pubblicato su http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/01/05/karl-ove-knausgard-la-mia-lotta-1/#more-43914
La mia
lotta (1), Ponte alle Grazie
La mole è impegnativa ed è solo il primo di sei volumi. Il
titolo, Min Kamp, sinistro. Le ambizioni da leggere fra le righe – in
tutti i sensi. Ha un bel dire Knausgard che non voleva fare letteratura quanto
piuttosto un esercizio (di verità) che avesse insieme il valore di
un’esperienza: raccontare la sua vita, di bambino poi di adolescente, i
difficili rapporti con il padre, i non avvenimenti più banali e quotidiani:
omettendo quei problemi formali senza i quali non si dà arte né letteratura.
Difficile parlare di trama, di plot infatti, sebbene qui non sia in ballo un
qualche tifo per l’intreccio spettacolare o i colpi di scena: è che il rischio
della noia - di cui l’autore in qualche intervista si è dichiarato consapevole
- è lì dietro l’angolino di fine pagina. Volendo (ri)scrivere qualsiasi attimo
della vita che la memoria ti riporta alla mente, ti esponi a quel rischio anche
se ti chiami Proust – soliti paragoni schiocchi di una recensionistica
imbarazzante.
Non che sia privo di talento, lo scrittore norvegese, di
sensibilità psicologica e linguistica - a giudicare dalla traduzione, una
lingua pulita, di educata chiarezza. Anzi, quando si ricorda di essere uno
scrittore e si preoccupa di andare oltre la pedissequa narrazione di qualsiasi
sospiro e deglutizione, il libro si ravviva, trova momenti di gradevole
leggibilità e alcuni anche magistrali. Allora il romanzo (romanzo?) funziona, colpisce la forza calma
e stringente con cui sentimenti e stati d’animo vengono triturati senza pietà.
Colpisce l’ironia che si affaccia all’improvviso. Ed emozionano certi gesti
decisivi anche se marginali: prossemica e cinesica dei personaggi, dicono
molto, più degli aspri dialoghi.
Il racconto muove dalla morte del padre, figura decisiva
per il narratore. La storia del loro rapporto, del narratore bambino con l’uomo
del quale subisce l’attrito freddo e autoritario, assieme alla perizia visiva
di molte descrizioni è la cosa migliore. Knausgard del (al) padre non risparmia
nulla; coraggiosamente confessa quanto orribile sia stato il senso di vergogna
che accompagnava le umiliazioni dell’infanzia - un sentimento peggiore della
paura, lo definisce. La lotta di cui dice il titolo, è una lotta per scrivere,
innanzitutto, lotta con le proprie condizioni di marito, padre a sua volta,
lotta contro il caso che entra nella vita dello scrittore che vorrebbe non
certo la felicità ma solo le condizioni necessarie a scrivere. Il carattere di
sfida agonistica di questa vita si ripropone in un certo senso nel libro:
l’autore ha fatto leggere a tutti i personaggi la storia prima di pubblicarla, senza
omettere i dettagli più imbarazzanti.
Per non fare fiction, Knausgard ha finito con lo scrivere 3000 pagine
(pubblicazione ancora in corso in Norvegia) passando da una cosa all’altra e
seguendo il filo dei ricordi, lavorando sul dettaglio insignificante per
restituire la sua storia in uno specchio che rendesse l’esperienza
intelligibile – epperò, vi sono casi in cui riuscire significa fallire.
Stando alle dichiarazioni, Knausgard avrebbe cercato di
colmare la distanza che separa l’autore come persona in carne e ossa dal
narratore, ma perché questo genere di lettura sia appassionante sino in fondo
bisognerebbe essere il Proust che i recensori hanno tirato in ballo a
sproposito (a mio parere, nel caso specifico non c’è nemmeno la malafede, il
servaggio dei circoletti editoriali: qua Proust non sanno proprio chi è). Del
grandissimo linfatico della Recherche - solo uno dei tre o quattro giganti del
‘900 – non casualmente hanno scritto filosofi, come per Kafka. Quando Knausgard
filosofeggia sull’arte, la vita e la morte invece non brilla per originalità.
Se ci si chiede come mai tutto questo successo a fronte del fatto che Proust
non lo leggono più nemmeno all’università, viene il sospetto che la risposta
stia proprio nella banalizzazione (colta) con cui lo scrittore norvegese
discetta di massimi sistemi. Stima per il talento narrativo, rispetto per le
ambizioni, perplessità per la sproporzione con gli esiti letterari complessivi – o bisognerà attendere la fine
del lavoro? mica uno scherzo, per il lettore dico.