31 dic 2010

Questa è invece la prima

Ma i movimenti lineari non fanno per me.
E suggerisco un'altra musica http://www.youtube.com/watch?v=SfKGNBlfveA&feature=related
http://www.temperamente.it/altroscaffale/“i-fuoriusciti”-–-michele-lupo/#more-12259

Con la bella copertina di Hopper (Chop Suey, la colonna sonora è d’obbligo) è fresca fresca di stampa la raccolta di racconti di Michele Lupo. E, essendo il chop suey è il piatto tipico degli emigrati cinesi, il collegamento con il contenuto del testo è pertinente: vicende di outsider, personaggi al margine delle storie che si dipanano intorno a loro, a partire da loro. L’impressione è che siano tutti inadatti alla vita, che ciascuno di loro sia sintonizzato su frequenze diverse da quelle del mondo che lo circonda, come per un errore di programmazione.
Nel corso delle storie si affastellano personaggi e pensieri che ambiscono ad una più distesa narrazione, che richiedono la forma del romanzo, che stanno stretti nella brevità del racconto. Il finale, incisivo, arriva sempre secco, a troncare il flusso di riflessioni che si espande dal personaggio al mondo narrativo. Conclusioni che segnano la sconfitta, il distacco, la dissociazione, l’inadeguatezza.
Attorno ai fuoriusciti –  pittori prestati al babysitting, sorelle simili nell’aspirazione confusa ad altro da quello che hanno, meridionali dal passato sadico e orfani di librerie chiuse dopo vent’anni – i personaggi invece ben piantati nel mondo per opportunismo, per mancanza di fantasia o incapacità di intravedere la possibilità di un modo diverso di vivere (incapacità che salva dalla disperazione, spesso), questi personaggi interni al normale funzionamento della vita
«arrivano sempre con un attimo di ritardo, un attimo dopo lo scricchiolio, senza sentire crepe nel significato delle cose».
Beati loro. Qui si simpatizza invece con i fuoriusciti, forse perché ci è sempre più simpatico chi un po’ ci assomiglia.
Carlotta Susca



29 dic 2010

Henry H. Bashford



Augustus Carp.
L’autobiografia di un vero gentiluomo.




Per la prima volta tradotto in Italia, questo romanzo del 1924 è un vero spasso. L’autore, Sir Henry Howarth Bashford, fu medico onorario di re Giorgio VI, studioso e, pare, autore di varie pubblicazioni più o meno scientifiche ma di un unico formidabile romanzo.
Vi si racconta l’immaginaria vita narrata da se medesimo di Augustus Carp, un cristiano devoto fanatico e terribilmente ridicolo, borioso e compunto, che pretende di insegnare all’universo mondo l’alfabeto etico del vivere e lo fa prendendosi così sul serio da strappare al lettore risate di un’allegria tutta speciale – quella rarissima che può suscitare il puro divertimento coniugato alla eccellente performance espressiva.
Perché la paradossale raffinatezza stilistica con cui l’autore prende in giro la sua voce narrante mentre essa dispensa sentenze quasi sempre di condanna tranne quelle che riguardano lui e il suo parimenti ridicolo papà costituisce un vero capolavoro di scrittura. Ne deriva una raffigurazione - di ineguagliabile comicità e ludica lucidità analitica - della bêtise dal di dentro di un personaggio che pretende invece di ergersi a giudice dell’umanità. La satira-kamikaze di un io narrante è esercizio che possono permettersi solo i grandi. Be’, Henry H. Bashford un grande lo è. Si aggiornino i manuali perché non solo questo romanzo rientra a pieno titolo nella stupenda tradizione dell’umorismo inglese, ma dovrebbe essere riconosciuto come uno dei suoi momenti più alti. Specie dentro il genere particolare della deadpan comedy - ne parla Anthony Burgess nel piccolo scritto che accompagna il testo: si tratta dell’umorismo impassibile che scaturisce da chi ostenta controllo ferreo delle proprie emozioni e inossidabilità delle proprie cervellotiche convinzioni e non si rende conto che proprio questa affettazione lo rende ridicolo. Sta lì la forza del libro: mentre l’ipocrita e arcibigotto Augustus Carp racconta la sua vita, tracciando dal suo paranoico punto di vista – linguisticamente corretto e abbottonatissimo ma nello stesso tempo involuto e concettoso – i confini del bene e del male, in realtà è il lettore che ride alle sue spalle, spianata com’è davanti a lui una mappatura dell’umano che avrebbe fatto sbellicare Flaubert.







28 dic 2010

intervista a M. Panarari su LPELS

l'intervista su LPELS a cura di Angelo Ricci http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/11/06/intervista-a-massimiliano-panarari/

del suo libro L'egemonia sottoculturale
avevo scritto http://michelelupo.blogspot.com/search?q=signorini

A proposito dei Coen - un saggio di A. Agostinelli


Un mondo perfetto. Gli otto comandamenti dei fratelli Coen.

