29 ago 2011

Sherwood Anderson


Il romanzo perduto

Mattioli 1885

copertina del libro
Il volumetto che Mattioli 1885 ha fabbricato con le cinque piccole prose dello scrittore americano Sherwood Anderson e la cura di Cecilia Mutti è un vero affare - un ottimo affare. Per i più pigri: consta di settanta paginette, si legge in un’ora. Per gli aspiranti scrittori meno abbienti che buttano i soldi nelle scuole di scrittura creativa: costa solo 10,90 euro. Per i più svegli: sono poche parole ma di una saggezza necessaria (sull’arte della scrittura con qualche liminare, intuitivo suggerimento sulla vita tout court). Divertenti peraltro; o lievemente drammatiche. 
Il giovin scrittore povero in canna che passa il tempo leggendo ovunque e qualsiasi cosa purché modaiola e preferibilmente su facebook senza mai avvicinarsi davvero a un qualche punto essenziale della scrittura – ecco, questo umano votato alla disperazione pigra dei nostri giorni legga i tre raccontini e i due articoli dell’autore di Winesburg, Ohio, sparsi qua e là fra il 1927 e il 1940: corre il rischio di andarsene a dormire con un senso di pienezza sconosciuto. Forse si sentirà meno figo del sodale che esce da certe scuole di scrittura creativa nostrane ottime per rimorchiare e morta lì, ma avrà avuto modo, prima di un qualsiasi repertorio di dritte tecniche, di farsi un idea su piccole cose di dubbio gusto come la felicità, l’opportunità o meno per uno scrittore di farsi una famiglia, il tormento che può procurare l’ambizione frustrata dell’artista che per scarso talento o fortuna o determinazione non ce la farà mai.
Nel racconto eponimo, 'Il romanzo perduto', il giovane non ancora TQ quindi dal futuro assai incerto, scoprirà che v’è una fragilità si direbbe ontologica dello scrivere, si tratti di un autore non sicurissimo di esserlo, si tratti dello scrittore di valore: all’arte dello scrivere resta sempre “un qualcosa” che qualsiasi romanziere sa potrebbe non raggiungere mai. Scoprirà che una famiglia potrebbe essere un problema, per uno scrittore, perché la scrittura ha bisogno di solitudine; che talvolta uno scrittore può persino voler bene ai propri figlioli rischiando però di restare intimamente lontano da loro salvo poi pentirsene e scrivere proprio del dramma che egli stesso ha creato. Nel secondo racconto, constaterà che purtroppo gli scrittori della domenica esistono, non solo perché improvvisati e velleitari, ma perché si è poveri disgraziati da chop-suey: che i bisogni e le asprezze della vita materiale possono troncare sul nascere un talento privo di sufficienti possibilità. Può scoprire – lezione che per il giovane aspirante prima arriva meglio è - che un artista può esser mosso da una nobile ambizione (il pittore tedesco del racconto vorrebbe solo restituire la bellezza della campagna americana: “nel granturco che cresceva stava la vera poesia americana”) ma non esserne all’altezza: e lì lo scacco può far molto male. 
Peraltro, lo scrittore bello e fatto – ma questo il nostro giovane aspirante ha avuto modo di scoprirlo frequentando i corsi di cui sopra, o gli innumerevoli festival che risparmiano la fatica della lettura, o imbucandosi nei party delle case editrici – è spesso un tipo da avvicinare tenendo a mente un piccolo ma indispensabile galateo: non gli parlate di denaro, a uno scrittore: si secca, si angustia. Non complimentatevi con lui nella stessa occasione in cui blandite la vanità di un altro. Ricordate che è un ipersensibile: non gli domandate quali sono gli scrittori più grandi (Anderson parlava da americano agli americani riferendosi a scrittoti americani – trasferite tutto in Italia…). Ditegli che non capite tutto ciò che scrive ma che avete la netta sensazione che nei suoi libri vi siano una potenza, una bellezza rara… 
Tutto questo il giovin scrittore, l’aspirante, ma anche i TQ volendo, e qualche lettore più attempato, possono apprenderlo godendosi pochi tocchi calibrati a mestiere, è il caso di dire, e un tono sapiente, che non lascia trasparire il minimo sforzo artigianale: Anderson davvero ci consegna una lezione di stile da rileggersi ogni tanto per capire di cosa parliamo quando parliamo di scrittura e di scrittori. Per esempio (si leggano gli 'Appunti sul realismo') che letteratura e giornalismo sono due cose diverse, che la prima non è mera cronaca o rappresentazione della realtà (nessuno sa cosa sia la realtà, ribadisce il narratore americano) ma fuoco dell’immaginazione. E che se la vita di uno scrittore è dura, l’esercizio rigoroso cui è sottoposta può anche essere la sua salvezza. Perché consiste, essenzialmente, in un modo di cambiare segno (senso?) a ciò che gli accade. Ne deriva che la tecnica è un fatto esistenziale – ma questo l’aspirante dovrebbe già saperlo, a meno di non tenere le proprie ambizioni nel posto sbagliato.

