrice.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id=331%3Ai-fuoriusciti-michele-lupo&catid=67%3Anovita-della-stilo-editrice&Itemid=60


21 gen 2011

La protervia dell'ignoranza

faccio prima così, rimando all'indirizzo di loredanalipperini:
la giornalista sta raccogliendo moltissimo materiale sulle discussioni relative alle pazzesche iniziative che in Veneto pretendono di riesumare pratiche che si pensavano consegnate, come usa dire in questi casi, ai libri di storia . Altra espressione abusata, "il silenzio degli intellettuali": che gli scrittori italiani la più parte in questi anni non abbia mosso un dito contro l'andazzo in corso, ritenendo poco elegante qualsiasi intervento che non fosse l'espressione di uno scontato sopracciò verso il porcello brianzolo, l'ho personalmente rilevato più volte - i nostri Piperno si crogiolavano anni fa con le immagini dei monaci buddisti in Birmania: soavi, silenziosi e cool nelle loro proteste contro il regime militare. Lui ovviamente in Veneto non corre rischi a parte quello di non esser letto perché non sapendo rinunciare alle sue legittime ambizioni di scrittore di qualità, si ostina a infilare periodi lunghi sei o sette righe, e le subordinate concessive abbondano: fuori della portata degli assessori leghisti e della stragrande maggioranza dei loro elettori



Hans-Joachim Roedelius

conobbi hans.joachim una ventina d'anni fa, fui ospite per due giorni nella sua casa di Blumau, villaggio perduto fra le foreste viennesi; un uomo delizioso







20 gen 2011

fermate il cyborg santanché





tornogiovedì 2

Un'altra piccola anticipazione di un lavoro che diventerà un libro alla fine dell'anno
su questa finezza che è tornogiovedì