Edizioni Controluce




copertina del libro
Il saggio di Alessandro Agostinelli affronta, prima che il cinema dei fratelli Coen, un ampio regesto di opinioni, letture e interpretazioni che quel cinema ha suscitato: in esso infatti sembrano coincidere tutte le condizioni perché la critica (decente o farlocca) si eserciti a piene mani. E qui la parentesi è lunga ma necessaria. Negli ultimi decenni, accanto alla critica addestrata, ossia avvezza a crearsi gli strumenti di una conoscenza minima della storia tout court e della storia letteraria – senza le quali il cinema è mero spettacolo - si è beatamente affiancato un esercito di sedicenti cinephiles a digiuno di tutto tranne che di festival – basta farsi un giro in rete per imbattersi in schiere di coglioni che non sanno chi siano Jean Renoir o René Clair o Pabst ma sanno tutto sull’ultimo guitto che durante le riprese dell’unico film del solito stronzetto figlio del papà imprenditore di mortadella datosi al cinema si è scopato “quella che aveva pure lavorato in televisione ma poi non se n’è saputo più niente”. Sui loro profili facebook di pischelli fabbricati in Dams, leggi “critico cinematografico” - quando noi in Italia avremmo bisogno di agronomi, geologi, genetisti.
Ora, leggendo il volume di Agostinelli quest’aria ammiccante che imperversa nel cicaleccio cinematografaro, che gioca con una lingua da “addetti ai lavori”, farebbe capolino da subito essendo il cinema dei Coen ricco di “storia del cinema”, dunque idoneo come pochi altri a essere interpretato. Così, il libro è ingolfato di citazioni, articoli apparsi su riviste specializzate, testimonianze, autorecensioni beffarde degli stessi irriverenti fratellini… 
Fortuna che Agostinelli il loro cinema se l’è sciroppato a lungo e sa quel che dice. Il suo punto di vista è onestamente schierato a favore di una lettura entusiastica tesa a smentire l’assunto di un cinema autoreferenziale, cosa che piace molto agli ambienti di cui sopra. Contro l’idea che i fiim dei Coen possano ridursi a mero gioco intertestuale e postmoderno con la tradizione filmica, Agostinelli vede bene che il gioco se c’è è serio, dato che investe, attraverso il cinema, l’immaginario stesso dell’America – il che, una lettura delle cose attraverso il filtro delle forme usate per raccontarle, è un modo per un artista legittimo quanto forse obbligato di pronunciarsi. Gli eroi e i miti americani, spesso tradotti nell’intero Occidente, li abbiamo in fondo letti (d)al cinema - nello specifico i due fratelli hanno privilegiato gli antieroi, i perdenti, gli scavezzacollo, gli sbandati anche raffinati per scrivere una critica più etica che politica del capitalismo.
Cinema dunque di personaggi quello dei Coen, segnato secondo Agostinelli da Preston Sturges come da Hitchcock, dentro una lingua sì manierista, spesso di ambientazione noir, non dimentica di Hammett e Chandler, di grande e consapevole sagacia tecnica, per un risultato finale che però mette d’accordo principi autoriali e mercato (fra i pochi, i Coen, ricorda l’autore di questo saggio che possano godere del “final cut”, del diritto all’ultima parola a prescindere dalla volontà dei produttori). In otto capitoli, si mostrano “la bottega rinascimentale” dei Coen, una certa idea di lavoro collettivo, analoga a quella dei Taviani, in cui anche fra i due, a prescindere dai titoli di coda, non è chiaro chi ha fatto cosa; il modo di lavorare, il ricorso a oggetti leitmotiv nei singoli film, le stratificazioni plurime sull’inquadratura, i ribaltamenti rispetto alla tradizione, le variazioni alla commedia o al western, lo storyboard hitchcockiano etc. il ventaglio di opinioni su ognuno – personalmente dissentirei sulla gerarchia, trovando Barton Fink, eL’uomo che non c’era ben superiori ad altri.
Non mancano le schede finali dei film. A parte l’eccesso di frammentazione discorsiva dovuta alle troppe note, alle troppe confutazioni o pezze d’appoggio, motivate però dal bisogno di offrire un panorama aggiornato e pressoché esauriente della bibliografia sull’argomento, un bel libro.

27 dic 2010

LPELS Giacomo Sartori





Sono 16 racconti questi raccolti in Autismi; qualcuno fra i lettori potrebbe già conoscerli poiché sono stati “postati” su Nazione Indiana (Giacomo Sartori fa parte della redazione in pianta stabile) lungo un intero anno.
Il libro è un trattatello di vita domestica feroce, vero e divertentissimo. Sartori vi dispiega uno humor delizioso che unisce per ossimoro acribia e svagatezza. Una scrittura tutta materica, giocata su un registro “basso ma non ammiccante né manieristico, nonostante gli argomenti scatologici dispiegati con pronuncia serissima. La cacca non sta lì a far da civetta al riso facile di lettori rabelesiani (ammesso che ancora ne esistano), ma costituisce un tema da affrontare con il piglio deciso delle questioni definitive. Il problema del narratore infatti sta nella riuscita di “una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Egli si dice giustamente scandalizzato dal constatare come “bellissime donne che brigavano tanto per il loro fascino sfornassero impunemente cacchette maleodoranti (…) tanti poeti smentissero l’evanescente illibatezza dei loro versi con pedisseque feci”. Trova abbastanza intollerabile che l’umanità dopo millenni non abbia trovato una soluzione alla pessima qualità della merda – sull’argomento siamo rimasti allo stesso punto del primate di Kubrick. Sicché affronta la faccenda con tenacia e puntiglio “scientifici”; sebbene la moglie e gli amici temano che sia un po’ andato di testa – la moglie persino che le sue siano manovre astruse per mandare a monte il matrimonio – l’uomo si applica, tiene “al guinzaglio enzimi, quantità e qualità dei succhi gastrici, bile, equilibrio degli ormoni”; ma niente, deve convenire che la sua “è una cacca impresentabile”.
Assistiamo in questa e altre storie insomma a un rovesciamento dell’epica, ossia a un dettato eroicomico: benché applicato a casi di ordinaria vita quotidiana, lo scetticismo è pugnace quanto la volontà. S’indovina una lotta sotterranea con la tentazione sempre dietro l’angolo del nichilismo. La stessa caparbia ostinazione è all’opera nella descrizione dei rapporti parentali: nell’analisi e rivelazione delle falle innumerevoli che li squarciano da tutte le parti si procede spietati e perplessi; si ha la sensazione che il narratore non si fermi davanti a niente. E’ l’abitudine a non lasciare nulla d’intentato che gli viene forse dal suo mestiere – l’autore empirico, come il narratore protagonista, fa l’agronomo. Il che aiuta a definire non solo un modo di procedere, un asintotico anelito all’esattezza, ma pure un codice lessicale, un’adesione incondizionata a una realtà materiale solo tenendo sempre presente la quale, attraversandola ed esaurendola in ogni dettaglio, si può forse aspirare a qualcos’altro – in un libro a mio parere stupendo, le pochissime cadute stilistiche si verificano proprio quando ci si allontana troppo dalla grana corporea delle cose e ci si lascia carezzare da tentazioni diverse: lì si rischiano soluzioni posticce come “il vissuto telefonico” (ma si tratta di rari casi e lo sottolineo affettuosamente all’autore di questo libro che è fra i migliori dell’annata).
Per quanto tagliente e nero, l’umorismo di Sartori è ottenuto quasi “senza parere”; il narratore sembra intenzionato solo a ricostruire i fatti, dominato dalla “sete di capire” e da “una fanatica ostinazione”. Scava e misura, da buon agronomo; gli capita pure di finire accanto ai cimiteri e per quanto voglia fuggirli sente una specie di aria famigliare – sinistra, va da sé. Non è che in famiglia le cose vadano molto meglio, infatti. Il rapporto con la moglie si limita agli incontri settimanali con la psicoterapeuta che dovrebbe risolvere i problemi di coppia. Ma i due si accapigliano già per decidere come andarci, con quale mezzo di trasporto, così ognuno ci va per conto suo. E non concordano nemmeno su ciò che debbono fare una volta lì (eccellente la capacità di Sartori di far parlare i personaggi attraverso i loro sguardi, prima e oltre le schermaglie dialettiche). Il risultato è che litigano proprio perché vanno in terapia. Solo questo racconto vale migliaia di pagine stampate dalle majorsnell’anno morente 2010.
I libri dell’editore Sottovoce sono di una sobria, asciutta e quasi severa eleganza e quel che più conta tentano di inserirsi attraverso la qualità dei testi in un mercato sempre più dominato dai brand fasulli che purtroppo occupano le librerie con insopportabile prepotenza. I librai fanno il loro mestiere, ma per invertire la tendenza avremmo bisogno di negozianti che i libri li amassero almeno un po’, che invece di assecondare i distributori dedicassero un’ora del loro tempo quotidiano a sbirciare le pagine di libri come questo e li affiancassero alle pile dei carifigli di papà mercato.