23 ago 2011

Altra musica


Jan Brokken

Nella casa del pianista

Iperborea, paradiso, stiamo lì


copertina del libro
Non vorrei sembrare senza cuore, ma se volessimo trovare qualcosa che non funziona appieno nel romanzo, o biografia romanzata di Jan Brokken, Nella casa del pianista, riguarda proprio il personaggio che ne è protagonista e ispiratore: l’enfant prodige del pianismo russo, anzi sovietico, Youri Egorov. Uno caro agli dei, che ebbe vita breve (1954-1987), complicata più che dalla dissidenza politica stricto sensu, dall’omosessualità per la quale all’epoca in Unione Sovietica si pagavano anni di regime siberiano (e non doveva essere uno scherzo, visto che gli omosessuali erano invisi agli altri prigionieri più ancora che ai carcerieri, con conseguenze non difficili da immaginare). Ovviamente tutto questo Egorov lo sapeva benissimo, ne fu terrorizzato e decise di fuggire. Peraltro, si tratta di un personaggio (questo il punto di cui all’inizio) che non manca di esibire tratti a volte melliflui, la cui sensibilità esacerbata non è tralasciata nel racconto di Brokken (scrittore di viaggi, eterosessuale, lo diciamo per non ingenerare equivoci), che pure ha scritto un omaggio fervido e appassionato all’arte del pianista. 
Il quale fu costretto alla fuga paradossalmente anche dalla madre con la quale scontava un rapporto parrebbe un po’ morboso: lei lo amava di un amore così possessivo da indurla a denunciarlo al kgb se ve ne fosse stato bisogno pur di non vederlo partire. Era stato un amico – il solo cui aveva confessato le sue inclinazioni - a metterlo nei guai, raccontando di lui in giro (inutile dire, il classico stronzo che non dispone del tuo talento e non ha nessuna intenzione di perdonartelo). 
Così, dopo un breve e tormentatissimo passaggio per l’Italia, il pianista se ne andò in Olanda, dove conobbe Brokken, divenne suo grande amico, e trovò il coraggio di rendere pubblica la propria omosessualità. Il movimento omosessuale lo tenne da conto negli anni '80 come un simbolo, la morte per Aids all’epoca poteva essere il destino con cui si disegnava la storia esemplare di un’artista. Brokken ha saccheggiato i diari dell’amico, le sue lettere (glieli lasciò lo stesso musicista), ha utilizzato le conversazioni e le confessioni di anni e ha ricostruito quella che egli stesso definisce una storia non di finzione. Dalla quale ogni lettore può ricavare personali motivi di interesse. Gli appassionati di musica vi troveranno motivi di discettazione su questo o quel musicista, questa o quell’altra concezione interpretativa (ma Egorov non apparteneva al genere del pianista intellettuale, filologico); i lettori più sentimentali la storia di un’amicizia, quella che legò Egorov a Brokken; i più sensibili al côté narrativo, va da sé, la storia di una vita difficile, avventurosa anche suo malgrado, in cui dell’artista è mostrato il lavoro sublime come i cascami psicologici, i vezzi, le ossessioni. Però Nella casa del pianista è anche una specola particolare da cui osservare il paesaggio storico di un tempo che sembra lontanissimo dal nostro e per certe logiche poco artistiche non lo è: basti pensare che persino un concorso pianistico internazionale finiva per soggiacere alle logiche amico-nemico della guerra fredda. In un concorso a Fort Worth, in Texas, il pubblico protestò aspramente contro la giuria che impedì a Egorov con un giudizio “politico” (questa l’opinione generale) di accedere alla finale. Da Bartòk a Sostakovic, in un modo o nell’altro, già grandi musicisti che prima di lui dall’Est comunista ebbero qualcosa a che spartire con l’America, fecero fortuna o la fame, a seconda di come buttava l’opportunismo delle diplomazie.

