IL DEMONE DELLA PROSPERITÀ
In occasione della recente assegnazione del Nobel per la letteratura allo scrittore cinese Mo Yan, abbiamo letto commenti ridicoli di intellettuali nostrani che vi hanno visto il solito vizio (paradossalmente provinciale) dell’accademia svedese di privilegiare gli aspetti socio-politici a quelli meramente letterari (ossia, si vorrebbe tornare a dire, artistici). In questo caso prendendo una toppa clamorosa, non gli svedesi ma i tromboni alla Scurati, che ha commentato: e chi lo conosce, ‘sto Mo Yan?
Povero Scurati. Io non so se Mo Yan meritasse il Nobel, e mi interessa poco, ma è certo uno scrittore superbo (in Italia lo pubblica Einaudi, il che vuol dire che volendo Scurati avrebbe avuto modo di informarsi facilmente, di imbattersi in qualche suo titolo, di spulciarne le pagine sui banchi delle librerie, persino di sbattere il muso contro una recensione: mah). Che Mo Yan sia morbido o meno verso il regime è un fatto culturalmente interessante ma non dirimente per decidere se sia anche un autore di talento. Leggetelo e poi ne riparliamo.
Premessa per ricordare che, ci piaccia o meno, la Cina è molto più vicina dei tempi in cui la frase divenne celebre. Anzi, a sentire Chan Koonchung, autore de Il demone della prosperità, romanzo tradotto ora per Longanesi (ma va detto di riporto dall’originale mandarino), i cinesi non ci terrebbero nemmeno più a inseguirci; dal punto di vista economico, pensano cioè di aver superato l’Occidente. Ma non è questo il punto.
Il romanzo, a differenza dei libri di Mo Yan, pare interessante più sociologicamente che per intrinseci motivi letterari (almeno, per ciò che attiene a lingua e stile con il triplice passaggio è difficile are un giudizio, ma quel che leggiamo in italiano sembra risentire di un ingombrante impianto giornalistico, connaturato alla scrittura dell’autore, che giornalista lo è in effetti, laddove latita il livello metaforico, se non per il concetto centrale). Resta un documento meritevole di attenzione non tanto perché mostri come la crescita dell’ultimo decennio abbia comportato la percezione della Cina di essere autosufficiente. E nemmeno per il fatto risaputo che il modello di una crescita intensiva basato su una produzione a basso costo abbia costretto l’Occidente a inseguirla su un piano regressivo (rovesciamento di quelli che le filosofie progressiste della storia di solito non si aspettano) - l’ideologia di una “fine della storia” seguita al crollo del comunismo e il conseguente dominio di un sistema capitalistico senza regole avendo fatto il resto.
Sappiamo che la Cina conosce un benessere sempre più esteso ma resta incatenata al governo repressivo del partito comunista, che del nome ha mantenuto lo stigma autoritario e fatto saltare quasi ogni altra traccia del fondatore Karl Marx (così come è vero che in un paese occidentale a caso, l’Italia, di democratico-liberale è rimasto ben poco a parte la dicitura costituzionale).
Chan Koonchung vuole mostrare – l’intento “comunicativo” è sin troppo esplicito – come questo benessere venga pagato a un prezzo che i cinesi non considerano evidentemente troppo caro. Ed è qui che secondo me il suo libro finisce col dire più cose di quelle intenzionate. Racconta che nel vicino 2013 qualcuno si accorge che un intero mese del 2011 è stato cancellato dal calendario. E dalla memoria comune. Come se non ci fosse mai stato. Non oblio, ma una specie di nulla. Se ne accorgono poche persone, intellettuali per lo più. Siccome sono i soli temono anche di essere in fallo (succede in questi casi, ossia quando si vive in un sistema paranoico per mezzo del quale la stragrande maggioranza è sottratta alla consapevolezza delle cose come sono). Il protagonista Lao Chen, romanziere e giornalista – come l’autore –, si imbatte a un certo punto in un dissidente del partito che sa qualcosa su tutta la faccenda. Sicché Lao Chen rapisce l’ufficiale del Partito comunista che ha organizzato questa singolare “terapia” collettiva che ha consentito a milioni di cinesi affacciati al benessere dei consumi di cassare dalla loro testa il terribile mese incriminato (perché terribile lo è, lo è stato, e nella realtà corrisponde al giugno 1989, ai fatti turpi di piazza Tiananmen, prima e dopo). Confessa l’ufficiale che “per il bene del popolo e della nazione” i dirigenti del partito hanno inquinato gli acquedotti con l’exstasy. Il benessere ha tagliato la testa al toro delle preoccupazioni ideali. Il demone della prosperità è il titolo italiano e rende bene l’idea. Pubblicato a Hong Kong, ha preso a circolare in Cina solo in rete e in maniera clandestina; pare vada a ruba al mercato nero.
Ma che cos’è che dice Chan Koonchung al di là delle intenzioni? Be’, mi sembra chiarissimo. Noi in Occidente, in Italia segnatamente, non saremo messi così. I nostri regimi sono più soft (menano solo alle manifestazioni), e andiamo a votare, pubblichiamo libri contro tizio e caio. Ma pensate al rimosso della nostra storia repubblicana, al dominio forse non più contrastabile del crimine (che coincide – i nomi sono a portata di chiunque – col potere politico), a trent’anni di televisione berlusconiana e insieme all’abbrutimento civile equipaggiato di feticci modaioli di cui è artefice un popolo che tale non è mai stato. Perché ha scelto di essere servo, pur di godere in pace. E ditemi se la Cina è mai stata così vicina.