26 dic 2010

I FUORIUSCITI

In libreria una raccolta di sei racconti, alcuni già apparsi su rivista.
Il titolo: I fuoriusciti. Stilo editrice. Bari.

23 dic 2010

La promessa - Friedrich Dürrenmatt.


dal paradiso

La letteratura contro se stessa. 

'La promessa – Un requiem per il romanzo giallo' 

di Friedrich Dürrenmatt.


Copertina
Il romanzo La promessa – Requiem per un romanzo giallo, del 1958, contiene un assunto chiaro e programmatico: la vita è una cosa, il romanzo giallo un’altra.
L’intreccio: è questo l’inganno che il dottor H., ex comandante della polizia cantonale di Zurigo, non sopporta nei romanzi gialli. Per dare una dimostrazione della sua tesi, secondo la quale nelle trame romanzesche “tutto accade come in un partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore” e che in questo modo lo scrittore di gialli non possa che fornire una rappresentazione menzognera della realtà, bene, per offrire un esempio definitivo di quanto poco verosimile sia l’approccio del giallista, l’ex poliziotto racconta da par suo al dimesso scrittore che lo incontra casualmente in un albergo una storia in sé non eccezionale ma ricca di una superba ambientazione, di clima, di personaggi caratterizzati e pieni come ogni buon romanzo classicamente inteso pretende. Questo il paradosso de La promessa lavoro dalle tinte cupe, ossessive, con il quale Friedrich Dürrenmatt ritenne di sottarre una volta per tutte al genere le sue pretese “realistiche” senza immaginare che, piuttosto che suonare campane a morto, il libro finisse per occupare un posto – seppur nobile - fra gli altri nella storia della letteratura gialla. 
Non che – potessimo ridurre la letteratura a una questione di “ragioni” – avesse per l’appunto “torto”: sappiamo che “un fatto non può tornare come torna un conto” e che “ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande” nella vita (delitti e indagini annesse) per dare credibilità realistica a un genere, che, anche nella versione noir (al netto di contrapposizioni spesso speciose) negli ultimi 15 anni in Italia hanno spacciato come “il solo che raccontasse la realtà blablabla”. 
Il romanzo dello scrittore svizzero riesce a sostenere una tesi condivisibilissima (quella per cui il racconto giallo credendo di imitare l’indagine poliziesca stringe la detection in un meccanismo logico perfetto e perciò inverosimile – la recensionistica ci si è molto masturbata in questi anni esibendo ammirazione sconfinata per l’abilità combinatoria, la sagacia geometrica del plot e via discorrendo), senza farsi azzerare in quanto opera di finzione – pericolo sempre in agguato con i romanzi “a tesi”. Qui invece gli strumenti finzionali del romanzo sono talmente al posto giusto da evitare un harakiri. Il mondo non è quello pensato da Hegel. Fosse stato un filosofo, l’eccellente Durrenmatt avrebbe evitato di scrivere un libro come questo; avrebbe magari scritto un libro denso di profondissimi pensieri sul caos come cifra epistemologica del tutto; fosse stato un avanguardista di quelli aggressivi, avrebbe preso una pistola per impedire a chiunque di scrivere un giallo dopo La promessa – ed egli stesso in luogo di un romanzo avrebbe pubblicato un testo di pagine bianche, con il sottotitolo che conosciamo su una copertina gialla. Essendo invece uno scrittore compreso in una solida tradizione letteraria, scrisse un giallo non poco noir (décor sinistro, atmosfera claustrofobica, poliziotti inquieti e interiormente tormentati: la promessa fatta ai genitori della bambina uccisa dall’orco più demente che cattivo di catturarlo), che funziona proprio secondo i crismi non del giallo ma della buona letteratura. Perché fra classici capri espiatori (i contadini che vogliono far fuori il presunto assassino e credono di individuarlo alla svelta), considerazioni ovvie sulle difficoltà nelle indagini rivolte ai delitti sessuali (perché il movente tanto enigmatico quanto ovvio in questi casi non risparmia nessuno), false piste e poliziotti testardi fuori dalle regole che vanno avanti per conto loro, fin qui e oltre poteva non sembrare un’opera da conservare in biblioteca; ma per virtù stilistica, lo scrittore riesce a far raccontare una storia che cattura il lettore e insieme lo persuade, nonostante l’assunto della realtà spuria, casuale, imprevedibile (nonché spesso “ridicola e idiota”). Pertanto, il narratore infila una serie di “esercizi di stile” che, mutatis mutandis, sono quelli che il suo protagonista denunzia come mendaci nei romanzi gialli. La descrizione vivida che ci lascia del microcosmo delle foreste svizzere e del mondo che le abita (l’ostinazione cieca degli uomini, la rara pietà per i poveri cristi, l’immagine dei bambini rapiti dalla magia nefasta della fantasia, la violenza insensata, la mancanza di razionalità) vale a farne un piccolo grande classico.


20 dic 2010

Il partito desolante, gli studenti e i poliziotti

Pare che oggi siano tornati. I poliziotti dico, ad Arcore. Una settimana dopo. Notavo qualche giorno fa che non potendosi menare da soli la notizia era passata in sordina - del tutto priva di glamour. Probabile che il centinaio in pellegrinaggio brianzolo non vogliano rimediare qualche euro in più spaccando le ossa alla gente: anche in polizia c'è un minimo di dialettica interna. Intanto, l'uomo che gli studenti non nominano perché non esiste né al governo né all'opposizione, quello che si rimbocca le maniche della camicia bianca adorna di cravatta, ha rimesso la giacca - sarà il freddo. Mi chiedevo che cosa ci facesse con quelle maniche alzate. Casini con Casini, pare.