22 ago 2011

L’Italia e i suoi padroni

Un articolo di quasi un anno fa, sempre dalle parti degli orchi

- vale la pena ricordarle certe cose



di Michele Lupo


Copertina
Dall’editore Aliberti arrivano di recente libri sulle malagevoli faccende dell’Italia presente, specie quella politica. Mi riferisco al lavoro della giornalista Elena G. Polidori, Berlusconi e la fabbrica del popolo, sulla grande macchina televisiva che ha trasformato l’Italia degli ultimi decenni, e a una biografia feroce di Umberto Bossi a opera di un ex militante leghista e giornalista della “Padania”, Leonardo Facco (Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania). 
Se nel primo è mostrata un’aneddotica ricca e particolareggiata di interventi legati al giornalismo e all’intrattenimento (complimenti a chi riesce a distinguerli, innanizitutto), volti a modificare alla base il modo di pensare dell’homo italicus – che mai ha brillato per coscienza civile e democratica, bisogno di informarsi e partecipazione alla cosa pubblica se non per fotterla – nel secondo, non senza qualche sconcerto del lettore, Facco ci descrive la parabola del Bossi partendo da un assunto incredibile. Scrive infatti che solo a un certo punto egli ha cominciato a vedere nel leader del suo ex partito un tiranno che ne dispone(va) a suo piacimento. E prima? Mah.
Ne vien fuori a ogni modo il ritratto di un uomo capace di qualsiasi manovra e menzogna per controllarlo secondo i principi di una monarchia assoluta – o di un’azienda privata, visto che, emerge anche dal libro della Polidori, è chiaro che mai come oggi da noi il potere politico non rappresenta gli interessi mediati di quello economico ma coincide con essi.
Un “cialtrone”, Facco definisce il capo della Lega.
I capitoli in cui è diviso il libro enumerano una serie di falle, flop e voltafaccia che descrivono la storia politica di Bossi. Da una “Trota" da sistemare a diecimila euro al mese, scorrendo a ritroso le contraddizioni in materia di famiglia, al rapporto schizofrenico con la Chiesa di Roma (volta per volta proponendosi la Lega Nord come baluardo dei valori del cattolicesimo che non di rado ha fatto vestire a qualche militante esaltato i panni del Crociato fondamentalista o, viceversa, esibendosi quale partito di avversari duri e puri del potere vaticano in territorio italiano), dal razzismo che a detta dell’autore prima non era una caratteristica fondante (mah…), alle lottizzazioni di stampo democristiano, "la vera storia dell'imperatore della Padania" diventa una carrellata di tradimenti in cui l’”imperatore” si sarebbe rimangiato il giacobinismo, il secessionismo, il liberismo e tutte le altre parole d’ordine che gli erano servite a suo tempo per conquistare il consenso di qualche milione di persone. Ed è questo che più sembra bruciare all’autore del libro.
“Bossi – dice Flacco – è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni dei militanti e dei simpatizzanti”. L’interesse esclusivo di Bossi per il proprio potere insomma avrebbe sottratto alla Lega l’ipotetica spinta ideale degli inizi senza peraltro assicurargli tutti i vantaggi materiali del caso. “Umberto Bossi, considerato un grande stratega, tra i maggiori protagonisti della politica nazionale, amato e odiato come tutti i personaggi importanti della società, per molti leghisti è diventato un mito, ma per gli affari non è tagliato: tutte le idee elaborate da lui, all'atto della realizzazione si sono tramutate in fallimenti, con perdite di denaro non solo per il partito, ma anche di chi in buona fede gli ha creduto” (che gli italiani si scelgano certi miti è sconfortante, no? Poi cosa pretendiamo dalla letteratura, miracoli? ancora?)
Un potere che sì è infiltrato anche nelle televisioni, la stessa Rai molto vituperata, per lo spazio che ha potuto concedergli Berlusconi, la cui corte è ovviamente più vasta (il Paese, più o meno). Sulla sua fabbrica “culturale” di giornalisti, attori, “ballerine”, registi, calciatori, ha costruito il potere che sappiamo e puntigliosamente descrive la giornalista Elena G. Polidori inBerlusconi e la fabbrica del popolo dello stesso editore. Prima ancora che il porcello di Arcore introducesse la strabiliante variante ai propositi minacciosi del duce di Predappio, in virtù della quale il parlamento veniva trasformato nell’odierno “bivacco di manipoli e mignotte” aveva lavorato alle strutture profonde del cittadino trasformato in telespettatore (cervelli ridotti a cavee di spappolate inservibili poltiglie). Per descrivere il libro valgano le parole di Peter Gomez nella prefazione: “Polidori ci racconta, e dimostra, come negli ultimi dieci anni la televisione sia stata scientificamente utilizzata per tentare di costruire una nuova coscienza collettiva sempre più al servizio di un'unica opinione. E come per raggiungere questo obiettivo non si sia puntato solo sull'informazione, ma (soprattutto) sulle fiction e l'entertainment. [...] Per un'ampia fetta di cittadini il modello del tronista e della velina è risultato vincente. A furia di reality show, in molti si sono convinti che nella vita sia davvero possibile avere successo senza saper dare niente. Non serve saper ballare, saper cantare, aver studiato recitazione o dizione: per andare avanti basta bucare il video e, semmai, sotto le lenzuola fare qualcos'altro. E quei molti, come è ovvio e giusto, votano.” Ovvio e giusto?