http://www.tornogiovedi.it/2011/01/fuga-2/





Recensione a I fuoriusciti - Lucia Tosi, LPELS

un grazie di cuore alla pestifera 

Vestiti, fuoriusciamo
di Lucia Tosi


Michele Lupo ha pubblicato numerosi racconti su riviste letterarie, un romanzo, L’onda sulla pellicola, Besa Editrice, 2004, un altro romanzo è atteso per la prossima primavera. Fresca di stampa la raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo editrice, 2010, E. 10,00.
Di queste “Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette“, eloquente sottotitolo, colpisce innanzi tutto l’assenza del finale regolamentare, quello che vorrebbe il racconto, felice o tragico, in sé compiuto, risolto, ma più ancora l’intento esatto, pervicacemente ricercato, di non sedurre il lettore. Paradossalmente la seduzione arriva puntuale: i diversi registri con i quali le sei storie “aperte” sono raccontate, il malessere che vi si respira, l’etica, apparentemente esclusa, che ricompare silenziosa, in absentia, in ogni racconto, sono almeno tre buoni motivi che inducono il lettore a leggere d’un fiato la raccolta, specie di affresco su un’umanità di marginali, reietti, dimenticati, che spessso ci scorre accanto, senza averne, peraltro, gli aspetti canonici più eclatanti.
Nel ripensare al tratto comune dei diversi personaggi, protagonisti o comprimari, torna utile l’aggettivo fastidioso, dallo spessore quasi fisico, in un’accezione un po’ più ampia che il solo noiosoirritante, come recita il Devoto-Oli; vi si aggiunga sgradevole, imbarazzante: ciò che preferiresti non vedere, non toccare, che ti suscita un moto di repulsione che però devi trattenere, perché il tipo del “fastidioso” non commette mai atti eccessivi, degni di una reazione vistose.
I personaggi dei sei racconti contenuti ne I fuoriusciti sono così: altamente sgradevoli, fastidiosi. Goffi, rinunciatari, perdenti; grassi, sudaticci, convenientemente sporchi; deliranti, fissati, crudeli; dediti più o meno tutti a qualche bassezza, ma allo stesso tempo così normali che ti chiedi che ci stanno a fare dei personaggi siffatti dentro a delle storie.
Insopportabile, nel suo glamour da belloccia di periferia in là con gli anni, l’oca – un’autentica oca, come non se ne vedevano da un po’ – de La sciarpa verde, che la sorella maggiore, meno giuliva, vorrebbe raddrizzare, salvo il fatto che, detto en passant, quest’ultima – scopriamo non senza una certa dose di irritazione – si dà buon tempo, regolarmente, con il benestare di un marito che ha l’unico difetto di scordarsi a volte, nelle sue, di scappatelle, il preservativo, cosa su cui essa non transige!
I racconti si leggono agevolmente: la prosa è limpida, a tratti reticente, a volte sapientemente avara. Verista, per quanto lo consenta l’uso prevalente della prima persona, specie in Gatti del Sud, racconto che si chiude con pochissime pennellate magistrali, come se l’ex-ragazzino, tornato nei luoghi della sua infanzia (luoghi di misfatti odiosi, da lui compiuti, che ricordano certe scene di Novecento di Bertolucci, quelle per stomaci forti, per intenderci) avesse fretta di concludere per andare oltre quel passato, da cui emergono situazioni e figure forti, determinanti, come il nonno, mitico, “immortale“. A proposito della nonna, cogliamo l’io narrante – sarebbe il caso di ricorrere all’espressione “io poetico” – chiudere la vicenda con tre verbi negativi, in climax discendente, nel ritmo di un quinario e due ottonari:
Quella donna morì poco dopo, senza che nessuno fosse riuscito a diagnosticarle alcuna malattia precisa. Semplicemente, in quelle tre settimane che impiegò per ricongiungersi all’uomo con cui aveva diviso la vita, smarrì il senno, disimparò l’alfabeto e non ci riconobbe più.
Preferibilmente paratattico, Michele Lupo tuttavia fugge dalla tentazione, oggi parecchio diffusa, di scrivere come si mangia (e molti non sanno di mangiare veramente male), accostando la necessaria frase al grado zero, che più zero non potrebbe nemmeno Roland Barthes, ad una, al contrario, resa preziosa non da trovate ginniche, ma da un’immagine, un vocabolo scelto con cura, laddove un sinonimo meno raro non avrebbe tuttavia stonato.
E’ il caso, in particolare, di Ego te absolvo, in cui l’autore mima, con ferocia contenuta (se ne avverte il sorriso), le elucubrazioni di un prete malato, in una “memoria” destinata al suo psicanalista. Qui sembra aleggiare la penna di Manganelli: sarà l’argomento chiesastico, o il tratteggio di una qualche angoscia – anche se non propriamente dirupante-, fatto sta che il linguaggio si punteggia di elenchi baroccheggianti, di vocaboli meno immediati, per i quali la giustapposizione funziona a meraviglia, riproducendo ritmicamente una certa nasale salmodìa da parroco ben temperato.
Al di là della grata capita di udire voci che da subito provocano in me una curiosità eccessiva, malsana, contro cui ho tentato vanamente di oppormi, di combattere. E’ un tono, una modulazione, come se si annunciasse la possibilità di una rivelazione straordinaria, il dono di un fosco segreto che suscita in me una certa impudenza.
Due personaggi, nel primo e nell’ultimo racconto del sestetto, sono – un uomo e una donna – due artisti incompresi, ma nient’affatto simpatici. Non prova, l’autore, a strizzarci l’occhio, non è con loro indulgente, non è romantico. Non sappiamo se si tratta di un pittore e di una poetessa ingiustamente emarginati, se la ribellione, la frustrazione che entrambi covano – che nella donna si esprime in un progressivo ritrarsi dal mondo, dalla parola, in una sorta di lercia catatonia – è motivata dall’incomprensione del genio che rappresentano. Noi li vediamo alle prese con gli altri, simmetricamente o troppo indifferenti, o troppo solleciti nei loro confronti. Posti all’inizio e in coda al gruppo di racconti, condividono un oggetto che scatena la loro furia variamente distruttiva: la televisione, contenitore di troppe immagini e di troppe parole.
Invadente, onnipresente, facile bersaglio polemico, viene da pensare: ma Lupo si gioca l’oggetto trasformandolo in un concentrato, tunc et illic, del malessere dei due personaggi, in un – tutto loro – esasperato polemon, avendoli preventivamente liberati da precisi connotati in cui il lettore possa riconoscersi. E’ questo che li rende pienamente deifuoriusciti: devono risultarci estranei, non dobbiamo solidarizzare con loro. Nessuna concessione sentimentale, nessun “come è vero!“, eppure conveniamo sicuramente che l’atto non ortodosso, o addirittura illecito, a cui qualcuno di questi personaggi si abbandona, sorta di pericoloso riscatto agli occhi di se stessi, è l’unico da compiersi.
In questo senso rischia di esserci simpatico lo sfigatissimo ex-libraio ciccione del raccontoCimento del tempo libero, bizzarro titolo, forse perché la sua forma di protesta è diretta contro un mondo che abbiamo imparato ad odiare ampiamente, o, almeno: una minoranza di noi sicuramente non sopporta il mondo degli imbonitori, quello per cui ilconsumatore (elettore) assomiglia molto ad un bambino di undici anni neanche tanto intelligente:
Dovrete farlo sentire a disagio, il cliente, e anche in colpa, possibilmente: in colpa per essere stato così sbadato, così vicino a fare la figura da cretino, dovrebbe arrossire per essersi separato dal mondo che conta, per aver isolato la famiglia e allontanato i figli dalla modernità e dal benessere [...].
Lo stesso personaggio odioso poco più avanti definisce in questo modo il cliente che “si rifiuta di comunicare“:
Si tratta di persone irresponsabili. Una minoranza. Gente che pone domande prive di risposte possibili. Disadattati. Perché deve esserci sempre una risposta a una domanda plausibile. Se non c’è, vuol dire che la domanda è sbagliata [...] Al cliente ottuso invece, che vorrebbe sapere in cosa consiste il beneficio di questi prodotti, il bravo venditore non è tenuto a rispondere subito: in prima battuta mostrerà un sorriso folgorante che costituirà esso stesso la risposta.
Non è dato sapere a cosa, a chi pensasse Michele Lupo, nel tratteggiare l’istruttore di aspiranti venditori door-to-door, ma il suo allenato senso del grottesco, la conoscenza delle arti carnevalesche (il nostro si è laureato con una tesi dal titolo eloquente: Elementi carnevaleschi nel Decameron), per cui scoronare e denudare il re è un giochetto da ragazzi (lo fa regolarmente qui e qui), mi fanno pensare a qualcosa di reale e quotidianamente sparato a mille in tv.