Un'altra lista

e qui, a cura dell'impagabile Giorgio (Morale) gli auguri per la categoria - va da sé che ne ha particolare bisogno; e un'altra lista di libri, legati in qualche modo alla scuola
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/12/20/vivalascuola-64/




libri migliori 2010 per gli orchi


I libri migliori dell'anno

di Il Paradiso degl i Orchi


Copertina
Anna Ruchat – Volo in ombra (Quarup) suggerito dall’orco Ronci
Jaume Cabré – L’ombra dell’eunuco(laNuovafrontiera) suggerito dall’orco Ronci
Vladimir Pozner – Tolstoj è morto (Adelphi) suggerito dall’orco Ronci
Anna Maria Ortese – Mistero doloroso (gli Adelphi) suggerito dall’orco Ronci
Jack Ketchum – La ragazza della porta accanto(Gargoyle) suggerito dall’orco Ronci
Sandro Modeo – L’alieno Mourinho (ISBN) suggerito dall’orco Franchi
Carlo D’Amicis – La battuta perfetta (Minimum fax) suggerito dall’orco Franchi
Luca Martello – Groucho e i suoi fratelli(Castelvecchi)) suggerito dall’orco Franchi
Vladimir Pozner – Tolstoj è morto (Adelphi) suggerito dall’orco Franchi
Renzo Rosso – La dura spina (ISBN) suggerito dall’orco Franchi 
Philip Roth – La contro vita (Einaudi) suggerito dall’orco Lupo
Michele Mari - Rosso Floyd (Einaudi) suggerito dall’orco Lupo
Carlo D’Amicis – La battuta perfetta (Minimum fax) suggerito dall’orco Lupo
Vladimir Pozner – Tolstoj è morto (Adelphi) suggerito dall’orco Pietrogiacomi
John Barleycorn - Memorie Alcoliche di Jack London (Mattioli 1885) suggerito dall’orco Pietrogiacomi
Luis Alberto Urrea - La figlia della Curandera (XL edizioni) suggerito dall’orco Pietrogiacomi
Howard Jacobson - Un amore perfetto (Cargo edizioni) suggerito dall’orco Pietrogiacomi
Diego Zandel - Il fratello greco (Hacca edizioni) suggerito dall’orco Pietrogiacomi
Paul Murray - Skippy Muore (ISBN) suggerito dall’orco Angelini
Luigi De Pascalis - La Pazzia di Dio (La Lepre Edizioni) suggerito dall’orco Angelini
Luis Alberto Urrea - La figlia della Curandera (XL edizioni) suggerito dall’orco Angelini
Giovanni Di Iacovo - Tutti i poveri devono morire (Castelvecchi) suggerito dall’orco Angelini
Massimiliano e Pier Paolo Di Mino - Fiume di Tenebra (Castelvecchi) suggerito dall’orco Angelini
Roberto Bolano - Tra parentesi (Adelphi) suggerito dall'orco Di Mino
Karl Kerényi - Dioniso (Adelphi) suggerito dall'orco Di Mino
Alice Pung - Gemma impura (Mobydick) suggerito dall'orchessa Repetto.


Due brevi considerazioni.
La prima: ben 3 orchi su sette hanno indicato come uno dei libri più belli dell'anno, nel consueto marasma editoriale, Tolstoj è morto del russo Vladimir Pozner. Siamo forse di fronte ad un capolavoro?
La seconda: se si eclude qualche titolo adelphiano o einaudiano, le preferenze orchesche sono andate tutte ad editorie piccole e medie (con ISBN che la fa da padrona). Vorrà dire qualcosa?

17 dic 2010

Sefedin Fetiu




Sefedin Fetiu, Il tempo del risveglio 
STILO Editrice


Il romanzo di Sefedin Fetiu, Il tempo del risveglio (Stilo, pp. 126, euro 10) è un buon libro per tornare a pensare il valore insieme della scuola, dei libri e quello dell’esempio etico che è a carico di ogni insegnante che non voglia mettere a repentaglio il suo magistero con un comportamento contraddittorio rispetto ai nobili principi che enuncia.
Il narratore Skender Dukagjini, figura autobiografica dello scrittore kossovaro Sefedin Fetiu, ricostruisce il clima terribile che dovette soffrire l’etnia albanese sotto la dittatura di Tito in quella che per alcuni decenni si chiamò Jugoslavia. Recupera con un tono volta a volta elegiaco o drammatico gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza costretti sotto il giogo cupo e duro del regime per nulla intenzionato ad ascoltare le rivendicazioni autonomiste del Kossovo.
La centralità assunta in questo libro – al netto degli specifici contenuti storici e geopolitici – dalla letteratura e dal suo insegnamento in relazione agli esempi di vita concreti di coloro che ne proclamano l’esemplarità valoriale, in un contesto certo edificante ma non privo di stimoli, dà al romanzo il carattere di una storia di formazione: che è storia di resistenza, in cui azione e cultura cercano un punto d’intersezione che dia senso a entrambe.
Gli insegnanti che di fronte al fanciullo Skender si pregiano di figurare come maestri, nel momento in cui indicano nella letteratura un modello di libertà, di immaginazione, sono costretti alla prova ben più dura della testimonianza fattuale, dell’azione: dando l’esempio di una risposta concreta alla tirannide, assumendo in prima persona l’onere dell’opposizione. Non tutti ce la fanno: l’idealismo si paga, ma tanto più la libertà dei libri per la quale gli insegnanti liceali e gli amici di Skender si entusiasmano, trova un senso nella scelta coraggiosa di combattere effettivamente per essa.
Il tempo del risveglio si fa leggere anche per una certa premura descrittiva che rende bene  il mondo non privo di tratti patriarcali di quelle terre, comprese le feroci e improvvise esplosioni di violenza che a partire da un immaginario forse superficiale ci attendiamo quando si tratta di Balcani (sarà per quello che sfuggiamo a quella parte di mondo, a due ore di scafo da noi, per un inconfessato senso di superiorità per quei disgraziati persi nei loro atavici conflitti? per l’orrore che gli italiani provano ormai per la povertà? è una rimozione fastidiata per le sorti di cristi più poveri di noi?).
Eppure, i lettori italiani, gli insegnanti in particolare, potrebbero trovare qui non solo i tratti in corpore vili di cosa voglia dire una scuola che insegna in un contesto difficilissimo, ma anche un’esercitazione contingente, l’omologo di una questione che di questi tempi dovrebbe essere centralissima e la politica e i media si guardano bene invece dal marcare: il Risorgimento. Leggere per credere.