20 ago 2011

Il Cammino parallelo

GUSTAV MAHLER, RICHARD STRAUSS


UN CARTEGGIO

Due musicisti molto diversi, Gustav Mahler, Richard Strass, un’amicizia non semplice in un momento storico complicatissimo, l’equilibrio di un carteggio che tiene per diversi anni e una storiografia che ci ha abituato a vedere nei due i poli opposti di un certo progressismo culturale e linguistico da una parte e di una totale indifferenza a un’idea lineare della storia  (indifferenza politica tradotta in una carriera artistica atipica) dall’altra.
Poi i paradigmi sono mutati. E si è giunti a una nuova “maniera” interpretativa che a forza di scompaginare le carte lascia i semplici lettori - ascoltatori disorientati. Tanto che se non lo avessimo seguito negli anni e non ne sapessimo la coraggiosa ma robusta spregiudicatezza di studioso (il suo amore per l’Operetta in tempi non facilissimi per generi così “disimpegnati”), sarebbe forte la tentazione di vedere per esempio nella rivalutazione di alcuni musicisti a opera dello storico e critico musicale Mario Bortolotto un segno del suo capriccioso e accanito desiderio di marcare un territorio un po’ stucchevole, quello del bastian contrario che fa della leggerezza inaudita  un principio di valore così martellante da diventare pesante (e ometto, perché non sarebbe questa la sede, di rilevare certe imbarazzanti prese di posizione politiche). La critica ai francofortesi (espressione un po’ ridondante quando tutti per anni hanno pensato un nome solo, quello di Adorno) ora appare un po’ stanca e risaputa a forza di “rivalutare” qualsiasi marginale intrattenitore come un genio misconosciuto solo perché l’ideologia dall’engagement ha forzato la cultura europea, compresa quella musicale, per molti decenni.
Nel caso di Richard Strauss la caratura è ovviamente diversa ma se abbiamo accennato a Bortolotto è perché si deve a lui un libro di qualche anno fa che lo inserisce a pieno titolo nel novero dei grandissimi. E ribalta il vecchio giudizio adorniano sull’autore dell’Elektra come un fanatico della Germania guglielmina, un uomo e un artista a suo agio nel proprio cattivissimo tempo, al contrario di Mahler, cui una certa consolidata storiografia attribuiva il merito di aver tracciato le linee di un linguaggio musicale che avrebbe poi portato alle avanguardie.
Insomma, sullo stesso versante musicale (l’unico che conti) il conflitto fra i due musicisti non va più visto in una dialettica conservazione-progressismo, non solo o tanto perché lo schema degli opposti non convince più gli storici ma perché in Strauss l’invenzione musicale appare più ricca e proteiforme di quanto non volesse la stessa vecchia vulgata.
Certo, l’artificio in lui la fa da padrone. Mi pare concorde il giudizio di Nicola Montenz, studioso e narratore che introduce il piccolo libro Archinto, l’epistolario fra Strauss e Mahler. Il discrimine significativo per Montenz sta nella questione, ineludibile, della morte: ombra quotidiana, assillante, e cifra “romantica” sottesa all’opera in Mahler, insorgenza ambigua e paradossalmente vitalissima in Strass, teatralmente proteso a farne una danza orgiastica in un tentativo virulento di congiungerla all’eros dionisiaco.
Mondi comunque lontani, di sicuro più tormentato quello mahleriano, più tronfio e spettacolare quello di Strauss, più rigoroso anche per i contesti a margine della musica il primo, più egotico e roboante il secondo, sensibilissimo alle ragioni del portafoglio: se questo è pacifico, più interessante diventa guardare dentro l’effettiva comunicazione fra i due. Il carteggio coinvolge aspetti musicali diversi, dalle considerazioni su questo o quel musicista, questo o quel cantante, questo o quel lavoro da mandare in scena. I due sono attenti e consapevoli delle loro differenze, rispettosi, schietti nei giudizi ma di solito misurati; riservano appellativi più coloriti agli altri e non smettono di manifestarsi stima reciproca. Di Mahler si dice che in realtà non sapesse bene come intenderlo, Strauss. Molte testimonianze non sembrano garantire una stima incondizionata. Nel complesso, il mondo di Strauss gli era estraneo, ma era un uomo che onestamente riconosceva il genio musicale se e quando lo incontrava. Il che significa anche che gli perdonava la prosa facilmente incline a concludersi in un punto esclamativo. A perdonargli di essere Strass, insomma, uno che non poteva racchiudere in un giudizio definitivo, pacifico. Mahler non era fatto per la pace, quella interiore s’intende. L’altro, semplicemente, si faceva meno problemi. Amen.


18 ago 2011

Cumshort 1 - L'orca nella rete

MICHELE LUPO: cumshort 1: L'orca nella rete è il mio racconto. Ve ne sono altri nove, in questa antologia erotica, Cumshort, e-book della casa editrice caratterimobi...

si compra qui e a breve su ibs o lafeltrinelli.it shttp://www.flows.tv/store/books/content/43|54f9c3d3317a2067013184466fc10001