19 gen 2011

modesta proposta 2

e se pare troppo impegnativo e/o pericoloso potremmo
riempire i nostri balconi e finestre con una bandiera e la scritta : 
B. Vattene - 
non c'è qualche imprenditore sveglio che voglia guadagnarci su? prezzi modici eh, cinque euro massimo







18 gen 2011

modesta proposta

modesta proposta - ma molto molto ragionevole: circondare palazzo chigi, migliaia e migliaia, decine e centomila, e restare lì due tre ore ciascuno, darsi il cambio, giorni, settimane, fin a quando gli portano un elicottero sul terrazzo, come a ogni caudillo che si rispetti, e se ne ne va finalmente affanculo

La mascotte Gelmini, ancora


La mascotte a capo di viale Trastevere si è presentata a “Ballarò”, misurandosi con uno degli uomini più lucidi d’Italia, Stefano Rodotà, evitando accuratamente di giocare sul suo terreno, quello della lingua italiana. Siccome “non l’ho letto e non mi piace” mi sono limitato a sbirciarne qualche frammento in rete – poiché sospetto che la signora fosse (sia) impossibilitata ad articolare testi molto più complessi, credo di poterla recensire lo stesso. E’ presto detto: l’ho trovata perfettamente addestrata, la testolina che faceva no no, il sorriso triste e offeso di fronte alla brutalità del ragionamento, quella roba odiosa che gli italiani non gradiscono. 