14 dic 2010

La sfiducia (da mo'), il Cepu e gli studenti

Pare che Catia Polidori con la sua famiglia controlli il Cepu. E' un deputato (e nello specifico italiano di questi anni pare ovvio). Aveva firmato la mozione di sfiducia al porcello. Poi in aula ci ha ripensato. Dice Luca Barbareschi (un altro genio) che è stata minacciata, ricattata. Fatto sta che la signora ha votato contro la mozione che aveva firmato: il porcello per ringraziarla a fine votazione l'ha fatta entrare nel suo ufficio (forse nel frattempo qualcun altro stava alzando le mani - in un altro senso). Ora, non v'è chi non vede come le cose si tengano, in Italia, con logica ferrea: gli studenti fuori (il meglio che c'è in Italia, oggi, a parte i cazzoni che stanno lì per confondere e rompere le cose e le idee ai semplici) gli studenti che sono la parte più viva e necessaria del paese, fuori, a cercare di tenerlo in vita, e dentro i cialtroni e i banditi che sopravvivono grazie, fra gli altri, al voltafaccia di una specie di ministro-ombra che presiede alla loro personalissima idea di Istruzione e Formazione. Il Cepu e il porcello, nel connubio c'è tutto. Smettetela di pensare alla signora Gelmini (non vedete com'è triste?)

13 dic 2010

Fiume di tenebra


Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

Castelvecchi

1920. La Grande Guerra è finita da un pezzo, ma non negli umori dei più. Il capitano Italo Serra, nel cui cuore di soldato è imprigionato un buio che “non c’entra niente con tutti i discorsi inventati da chi li aveva mandati al massacro”, è immerso in una caligine della coscienza che lo fa sentire perduto, strappato all’uomo che pensava di essere, invischiato in una tormenta che gli fa temere di essere impazzito – e forse lo è. 
A quest’uomo (del cui stordimento profondo si potrebbe sospettare che sia l’effetto traumatico di una rivelazione, quel genere di rivelazione che gli uomini non possono tollerare se non a costo della vita stessa), a quest’uomo cui la guerra ha lasciato in consegna non una disfatta delle armi ma un esito ben più catastrofico, un irrecuperabile crollo del senso, qualcuno decide di affidare una missione cruciale: uccidere il Comandante che ha trasformato Fiume in un puttanaio. 
La “Città di Vita”, l’irredenta (l’irridente) zona franca che è l’oggetto della contesa, innervosisce la diplomazia internazionale ed è un problema per lo sprovveduto governo italiano; a Roma temono che l’insubordinazione metta a repentaglio il già precario equilibrio della nazione. I soldati già disobbedienti minacciano di lì di marciare sulla capitale, Mussolini nicchia da italiano verace: già democristiano; per non dire che lassù se ne vedono di tutti i colori: arditi, avventurieri, granatieri, anarchici, poeti veri e tarocchi, pansessuali e femmine disinvoltissime e maschi con maschi e nudisti e cocainomani e feste da mane a sera… vano l’elenco perché la natura dell’esperimento (nel caso, l’esperimento politico-esistenziale che fu Fiume) - trattandosi di faccende umane molto umane sebbene cifrate nell’oltranza che mira al sorpassamento di sé - è di essere una condizione temporanea e il suo esito per definizione indecidibile). 
A Roma non sanno bene che fare e l’unica cosa divertente è lo spettacolo del presidente Nitti che ha comprato un cane, lo ha chiamato Fiume e lo piglia a calci in culo. Nel frattempo, lassù, il soldato Serra si avvicina umbratile alla città olocausta, gravato da una nevrastenia debilitante che scarta la percezione dei fatti verso un altrove ambiguo, sfuggente non appena ti sembra di averlo afferrato (te lettore e lui il soldato arrischiato all’impresa). 
Il narratore che si nasconde dietro i nomi di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, un trickster un po’ pensoso e un po’ burlone, segue l’avventura del sonnambulo involta in una nebbia spessa e implacabile, sì che il suo obiettivo, ancorché esplicito, riesce per paradosso a rimanere un mistero: di proteiforme consistenza, va precisato, ché il poeta partito sessant’anni prima dall’Abruzzo per sedurre e coglionare il mondo mischiando bigiotteria e pietre preziose (in arte e in vita va da sé, senza distinguere perché quella era la natura del gioco, o perché non ne era capace), D’Annunzio insomma, nel mirino di una congiura internazionale, diventa un’immagine inafferrabile che costringe il protagonista a fare i conti con se stesso - con tutta la grammatica valoriale che lo ha tenuto in piedi fino a quel punto della vita (Serra non può conoscere Lo zen e il tiro con l’arco, che Eugen Herrigel scriverà solo nel 1948, ma i rebus implicati sono simili).
Dunque, in quella specie di teatro a cielo aperto che è la città, in cui gli autori trascinano sornioni il lettore con un andamento ipnotico, con dei tratti da poème en prose, il capitano avvicina piano il centro di irradiazione di tutta la storia – che è un po’ la storia del mondo vista dalla parte di un sogno androgino, di un’aspirazione al superamento dell’intero repertorio dell’umanamente codificato, di tutta la nomenclatura del genere e del numero, delle mappe ideologiche riconosciute, in direzione dell’indifferenziato, forse, del primordiale biologico – e lì, nell’intrico di passioni e deliri e utopie e cazzate che è Fiume, dopo aver incontrato e sproloquiato e banchettato più volte con alcuni dei suoi numi tutelari, il tenente Guido Keller (con il quale rischia di perdersi per sempre portandosi alla bocca la pianta grazie alla quale “tutto sarebbe divenuto informe e fluttuante. Un luogo inabitabile (in cui) le case avrebbero smesso di essere alte e scure su strade dritte e sicure”...), o lo scrittore Comisso che discetta con competenza sulle misure dell’uccello, e aver intuito che nei loro riti cultuali, nei sogni di quei pazzi si cela un enigma che ha da fare con la bellezza (il rovescio dell’indifferenziato biologico), lì, prossimo alla meta, al colpo di pistola che dovrebbe far fuori D’Annunzio, comprende che sta mirando al mondo stesso come possibilità. Ma quella possibilità è sogno – vive di febbri vaghezze dismisure -, quella possibilità forse è solo teatro, e Serra fallisce (se al sogno del capitano e a quello della voce narrante aggiungiamo quello del lettore, forse il colpo di pistola sarebbe pleonastico, perché in un teatro dei sogni è a una maschera che spari).
Così l’uomo D’Annunzio si salva: ma Fiume, nel “Natale di Sangue” di novant’anni fa, viene sgomberata a forza dall’esercito inviato da Giolitti. Così termina la sua storia “sperimentale”. E finisce l’avventura del poeta-guerriero – ciò che aveva sognato di essere. Non è colpa degli autori se Kurtz può avere il volto di Marlon Brando e il rachitico D’Annunzio suggerisce invece, italianamente, un’apertura verso il grottesco. Che nel libro è però tenuto a bada grazie soprattutto a una scrittura controllata, attentissima (che ogni tanto si concede qualche preziosismo). E’ che se a Kurtz riesce, prima della resa dei conti, di capitalizzare una volta per tutte, con un controllo ferreo e spietato, il suo dominio in un’architettura assoluta (penso al Kurtz asiatico di Apocalipse now), è anche vero che paga in termini poetici ciò che guadagna in termini “politici”: Kurtz i libri li legge, D’Annunzio, politicamente ondivago, li scrive. Qui il suo sogno – stante la radicalità diremmo oggi progressista della costituzione fiumana – è tanto libertario quanto letterario, libertario in quanto letterario. Perciò stesso, destinato a soccombere.  
E veniamo ai rinvii empirici, sul “vero” esperimento sociale e politico che fu la “Città di Vita”. I Di Mino non volevano scrivere un romanzo storico, ma hanno studiato a fondo la materia, sanno che la congerie di letture sull’argomento tiene le estreme, utilizzata a destra e a manca quale prova paradigmatica: prodromo della presa di forza fascista fino a Casa Pound da una parte, utopia piratesca e tardo-freak nel modello TAZ di Hakim Bey, dall’altra. D’Annunzio stesso, felicitato da Lenin e Gramsci pensò Fiume come un “comunismo senza dittatura”, ritoccò la sua costituzione, dai tratti radicali, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris; sappiamo che a Fiume però c’era di tutto, che ci furono momenti ma anche aspettative diverse, che la città era anche il ricettacolo di cascami nazionalisti, di reduci guerrafondai. Era un caos insomma che poteva andare in direzioni diverse; da esso però (e sospetto che agli autori - nonostante sia chiara la propensione per il coté libertario della vicenda - questo interessasse più di ogni altra cosa) qualcuno cercò di desumere una forma, ossia, un’idea di vita in cui la bellezza fosse un fine. 
Perciò, se ciò che conta è la possibilità, il rimanere aperti alle sue declinazioni, forse nel racconto mitico che è Fiume di Tenebra il cuore non sta nei fatti verosimili ivi contenuti (com’è del romanzo storico), ma nel sogno di ciò che a partire dalla Carta del Quarnaro, Fiume avrebbe potuto essere. 
Poi è vero, “l’uomo è il proprio fallimento”, è costretto ad ammettere il capitano – e alla fine della storia, ciò vale per lui come per D’Annunzio. Ma il fallimento, quando non va a caccia di redenzioni, è bellissimo.