17 ago 2011

Franz Wedekind - Fuochi d’artificio


dal paradiso

copertina del libro
“La carne ha un suo proprio spirito”, a questo principio si ispira, stando alle stesse parole dell’autore, l’arte di Franz Wedekind, scrittore e drammaturgo nato a Hannover nel 1864 e morto in Baviera nel 1918. Le scriveva nel saggio A proposito dell’erotismo che introduce la raccolta di racconti Fuochi d’artificio, leggibile in una nuova edizione curata da Claudio Maria Messina per l’editore Iacobelli. Sono nove racconti che non hanno la forza dirompente del dittico Lo spirito della terra (1895) e Il vaso di Pandora (1904), lavori teatrali fondamentali che segnarono il passaggio di secolo – un vero passaggio d’epoca – fra Otto e Novecento, il cui personaggio centrale, Lulù (donna dal fascino sinistro, vera femme fatale declinata al nero, che sarà lo stigma tragico degli uomini che commetteranno l’errore irrimediabile di innamorarsi di lei) sarà destinata a diventare un’icona fra le maggiori dell’immaginario erotico mitteleuropeo, non casualmente recuperate da due artisti decisivi nelle arti rispettive, l’Alban Berg della nuova scena musicale austriaca, e G.W. Pabst che fece della bellissima Louise Brooks una star – silente e magnetica – del cinema mondiale.
I racconti apparvero nel 1906 e sono una dimostrazione - di qualità altalenante - della convinzione espressa dal battagliero scrittore di rompere gli schemi dell’ipocrita moralismo bacchettone della cadente borghesia coeva (quella che difatti, non potendone più di se stessa procederà di gran carriera verso la catastrofe della Grande Guerra); Wedekind – e tutto questo oggi, a mezzo secolo dall’invenzione del rock and roll e della beat generation, ai giovani che poco hanno studiato potrebbe apparire cosa da poco – dovette combattere contro la censura, fu ritenuto scandaloso per il suo invito a liberare la sessualità da secoli di oppressione innanzitutto linguistica. Perché l’aspetto interessante di questi racconti – a parte certa fulminante secchezza vitrea della prosa, la definitezza compiuta della frase, il ritmo accorto impresso dalla traduzione – è, più che la pirotecnica messinscena di fatti e gesti, che invece è presente in misura contenuta, la possibilità stessa dei “dire”, del “raccontare”. Si scopre così, leggendo l’introduzione, quanto, nonostante la forza nel condannare l’ipocrisia borghese e la virulenza apologetica di una morale che della carne sia rispettosa (sono del resto gli anni di Freud, Schnitzler, delle prime avanguardie che consapevolmente o no assumono la lezione nietzscheana della “grande ragione del corpo”), in fondo l’assunto di Wedekind sia ragionevole e persino didascalico: il suo è un invito a parlare del sesso e a non nasconderlo, a legittimarlo come ambito discorsivo fra altri, ad assecondare l’istinto ma prima ancora a concedergli lo spazio che gli compete nella narrazione delle vicende umane. Difatti, ogni racconto presenta un narratore che si rivolge a un ascoltatore: questo a mio avviso non è secondario, prima ancora del contenuto. Come insegna Leopardi, il primo problema è dire, non fare. Quindi il vero nemico è il rimosso della voce, scritta o orale: ché il sesso viene praticato ma nascosto, sembra esistere solo come una necessità biologica da tenere rigorosamente a porta chiusa, come il defecare. Da qui, l’enorme bagaglio di superstizioni, dice Wedekind, che lo accompagna. Le società che opprimono il desiderio prima di tutto opprimono la lingua e la chiudono dentro codici comunicativi che sono dispositivi di rimozione, di sanzione, di censura. Un enorme rimosso che umilia le relazioni umane - la barzelletta oscena rappresentando un insulto alla sessualità, la spia di una mancata salute al riguardo. Era un pedagogo illuminato, Wedekind, oggi possiamo dirlo.

finis Italiae

Sacconi di merda si depositano sul mondo del lavoro...

13 ago 2011

triste y final

Farsi "curare" da Tremonti e compagnia, è come farsi pisciare sulla tomba dal proprio killer

11 ago 2011

Italiani - e il solito occhio sulla servitù volontaria

Se fossi ricco, troverei pure da ridere sui milioni di italiani coglioni che ora si beccheranno pure la medicina dei Tremonti per curare il tumore inflitto dai Tremonti... se fossi ricco, appunto