17 gen 2011

recensione a I fuoriusciti di Stefano Donno

http://stefanodonno.blogspot.com/2011/01/i-fuoriusciti-di-michele-lupo-stilo.html
grazie a stefano

Marilyn in Paradiso


Marilyn Monroe

La mia storia

Donzelli, Pag 221 Euro 19,00


copertina del libro
Pensavo che le persone con cui vivevo fossero i miei genitori. Li chiamavo mamma e papà. Un giorno quella donna mi disse – Non chiamarmi mamma. Sei abbastanza grande per sapere come stanno le cose. Non ho nessun legame di parentela con te. Qui sei solo a pensione. Tua madre verrà a trovarti domani. Puoi chiamare lei mamma, se vuoi.
Iniziano così queste “riflessioni autobiografiche” che Marilyn prese a scrivere con lo sceneggiatore Ben Hacht agli inizi del 1954 su incarico dell’agente Charles Feldman: l’intenzione era di corrobare il mito in ascesa di quella meravigliosa fanciulla la cui grazia numinosa e tragica sembra oggi fuori della portata di chiunque. In somma avrebbero voluto farne solo una veloce autobiografia che vendesse quanto i biglietti per vedere i suoi film. Norma Jean Baker si lasciò andare e aprì il vaso dei suoi mali; aiutata dalla scaltra maieutica di Ben Hacht, per due mesi si mise di buzzo buono e rovistò nei ricordi dell’infanzia, e dell’adolescenza soprattutto, un’adolescenza protratta nel tempo – non è la fine del moderno Marilyn? –, non per questo meno inquieta e anzi non priva di episodi violenti. Colpisce fra gli altri lo sguardo esitante sul proprio corpo che presto iniziò ad assestare colpi micidiali ai coetanei, fino a quel momento - aveva tredici anni – del tutto ignari di lei, e alle amiche che smisero subito di esserlo, va da sé. Marilyn ritorna ai timori di una vita di commessa o cameriera che pure guardava in certi momenti con ansia spasmodica per allontanarsi da quella tristezza che le metteva “voglia di morire” – lavorò anche come operaia, la dea. Ve lo immaginate un ossimoro più stridente? oggi soprattutto, che gli operai non solo hanno smesso il ruolo metafisico attribuitogli da Marx ma sono circondati dalla stuccata indifferenza di tutti, intellettuali in primis? oggi che le zoccolette che riempiono lo schermo tv non sanno nemmeno fare un caffè? 
E poi, la splendida attrice per niente sicura di sé, che vuole “imparare e imparare”, che ha il terrore di non riuscire, di essere nata sotto una cattiva stella da cui non riuscirà mai a liberarsi; che una volta a Hollywood continua a tormentarsi, non tanto per “l’ambizione o il desiderio di essere ricca e famosa”, quanto per inseguire la “follia” – la definisce così – che le “parlava attraverso i colori: scarlatto, oro, bianco splendente”, i colori che sognava “durante l’infanzia, quando cercavo di nascondermi dal mondo opaco, ostile, nel quale viveva la schiava dell’orfanotrofio Norma Jean”. Qualcuno le disse che avrebbe fatto strada, che sarebbe andata più lontano di Lara Turner. Allora perché non riesco nemmeno a ottenere un lavoro per sfamarmi? domandò lei. La risposta di Johnny Hyde fu sacrosanta: Non è facile per una star ottenere un lavoro solo per sfamarsi. Una star è buona solo come star. Tu non sei adatta a qualcosa di più piccolo.
Bon, tutti sanno tutto su Marilyn, inutile aggiungere aneddotica. Serve invece ricordare che questo piccolo libro dell’editore Donzelli, prefato da Joshua Greene, contiene 47 fotografie, molte delle quali bellissime, di suo padre Milton H. Greene, amico caro della diva, che egli seppe ritrarre da maestro.


11 gen 2011

Viale Trastevere e la meritocrazia


Il professor Israel non è a suo agio. Collabora con il simulacro che sta(rebbe) a capo dell’Istruzione non si sa se pubblica o de papi suo (dice non va bene che le dai della mascotte, è irriguardoso: ma a me pare che le mascotte portino fortuna e ditemi voi se con tutte le porcherie che fanno non gli dice culo a rimanere ancora lì); collabora il professore, si diceva, porta pazienza e tutto. Però i simulacri a volte stentano, arrancano, infiacchiscono. La pazienza pure. Così l’ha detto: il professore è sbottato e ha detto che gli Invalsi non vanno bene per giudicare gli insegnanti, e nemmeno il parere dei genitori e degli studenti va bene. Ohibò. Ci vogliono gli ispettori, ha detto… poi si è fermato subito (un collaboratore deve fare attenzione).
Qui da noi la proposizione ha fatto un certo effetto. Saranno stati i puntini sospensivi. Non perché si abbia paura di gente (armata?) (e) col tesserino e che sa il fatto suo – lo Zibaldone passo passo, per dire. E’ che la pensata, gli ispettori, sanno di detection story, e sebbene in LPELS si parli più agevolmente di sineddoche e terza rima, la letteratura è di casa. Attendiamo thriller foschi, noir psicologici, cacce al distopico.