12 dic 2010

MICHELE LUPO: LPELS

 Lo sapete tutti, gli insegnanti migliori saranno premiati. Uno stipendio in più all’anno – pensa.
Voci in capitolo tra gli altri, per decidere i meritevoli, alunni e genitori. Colleghe e colleghi carissimi, mi spiace per voi, ma io sto messo benissimo. Frescacce ne sparo parecchie, i pischelli con me ridono spesso e volentieri. Il punto di vantaggio lo vedete da soli. In più, sono bellino, e certe mamme sono sensibili all’argomento – non so se mi spiego.

11 dic 2010

GIuseppe Caliceti e il merito per gli insegnanti

da http://www.ilprimoamore.com/testo_2086.html

La meglio scuola
Giuseppe Caliceti



Mentre al grido di battaglia "Merito! Merito!" viene fatta a pezzi anche l'Università italiana, in alcune scuole partono le sperimentazioni meritocratiche. Il 19 Novembre del 2010 il ministro all'Istruzione dichiara: "È un giorno storico. Finalmente si iniziano a valutare i professori e le scuole su base meritocratica. Premi dunque ai migliori".


Di che si tratta? Dunque, un primo progetto intende valutare le scuole medie migliori tra tutte quelle della provincia di Pisa e Siracusa, un secondo a Napoli e Torino. Come? Intanto i parametri di valutazione sono inevitabilmente basati solo sugli apprendimenti degli alunni, non certo sulla loro educazione e la capacità relazionale.


Non si tiene conto delle condizioni di partenza degli studenti prima di effettuare le rilevazioni. Viene creata una classifica finale tra le scuole a prescindere dal tessuto sociale in cui sono inserite. C'è un forte rischio di autoreferenzialità della valutazione: a giudicare il personale scolastico è infatti, soprattutto, altro personale scolastico. Ancora: non è chiaro in cosa consiste la valutazione di studenti e genitori degli studenti.


Il premio di merito rischia di andare ai docenti che si ingraziano meglio il preside, visto che la commissione di valutazione non è indipendente. Affidarla allora al presidente del Consiglio d'Istituto, figura elettiva indipendente anche dal ministero?
Ma così facendo, la commissione, quali garanzie di competenza avrebbe? In una scuola elementare i docenti hanno fatto più o meno gli stessi studi, ma in un istituto superiore? Un tecnico o un commerciale?


La varietà di discipline non garantirebbe l'espressione di una commissione di valutazione all'altezza del compito, visto che l'insegnante di Lettere non saprebbe valutare il curriculum di un collega di Chimica o di Inglese. Ma è interessante notare come, in questo modo, la scuola della competizione, introdotta con il concetto di autonomia, uno dei capisaldi del Pd, più che produrre qualità nel senso di uno sviluppo ottimale delle capacità cognitive dei ragazzi e del miglioramento del loro star bene a scuola, produca innanzitutto concorrenza aziendalistica, caccia agli sponsor, rivalità tra docenti invece di collegialità.


Infine, il premio ai docenti che sarebbero più meritevoli, ammettiamolo, è ridicolo: una mensilità in più all'anno, equivalente a circa 4 euro al giorno. Tanto che diversi docenti invitano i colleghi a rifiutare la gara al merito di 4 euro in più per rispetto di chi vive la precarietà lavorativa nella scuola. Per le scuole costrette ancora a comprare la carta igienica con i soldi dei genitori degli studenti. E ricordando che i fondi per premiare i presunti migliori sono proprio quelli recuperati con i tagli al personale, compresi quelli ai docenti di sostegno per i ragazzi disabili.



Insomma, non è terribile pensare che i fondi per i premi a un presunto merito derivano dai tagli delle risorse umane e del diritto allo studio dei disabili?
 Ma allora, il vero scopo di tutta questa messa in scena meritocratica, qual è? L'esclusione della contrattazione nel momento in cui si vanno a definire gli incrementi retributivi dei docenti. Non a caso in questi anni il ministro Aprea ha proposto di sopprimere i sindacati dalla scuola. Per questo il ministro non dà certezze sugli scatti d'anzianità e sposta tatticamente l'attenzione sulle sperimentazioni sul merito dove, peraltro, non ha né idee, né soldi.