9 ago 2011

Victor Klemperer LTI – La lingua del Terzo Reich



copertina del libro
Imperdibile, lo diciamo subito per chi non lo conoscesse. Ci riferiamo all’edizione aggiornata e in versione più ampia di LTI – La lingua del terzo Reich, (Il Taccuino di un filologo), testo capitale del ‘900. L’autore, Victor Klemperer, era un filologo tedesco di origini ebraiche, convertitosi al protestantesimo, che durante il nazismo salvò la pelle grazie al fatto di essere sposato con una donna tedesca, ossia, secondo le farneticazioni in auge ai bei tempi, un’ariana.Successivamente alla pubblicazione del libro, nel 1947, Klemperer passò al comunismo di Stalin, che gli avrebbe certo offerto altrettanti motivi di riflessione, ma lo studioso non dimostrò la stessa lucidità, cosa che non inficia minimamente il lavoro straordinario qui contenuto. Si tratta di un libro che mostra in una insolita forma ibrida che tiene insieme l’analisi linguistica - filologica appunto, seppur non esente da un’impronta idealistica tutta interna alla cultura tedesca – e la cronaca diaristica di quegli anni. Victor Klemperer analizza parole ricorrenti del vocabolario nazista, paradigmi concettuali, officine morfologiche, distorsioni semantiche, l’uso del superlativo e quello particolarmente infame delle virgolette, interi discorsi, insomma in una parola la lingua del nazismo come laboratorio prima e ambiente “totale e chiuso in se stesso” fino agli anni che porteranno alla seconda guerra mondiale. Studio fondamentale, “Lingua Tertii Imperii”, per capire come un regime orienti e determini attraverso le parole il “sapere” o il “pre-sapere” di un intera nazione, lo de-costruisca, lo modifichi e modelli a suo piacimento. Il sapere e il sentire, anzi, che forse mai come in Hitler debbono confluire in un unico, vischioso impasto mortale. Un organismo che utilizzava la lingua in un certo senso per azzerarla, per svuotarla della sua forza critica e immaginativa e viceversa ridurre i tedeschi alla volontà del capo.L’acribia di questo studio ‘cronachistico’, cui l’autore accompagnava osservazioni inerenti codici non necessariamente verbali della comunicazione hitleriana e altre note sparse, lo aiutò a superare le difficoltà che la sua vita dovette sostenere. Gli era stato sottratto il lavoro e la stella gialla lo additava come reo al resto dei tedeschi, così questo strano tipo di diario, nel quale l’analisi non aspira alla sistematizzazione tipica delle procedure che si vogliono a tutti gli effetti “scientifiche”, lo teneva fermo e ancorato a qualcosa di tangibile. Il suo era un lavoro, scriveva, di “autoconservazione”: un esercizio apotropaico della lingua e del pensiero che puntava a tenere a bada il veleno inoculato dalla retorica nazista. Una difesa solitaria e “sul campo” contro una macchina da guerra micidiale - a prescindere dai risultati, un’operazione geniale.Ma conta ciò che resta al lettore. Vero che come viene detto in una nota alla fine, gli viene richiesta una buona conoscenza della cultura europea, di quella francese dell’illuminismo per esempio, ma rovescerei la prospettiva e direi che la lettura del libro è un’ottima occasione non tanto per riandare al nazismo quanto per riflettere sui presupposti linguistici che sono sempre e senza eccezioni alla base dei principali sistemi politici. Molto si potrebbe imparare sui nostri tempi presenti, c’è da dirlo?

5 ago 2011

Christos Tsiolkas - Lo schiaffo - Neri Pozza


su LANKELOT.EU
Autore: 
Tsiolkas Christos
Temi storie nuclei sociali ed esistenziali che sono al centro della vita d’Occidente, quella che si vuole più aggiornata, meno chiusa in se stessa, interculturale più per necessità che per convinzione – nello specifico, Melbourne, Australia: nativi da più generazioni pochi, immigrati o loro figli - molti, dimentichi delle origini ma ignari del futuro, come tutti: dall’India, dalla Grecia, dalla Serbia, e persino aborigeni convertiti all’Islam. Fra le pastoie del politically correct e l’imbecillità new age, il disorientamento della cultura liberal progressista giunge al capitolo finale in cui veleni e bubboni e recriminazioni tra amici, familiari, mogli e mariti e amanti esplodono e crollano tutt’assieme. Ne Lo Schiaffo che dà il titolo al sapido romanzo di Christos Tsiolkas (bella traduzione di Marco Rossari), schiaffo dato da un uomo che non è il massimo dell’eleganza ma non è nemmeno un tamarro peggiore della media, a un bambino di tre anni straordinariamente insopportabile, che ciuccia ancora dalle tette materne e viene trattato con tutti i crismi di una maternità new age puerile, inconsistente e perciò potenzialmente – classico caso da eterogenesi dei fini  - fascista (destinata cioè nel suo anarchismo velleitario a crescere figli che saranno del tutto ineducati alle regole del vivere comune, insomma un caso da manuale del come si fabbrica inconsapevolmente un fascista in casa) – in quello schiaffo v’è il precipitato della crisi di senso di questi anni.
Non è niente affatto vero come ha scritto qualche recensore nostrano che il titolo è occasionale, e l’episodio marginale nell’economia del libro. Vero proprio il contrario: quello che sarebbe stato fino a trent’anni fa un gesto poco commendevole, violento, brutto quanto si vuole ma non un casus belli da rappresentare al mondo (in forza di tribunali o becere trasmissioni televisive pronte a fabbricare mostri), nel caos impregnato di violenta stupidità che oggi sembra superare i confini di Berlusconia, non pago di essere spropositatamente drammatizzato rispetto al suo peso ‘oggettivo’, diventa emblematico di un mondo collassato, profondamente instupidito, nel quale un’acredine goffa infila i suoi protagonisti in un buco nero senza vie d’uscita - uno per uno. L’aggressiva discordia di questo multiforme specimen sociale, l’incapacità di ridimensionare un gesto certo censurabile ma vissuto come se dalla sua valutazione dipendessero le sorti del mondo, ecco, se da una parte mettono in moto una serie di conseguenze che costruiscono la nerissima commedia del libro, dall’altro rappresentano una spia della crisi filosofica e morale che dilania l’Occidente da Parigi a Melbourne.
Tutto questo non farebbe del romanzo di Tsiolkas un libro da leggere a tutti i costi, se non fosse che la dirompente conflittualità di visioni della vita contrastanti, è raccontata tutta in situazione. Le riflessioni dei personaggi s’insinuano nelle loro azioni senza mai appesantirle – la voce narrante  dà una lezione precisa di cosa voglia dire sparire e far parlare le scene in sé. E queste scene – sorvolando sulle solite parentele attribuite a sproposito con gli immancabili Roth e De Lillo – hanno tutto quello che chiediamo a un buon romanzo: personaggi vivi, carne, sangue e respiro. Ossia messinscena di corpi che si muovono in cerca di un senso nella vita che non trovano ma lo fanno mangiando (lo schiaffo viene mollato in un barbecue nel quale si è commesso il fatale ma inevitabile errore nella società multirazziale di invitare persone troppo diverse fra loro che non sempre riescono a tenere a freno reciproche diffidenze); lo fanno scopando (moltissimo qui, e il sesso, seppure alla fin fine ben poco gioioso, è un motore non di secondo piano nel mettere in circolo piaceri e tormenti e casini dei protagonisti); litigando e mandandosi a quel paese, parecchio, tradendosi, ordendo macchine vendicative smisurate per riparare i torti subiti, come se la vita non fosse altro che il luogo di una battaglia in cui lasciare la pelle il più tardi possibile. Bei dialoghi, ottimo ritmo, senso della scena e tenuta narrativa. Certo, divertente, se non si è troppo sentimentali. 