Temperamente - Un'intervista al sottoscritto

un grazie a Carlotta Susca, autrice dell'intervista



Salve e benvenuto su Temperamente. Di Michele Lupo è stato recentemente pubblicata per i tipi di Stilo la raccolta di racconti I fuoriusciti, recensita da noi qui.
Blog, riviste di critica letteraria, reportage, e poi i racconti e il romanzo: il Suo approccio alla scrittura è diverso volta per volta? Quali sono le costanti nello scrivere?
Sono cose diverse. Considero tuttavia che vi sia un’etica della scrittura – l’estetica è una conseguenza. Dopo l’urgenza di dire dei Romantici, Flaubert mostra una volta per tutte che le cose in letteratura sono i nomi che utilizziamo per dirle: non possiamo che passare di lì. Ovvio però che c’è una densità e un’intensità nella stesura di un romanzo che cerchi di rendere definitiva. Per questo, la scrittura di un libro in un certo senso non finisce mai. Quanto al blog, mi piace parlare soprattutto di libri altrui.
Può essere definito un paradigma di comprensione della realtà, la consapevolezza della «persistenza di molti sud»?
Se si riferisce alle note di copertina della raccolta di racconti I fuoriusciti, volerei un po’ più basso, diciamo intorno alle italiche latitudini. È uno dei nostri paradossi, l’Italia è soprattutto un sogno di poeti, dal più grande di tutti a «scender per li rami». La politica raramente è stata all’altezza della situazione, così come l’ethos popolare, incapaci entrambi di pensarsi sia come nazione che come stato: la frammentazione municipal-regionale però, ed è l’altro paradosso, si è de-scritta attraverso un codice comune ossia una reciproca chiusura antimoderna, antilluminista, mai sufficientemente laica. Le eccezioni, dalle storiche esperienze napoletane a quelle milanesi, confermano la regola. E per quanto antipatico risulti ricordarlo, si è trattato sempre di élite.
La forma del racconto è difficile da gestire: le storie dei Fuoriusciti sembrano aspirare ad una narrazione più distesa, sembrano condensare molto materiale e personaggi. Come trovare l’equilibrio giusto per tenere teso il filo narrativo nel breve spazio del racconto?
Non ho una risposta univoca, ogni racconto sollecita problemi diversi. Personalmente, credo di avere un passo narrativo più adatto al romanzo – sto terminando il quarto. Tuttavia, circola un vecchio pregiudizio: un romanzo può essere tante cose diverse (chiamiamo infatti romanzi oggetti letterari lontanissimi fra loro), il racconto lo si vuole per forza concluso in una forma compatta, sigillata. L’egemonia delle ‘storie’, il baricchismo di questi anni hanno peggiorato la situazione. A me interessano di più i personaggi. A volte, quelli dei miei racconti continuano ad avere una loro vita anche dopo; mi piace pensare di poterli rivedere da qualche parte. Altre volte – è il caso di Congedo, il racconto finale della raccolta – la poetessa che ne è protagonista chiude la porta al mondo, quindi anche a me.
Lei è anche un insegnante. Quali strategie pensa possano essere vincenti per contrastare l’egemonia televisiva? Domanda da un milione di euro: come far capire ai ragazzi quanto la letteratura possa cambiare le loro vite?
Oddio, vincenti contro l’egemonia televisiva… La vedo dura. Spegnere la televisione per decreto? Con i ragazzi, per ciò che mi riguarda, conosco solo una possibilità: leggere ad alta voce. Stare sui testi, non sul commento ai testi, e fargli sentire il respiro e la rabbia di Buck, vedere l’ombra immensa di Moby Dick sull’orizzonte che s’incupisce, sentire la terzina dantesca come si snoda e s’avvita e si snoda da capo fino a quando il cuore di chi ascolta comincia a battere con la stessa pulsione ritmica di quei versi senza che egli se ne accorga. A margine, far loro una domanda: credono che il mondo sia bianco o nero? Se la risposta è no, mostrare come per avvicinare la complessità non vi sia risorsa migliore della letteratura.
Potete saperne di più su Michele Lupo qui:
e leggere i suoi articoli su:


Philippe Forest. Una lettura dal paradiso

http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=952


PHILIPPE FOREST

Anche se avessi torto
Storia di un sacrificio

Alet   

Autore di almeno un libro memorabile, straziante, potentissimo, Tutti i bambini tranne uno, racconto della tragica scomparsa della figlia, una bambina di cinque anni, Forest è uno scrittore straordinario. Teorico oltre che scrittore, attualmente insegnante di letteratura comparata all’Università di Nantes, di lui basti dire che ha rimesso in gioco il tragico in letteratura – ossia il tragico tout court. Dopo che il secondo Novecento ci aveva convinti dell’impossibilità di riavvicinarlo, Forest affrontando un dolore privatissimo e incommensurabile è stato capace di farne letteratura, non finzione ma testimonianza: ossia immersione totale nell’”impossibile della realtà” (“la morte di un bambino è una delle figure di questo impossibile”), per renderne partecipe il lettore. Il tragico, questa messa in gioco senza soluzione di un conflitto irrimediabile, questa vertigine impedita a qualsiasi salvezza, questo dolore senza consolazione: trovate qualcuno in giro che sia ancora in grado di affrontarlo senza nasconderlo, ossia renderlo praticabile senza la maschera del comico. Dieci anni dopo, e dopo essere passato nel romanzo Per una notte attraverso il dolore della moglie, madre della bambina, e aver ripassato senza il lirismo del primo libro la stessa vicenda, lo scrittore francese torna su quel dolore: ancora una volta, senza rimedio.
Il fatto è che per lui come per noi la religione non può farvi niente. Se Forest comprende che “la ragione sociale della religione dipende dalla sua capacità di volgere il negativo in positivo”, egli sa pure che la faccenda non lo riguarda. Perciò non avvia nessun discorso teologico, caso mai nota che quello che vi è di interessante nel Cristianesimo è proprio ciò che esso esclude in quanto “aporia della sofferenza” – fra le altre, Cristo che dal Golgota si rivolge al Padre e gli chiede perché è stato abbandonato (per Slavoy Zizek, nel recente La mostruosità di Cristo, si tratta di una domanda capitale, l’abisso che fa vacillare la Fede – dal principio).
La figlia dunque è insostituibile, e in questa verità apparentemente ovvia vi è tutta la fallimentare quanto necessaria inevitabilità del tragico. L’accettazione di questa condizione – la vita che resta – non ha nulla di letterario se non per qualcosa che aggiungerò alla fine. Essa ha da fare con la terribile, intollerabile e cupa onestà di una convinzione: non essendovi nessun dio, il vuoto di quella morte può essere colmato solo con un’altra morte - la propria. Ovvio che questa radicalità filosofica sia parte in causa non solo di un dolore immedicabile ma pure dello scandalo di quella che non si fa fatica a definire “una somma ingiustizia”.
La letteratura di Forest marca la distanza ormai incolmabile che lo allontana dall’altro ex grande scrittore francese degli ultimi anni, Houellebecq, che a un certo punto ha cominciato a fare la parodia di se stesso mostrando come il nichilismo non fosse più un problema per lui – la deriva del mondo assumendo ai suoi occhi un aspetto piuttosto friendly.
Un’ultima cosa, sul letterario di cui sopra: nessuno come Forest è in grado di mostrare oggi una verità che gli scrittori veri conoscono bene: “chi scrive è sommerso dall’esperienza dolorosa della vita, e nonostante tutto allo stesso tempo si salva”. Una faccenda che riguarda Forest, lo speriamo (e per tutti noi, che nella salvezza della letteratura non finiamo ostinatamente di credere).
E un’ultimissima, che ci sta a proposito: quelli di Alet sono i libri più belli che si facciano oggi in Italia.




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