6 mag 2011

I GENIETTI DELLA DOMENICA


JULIO RAMÓN 

RIBEYRO


lanuovafrontiera
Ludo, il protagonista del romanzo di Julio Ramón Ribeyro, I genietti della domenica, un 31 dicembre decide di lasciare il noioso lavoro in ufficio e con esso la vita insignificante degli ultimi tempi. L’abitudine, come insegna magistralmente l’immenso Proust riletto da Samuel Beckett, non è un accidente trascurabile dell’esistenza – piuttosto, una condizione filosofica stringente: una vera e propria castrazione dello sguardo, innanzitutto. Nell’abitudine, la percezione delle cose perde di lucidità, scivolando lentamente verso una miopia che prima di strapparci occasioni per vivere, ci allontana dalla possibilità di imparare qualcosa sul mondo: di guardarlo davvero.

Una roba del genere succede a Ludo, improbabile futuro da avvocato e inconcludente appassionato di letteratura. Quando esce dalla sua stanza asfittica, dopo aver lanciato “un sonoro gemito” simile a quello degli impiccati, e si ritrova fuori, per quelle stesse strade e chiese e portici visti tante volte, tutto gli appare diverso, come in un’epifania joyciana. Una vera rivelazione, sembra dirci Julio Ramón Ribeyro, senza però tirarla per le lunghe con le riflessioni ma lasciando vivere i suoi personaggi nel caos della città peruviana: il mondo esiste, ha una sua consistenza che oltrepassa la scrittura memoriale che ce ne facciamo attraversandolo ogni giorno mossi soltanto dalla serie lavoro – scrittoi - obblighi – pranzo – cena etc. Ludo del resto certe cose un po’ le sapeva già da prima, come succede a chi non sa che fare nella vita – il disincanto è obbligato ma non nichilista. C’è Lima, dunque, la grande città, il luogo per eccellenza delle possibilità, che nella testa del tipo e dei suoi amici sciamannati sono più opportunità di godimento che di fatica.
La grande città è (sarebbe) divertimento, ragazze, alcool. Se avessero le forze per godersela. Ludo poi ci mette un po’ a tenere a bada i sensi di colpa, la madre viva e il ricordo del padre morto sono solo rimproveri. Lasciare un lavoro per improbabili sogni letterari. Un po’ folle, o uno sfigato? Più la seconda, a seguirlo nelle sue sgangherate avventure, nei suoi fallimentari tentativi di procacciarsi un’orgetta scacciapensieri. La scena grottesca del piccolo gruppo di amici ubriachi e patetiche puttane mal lavate, mentre fuori esplodono i fuochi del Capodanno, è esemplare: un pezzo di bravura. Ribeyro, della cospicua sfornata di autori sudamericani del secondo Novecento, è certo stato fra i più negletti, nonostante il parere entusiasta sul suo conto di Mario Vargas Llosa. Certo, se uno cerca le atmosfere di Gabo o Amado e le brutte imitazioni che si sono succedute negli ultimi vent’anni, deve rivolgersi altrove. Non casualmente, quelle brutte imitazioni vendono molto,  Ribeyro – esponente di quello che è stato chiamato “realismo urbano” di cui questo romanzo del 1965 è considerato il primo esempio - non è stato un autore a caccia di facili consolazioni: uno che rifiuta il romanticismo facilone e sentimentale non ha vita facile. Racconta crudo e senza compiacimento – tutt’al più, potrebbe tagliare qua e là. La città spiazza, disorienta, specie per gente senz’arte né parte, a caccia di soddisfazioni fumose, di lavori che spera di non trovare, che vorrebbe o forse è costretta a vivere dentro una dimensione primaria, di carnalità cercata ma anche subita, come succede ai poveri disgraziati costretti alla promiscuità dalla penuria di mezzi: gli odori sono spesso sgradevoli, i corpi occupano lo spazio senza filtri. Il mondo che all’aspirante scrittore tocca in sorte, è un immenso bordello di “gente sempre inquieta, sempre insoddisfatta, condannata a un circolo vizioso che non mostrava altro che gli stessi volti di uomini angosciati e delle stesse donne sprofondate in poltrona, a fumare, senz’altra vita che quella dei loro occhi truccati, spalancati su quella migrazione di maschi ombrosi, magari impotenti” etc.
Questo è scrivere, direi. E anche se l’autore ricorda che “Il mondo dei miei libri è piuttosto un mondo sordido, disfattista, dove non accade niente di grandioso, popolato da piccoli personaggi sfortunati, senza  energia, individualisti ed emarginati, che vivono fuori dalla storia, dalla natura e dalla comunità”, meglio precisare che Ribeyro non si piange mica addosso, anzi, magari di tanto in tanto gira a vuoto, come accade ai suoi personaggi, ma diverte, anche – e non è poco.



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