2 ago 2011

Bologna 1980 - Genova 2011



Dieci anni dalla mattanza di Genova.

di Michele Lupo


Copertina
Dieci anni dalla mattanza di Genova. Che inizia prima dei fatti ignobili della scuola Diaz e di Bolzaneto, con i blindati che si abbattono a velocità folle su singoli manifestanti mettendo in conto anche di farli fuori al momento (ci sono in giro immagini che parlano chiaro), pacifici manifestanti presi a legnate e calci in faccia e fatti sanguinare per la strada, la farsa dei “black blok” (questa ridicola ma a quanto pare efficace invenzione narrativa della comunicazione dei governi internazionali) che non vengono mai caricati, e i manganelli illegali (ce ne sarebbero di legali, pare) e la tragedia di Carlo Giuliani… 
Consiglierei intanto di leggere Diaz – Processo Alla Polizia, del giornalista Alessandro Mantovani (l’editore è Fandango). Una documentazione ineccepibile sui fatti concernenti l’irruzione della polizia durante la notte di sabato 21 luglio nella scuola Diaz. Con la ridicola motivazione “ufficiale” di una perquisizione a caccia di black block (l’uomo nero che terrorizza i bambini a uso e consumo di una narrazione del mondo terra terra di buoni vs cattivi e bene vs male che la destra reazionaria americana ben prima di Bush junior – un semifermo di mente utilizzato alla bisogna – e il capitalismo finanziario globale hanno prodotto e venduto al mondo con disinvolta efficienza), insomma raccontando al Paese e all’informazione mondiale l’oscena balla di una caccia a pericolosi terroristi sovversivi, ex celerini e Digos prelevarono e pestarono a sangue un centinaio di persone.
Dopo duecento udienze e sessantamila pagine di atti, nessuno dei responsabili di questi esemplari custodi della legge è finito in carcere nonostante la doppia condanna e l’attesa del verdetto della Cassazione; molti anzi hanno fatto carriera (l’elenco di queste biografie esemplari - delle quali possiamo solo sperare che ci verranno risparmiate i postumi omaggi di nomi di strade e piazze – lo troviamo in appendice al libro di Mantovani), sono stati coccolati dai politici (quasi tutti, ricordiamo che Di Pietro nell’ultimo governo Prodi si oppose all’istituzione di una commissione d’indagine riguardante i fatti di quell’orribile estate).
Scrisse poco tempo dopo le immonde sequenze della “macelleria messicana” un moderato come Umberto Eco che la polizia italiana si era giocato in quei giorni il poco credito che aveva faticosamente guadagnato nel ventennio precedente (grosso modo) a fronte di una storia precedente infelice almeno a partire dagli operai uccisi a Reggio Emilia nel 1960 e passando (saltando per motivi di spazio) per i fatti di Avola, le morti di Pinelli, Serantini, Giorgiana Masi.
Chissà se tutte le serie di telefilm dedicate a poliziotti e carabinieri che Rai e Mediaset hanno propinato ogni inverno per rassicurare questo paese di creduloni sentimentali sulla “bontà” delle sedicenti forze dell’ordine sono riuscite nel loro intento. Ho i miei dubbi, visto che fino alle ultime vicende anti-Tav, quelli veri di poliziotti hanno fatto di tutto per non smentire l’inclinazione al manganello (ostentato persino come minaccia da “far salire su per il culo” - testuale, poi ancora ci si chiede perché ai poliziotti gli si dà dei fascisti di merda anche quando non lo sono) esibita a Genova dieci anni fa. Forse hanno rinunciato agli inni al duce e a Pinochet, ma non a sfondare le facce contro i muri, a costringere la gente a pisciarsi addosso dalla paura.
Da Fandango peraltro c’è alle viste un film: Diaz. Don’t clean up that blood, per la regia di Daniele Vicari, prodotto ovviamente con grandi, immaginabilissime difficoltà. E in un paese civile si dovrebbe invece immaginare il contrario.