Torniamo di nuovo all'illusorietà dei criteri utilizzati per definire il merito. Prendiamo il criterio della produzione: il numero di promossi. E' indice di scuola migliore? Posso promuovere di più alzando i voti o posso avere più diplomati solo perché ho alunni non problematici o la cui famiglia può permettersi corsi di lingua all'estero e corsi di recupero a pagamento. E allora? Il merito è della scuola o delle famiglie? O delle amministrazioni pubbliche in cui scuola e famiglia sono inserite? O di tutti insieme?


Comunque la pensiate, con tale criterio, il premio 'produzione' andrebbe alle scuole dei quartieri più agiati e a minor rischio di dispersione scolastica.
Certamente non a quelle scuole più disagiate, come invece suggerirebbe la lettura dell'articolo 3 della nostra Costituzione.


Ecco, il risultato più eclatante dell'applicazione coatta e strumentale di una ideologia del merito a un'istituzione così complessa e delicata come quella scolastica, specie quando si parla di scuola dell'obbligo, è proprio questo attacco violento e irresponsabile ai principi di sussidiarietà, di solidarietà, di aiuto: i pilastri della nostra Costituzione e della nostra convivenza democratica.


Qualsiasi docente di ogni ordine di scuola che abbia un minimo di coscienza e non sia così disperato da mendicare 4 euro in più al giorno, in questi anni, si trova al centro di questo dilemma: come dipendente statale, nel mio lavoro quotidiano, io devo tener maggior conto delle indicazioni costituzionali o di quelle governative che le contraddicono?


Verrebbe da dire: caro governo, visto che tieni così tanto ai dati internazionali dell'Ocse-Pisa, guardane intanto un paio, i più eclatanti, quelli dell'investimento dell'Italia in formazione e ricerca rispetto agli altri Paesi, e magari anche quello degli stipendi dei docenti. Insomma, non prenderci in giro e pensa ad aumentare i fondi. E prima di parlarci di merito e di aumento di stipendio solo per pochi, pensa piuttosto ad aumentare lo stipendio a tutti: almeno allineandoli a quelli dei docenti degli altri Paesi Ocse.


5 dic 2010

MICHELE MARI - ROSSO FLOYD






E’ uscito già da qualche mese ma spero che sia un modo per dargli una vita più lunga di quella di cui godono oggi i libri a parte i soliti noti.
Rosso Floyd di Michele Mari, ossia uno dei migliori scrittori italiani in circolazione e non da oggi, uno che ci assicura ogni volta un libro diverso – non tutti dello stesso livello, va da sé, ciò che non toglie un micron di peso all’opera complessiva – è un romanzo bellissimo, un vero piacere per chi ha avuto una certa frequentazione con i Pink Floyd, gruppo artefice di una delle pagine fondamentali della storia rock.
L’opera è documentatissima, secondo consolidata vocazione filologica dello scrittore milanese, ma aliena dagli stucchevoli tentativi di fare del “realismo” a buon mercato appiccicando un paio di blande invenzioni al lavoro d’archivio e sfoggiare l’etichetta di romanzo che illude di alzare il fatturato. La sua forza espressiva, se si è lettori addestrati ossia disposti a un minimo di fatica per godere poi più intensamente della bellezza di un libro, forse può coinvolgere anche chi da quella musica si è sempre tenuto lontano.
Il centro del libro è Syd Barrett – paradossale perché Mari non ritiene che i PF siano l’underground Barrett, perché il meglio per lui (e qui chi scrive è in disaccordo totale ma la cosa è irrilevante), è venuto dopo la sua uscita dal gruppo – prestissimo, com’è noto. Di questo Rimbaud in minore della musica rock, Mari coglie la sorgiva stranezza di adolescente eccentrico, alquanto bizzarro già prima di intraprendere i suoi viaggi lisergici senza ritorno, vede bene dentro il suo immaginario struggente, beffardo scritto con un alfabeto falotico che poi verrà scandito nelle strambe canzoni di animali insoliti, folletti, nenie demenziali e filastrocche strampalate (tutto già nel primo disco PF, The Piper at the Gates of Dawn, titolo tratto da The Wind in the Willows, libro dello scrittore per ragazzi Kenneth Grahame) – da lì principia la storia della band.
Il romanzo insomma si costruisce intorno al centro vuoto e silente del Diamante Pazzo (l’unico al quale non verrà data la parola), al buco nero in cui Barrett finì durante un assai sinistro e misteriosissimo fine settimana dal quale non tornò mai più come prima. Il narratore convoca in udienza personaggi veri e immaginari (soprattutto i primi) per costruire una polifonica istruttoria di voci discordi, emozionate, fantasiose, irritate, tasselli in apparenza discontinui che riepilogano in un mosaico affascinante la storia di Syd e della band. In forma di testimonianze, confessioni, interrogazioni, lamentazioni, Waters, Gilmour, Mason e Wright si alternano ad altre rock stars lontane dal loro universo ma per qualche motivo implicate, da Bowie a Clapton; compaiono Michelangelo Antonioni e il grandissimo Kubrik, scornato dai rifiuti di Waters a prestargli la loro musica, fan più o meno attendibili, parenti e amici, tutti chiamati a dire la loro su un aspetto o l’altro dell’universo PF.
I resoconti investono rapporti privati (spesso tutt’altro che gioiosi), invidie, paranoie di egoriferiti (Waters), frustrazioni (Wright non meno che Mason), la vocazione all’armonia non priva di fine cinismo in GIlmour, e storie legate ai concerti, alle registrazioni, controversie artistiche, concezioni musicali diverse (una versione aggiornata della wagneriana opera d’arte totale, megalomane assai, cupa e spesso macchinosa nel pur prediletto – dall’autore – R.Waters, il cui carattere ossessivo riconosce come affine) – i sogni, la schizofrenia, la psichedelia.
Ognuno leggendo il libro può scegliersi i suoi PF di sottofondo  - un disco come Ummagumma che il narratore fa intendere di non amare particolarmente è per chi scrive il vero segno PF, all’origine di molti fenomeni musicali successivi, a partire dalla Kosmische Musik dei grandi tedeschi anni Settanta. Ma il romanzo riesce a ridare alla musica dei PF la sua bellezza ormai lontana, e perciò emoziona - in virtù di scrittura, se a qualcuno ancora interessa la scrittura e non la mozione degli affetti musicali di tanti romanzetti giovanilistici che elencano canzoni d’elezione - un libro imperdibile.