C’è poi, di questi giorni, il dvd SoloLimoni, della Shake Edizioni (con annesso libriccino e brevi testi di scrittori e poeti italiani che avremmo letto se fosse stato stampato con un corpo leggibile… fuori argomento – ma siamo una rivista letteraria – vorremmo ricordare alla piccola e quando meritevole editoria italiana che la precaria leggibilità dei testi non può essere il prezzo da pagare alle difficoltà economiche). Un video peraltro dalle indubbie ambizioni formali (dal montaggio che chiede allo spettatore di ‘partecipare’ alla costruzione del senso, alle voci recitanti di Giacomo Verde e Lello Voce, curatori del lavoro e autori dei testi, in aggiunta ad altri di Cervantes o Brecht o Pagliarani - alla musica di Mauro Lupone usata a volte in senso straniante, in altre perfettamente drammatica, ai passaggi dal colore al bianco e nero) e che richiama giocoforza un giudizio anche est-etico. Alcune scene sono completamente inedite, qualcuna inutile e sovraccarica di una certa retorica della “manifestazione”, altre istintivamente poetiche, altre ancora di una potenza commovente, non a caso quando quella retorica viene tenuta a bada e la ripresa si concentra sulle cose e sui volti e li lascia parlare, compresi quelli indicibili dei giovani poliziotti in primo piano. Folgorante la scena (“Il controfagotto”) di un uomo molto anziano che si aggira fra le macerie e le devastazioni, nel pieno centro del terrore poliziesco, incredulo, con una specie di sorriso amaro da vecchio signore che ne ha viste tante ma non quello – il disegno delinquenziale disposto dallo stesso governo criminale, l’attuale, che un popolo degno di questo nome avrebbe dovuto sforzarsi di cacciare (non tramite le “elezioni”, parola che in queste condizioni - quelle che loro hanno determinato, compresa la “legge elettorale”, va da sé - è del tutto priva di significato) con una rivolta civile, tenace e silenziosa, a tempo indeterminato. Nello sguardo stupefatto di quell’uomo anziano c’è lo sgomento di chi vede come nella durissima battaglia che il capitalismo finanziario ha ingaggiato contro il genere umano (non del comunismo, parola ancora usata a sproposito da coloro che avversano qualsiasi idea di benessere che sia pubblico laddove invece o lo è oppure andrebbe chiamato privilegio, violenza persino di cattivo gusto perché lascia al sangue dei poveri la vergogna di spargersi per le strade e a se stessa l’arbitrio di accamparsi in una eleganza abusiva), le “forze dell’ordine”, replicando il triste modello della lotta fra poveri, hanno scelto da quale parte stare. 
Questo è il punto, chi non lo vuol capire la smetta di parlare con sdegno del nazismo, perché il paradigma Norimberga è lo stesso: il principio della scelta e della responsabilità individuale. Anche i soldati nazisti obbedivano agli ordini. Il nodo è questo. I mercati globali che usano le persone come cose sono il fascismo oggi come oggi e non da ieri: nessuno dei politici a vista ha intenzione di combatterli. Hanno provato a farlo semplici cittadini, senza più sponde politiche su cui contare. E hanno preso legnate e qualcosa di più. Fini non ha mai chiarito cosa ci facesse in una caserma dei carabinieri, e va bene (si fa per dire); su Scaiola, il ministro dell’interno di allora che diede ordine di sparare contro chi avesse sfondato la zona rossa, inutile aggiungere alcunché: poi dal prefetto La Barbera passato ai servizi segreti, al questore Colucci divenuto prefetto, al comandante del reparto romano di polizia Centerini promosso questore (la meritocrazia in Italia) si scende fino all’ultimo miserabile che protetto dal suo casco difende con la sua triste busta paga gli interessi di qualcuno che della stessa è responsabile: come lui, il nostro poliziotto, dovrebbe essere responsabile dei comandi cui ha scelto di obbedire. 
Lo sento già il biascichio del lettore che si ritiene realista e smaliziato. La sua disapprovazione. E allora tenetevi Wall Street e Piazza Affari e tutto il resto così com’è, mettetevi un paio di cuffie e godetevi Minzolini.

1 ago 2011

cumshort 1

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