Il genio Pansa all'opera


Quando ieri in tutta Italia avete preso le botte
dai poliziotti,
G.Pansa (uno che la storia l'ha studiata,
l'ha raccontata, l'ha sfigurata)
simpatizzava coi poliziotti




Per gli (le) insegnanti distratti/e

Notate bene soprattutto una frase, riguarda il fascismo, ed è stata pronunciata, per chi non lo sapesse, da un sindacato certo non di sinistra.
Leggete, meditate e possibilmente svegliatevi.
http://www.repubblica.it/scuola/2010/12/04/news/sanzioni_professori-9830875/?ref=HREC1-5

4 dic 2010

ahi serva Italia

libertà dei servi



Visto che non ne possiamo più, anche solo di pensarlo, diciamolo subito: il saggio di Maurizio Viroli ci servirà perché a futura memoria si tengano presenti le responsabilità ennesime di questa gente italica che non è mai diventata popolo, quella che adesso tutti fanno a gara a paragonare all’ignaro chiamato in causa da Ettore Petrolini perché “non buttava di sotto” il frescone che lo fischiava. Fino a ieri gli stessi hanno tessuto l’elogio della “straordinaria comunicazione” che teneva insieme la servitù e il suo padrone di Arcore: i bisogni terra-terra, il parla come mangi e la cultura da strapaese.
Professore ordinario di teoria politica a Princeton, Viroli è uno degli ultimi a tentare in modo non approssimativo di definire la natura politica dell’Italia berlusconiana che sembra sempre lì per finire e che siamo in molti a temere non finirà (presto) anche tirando le cuoia l’uomo (l’uomo?) che ce l’ha regalata. Oddio, tirasse le cuoia proprio ora ne farebbero un martire – che almeno faccia l’unica cosa che ci sembra ragionevole anche se nessuno nel blablabla infingardo dei poveri notisti politici che ci ritroviamo lo dice mai: andarsene alle Bahamas o dove vuole lui purché fuori dalle palle. Dal “Corriere” giù per li rami, infatti, nonostante la citazione petroliniana, ancora si pratica la retorica della dialettica dei poli, omettendo quel che ognuno volendo sa, che Berlusconi mentre cerca di difendersi dai processi in corso quotidianamente combina affari da produrre super-lavoro nelle procure: fuori dalla politica il posto per lui, tecnicamente parlando, resterebbe quello che oggi riservano ai ladri di polli. Indovina indovinello.
La libertà dei servi, Viroli doveva dapprima scriverlo in inglese perché gli fu chiesto di spiegare agli anglosassoni, increduli, cosa succedeva in Italia – e anche questa è una vecchia storia. 
La ricerca fatta dallo studioso concerne il nome giusto da dare a questa fase della storia italiana, e utilizzando la lezione di Cicerone, Machiavelli, La Boétie, egli conclude che non siamo propriamente in una dittatura (in Italia si vota, esistono giornali contrapposti a quello del signor B etc), meno che meno siamo in presenza di totalitarismo o dinastie di tipo asiatico. Il potere di B. secondo lui è totalmente legittimo (su questo, anche restando alle mere procedure come si sforza di fare lo studioso di stanza in America, non sarei così sicuro, visto il modo in cui B. ha aggirato la legge del ’57 sull’ineleggibilità dei concessionari pubblici che avrebbe dovuto impedirne la stessa candidatura – approfitto qui per dire una cosa che penso da sempre: la Lega Nord, ossia un partito che si dichiara(va) fuori dello Stato con l’esplicito obiettivo di farne uno a parte, avrebbe dovuto essere messa al bando da subito: la sua lotta avrebbe dovuto condurla, per ovvie ragioni politiche, fuori dal parlamento, ne fosse stata capace, manu militari)
La cifra vera del nostro presente per Viroli sarebbe il sistema di corte, quello in cui un uomo solo o una stretta oligarchia si circondano di una moltutidine di servi. In questo sistema gli uomini e le donne sarebbero formalmente liberi; tuttavia, un elemento caratteristico della corte, il potere enorme di chi lo possiede, finisce per renderlo arbitrario (qui Viroli non sembra sicurissimo e tende a oscillare da un formalismo teorico-costituzionale all’ovvietà del buon senso che ci squaderna ogni giorno exempla di un dominio più indiscreto dello stesso fascismo – si veda il neurolinguista George Lakoff e il suo Pensiero politico e scienza della mente, con i suoi concetti di frame e inconscio cognitivo che dimostrano come una visione del mondo possa costituirsi molto in profondità nelle nostre menti, specie se c’è qualcuno che può decidere per noi il racconto di riferimento: nessuno al mondo può farlo meglio delle tv di Berlusconi, non perché sia bravo, ma perché il frescone di Petrolini etc) .
Sosteneva Cicerone che nel sistema di corte si crea dipendenza. E mai come in questo caso, dai mezzi di B. dipendono molto persone che volontariamente servono il padrone, a differenza dello schiavo o del mero suddito che sono costretti a obbedire con la forza.
Torna un pensatore caro al paradiso, La Boétie, che mostrava come l’allargamento del cerchio dei servi (volontari) possa soppiantare numericamente quello di coloro la cui dignità impedisce di accettare un regime così umiliante. Quelli che traggono vantaggio dalla tirannide, e non si fanno scrupoli di meritersala, sono impastati in una mentalità di adulazione, soffrono di un’esibita mancanza di dignità (gli italiani la chiamano furbizia), di una marcata ossessione per l’apparenza. Questa poca stima di sé degli italiani, esemplata dice Viroli nella figura di Arlecchino il quale presume di non saper fare niente e quindi trova normale il servire, era stata a suo tempo decodificata in un testo che non casualmente la scuola italiana ha ignorato per almeno un secolo e mezzo (ma anche oggi non è che le nostre professoresse ci vadano a nozze…): parlo del Discorso di Leopardi sugli italiani.
B. replica un modello in qualche modo presente nel Quattrocento, quello dei Medici che costruiscono una corte all’interno della repubblica (ma con forza ben minore, il Magnifico: non le aveva mica le televisioni lui). Un potere così persuasivo casomai ha potuto vantarlo la corte vaticana del ‘500 o del ‘600, un modello che ha portato alla perfezione lo stile del cortigiano: parlare com simulazione, intuire quello che vuole il signore prima che egli lo dica… La paura domina sovrana dalle parti della servitù. E se parli loro di fierezza morale, be’, ti ridono in faccia. Se B. dovesse fare il grande passo, quello di togliersi dai coglioni, a maggior ragione se gli concedessimo pacificamente di farla franca, non potremmo obbligarlo a portarsi con sé, nelle sue isole, qualche milione di italiani?




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