Marilyn Monroe
La mia storia
Donzelli, Pag 221 Euro 19,00
Pensavo che le persone con cui vivevo fossero i miei genitori. Li chiamavo mamma e papà. Un giorno quella donna mi disse – Non chiamarmi mamma. Sei abbastanza grande per sapere come stanno le cose. Non ho nessun legame di parentela con te. Qui sei solo a pensione. Tua madre verrà a trovarti domani. Puoi chiamare lei mamma, se vuoi.
Iniziano così queste “riflessioni autobiografiche” che Marilyn prese a scrivere con lo sceneggiatore Ben Hacht agli inizi del 1954 su incarico dell’agente Charles Feldman: l’intenzione era di corrobare il mito in ascesa di quella meravigliosa fanciulla la cui grazia numinosa e tragica sembra oggi fuori della portata di chiunque. In somma avrebbero voluto farne solo una veloce autobiografia che vendesse quanto i biglietti per vedere i suoi film. Norma Jean Baker si lasciò andare e aprì il vaso dei suoi mali; aiutata dalla scaltra maieutica di Ben Hacht, per due mesi si mise di buzzo buono e rovistò nei ricordi dell’infanzia, e dell’adolescenza soprattutto, un’adolescenza protratta nel tempo – non è la fine del moderno Marilyn? –, non per questo meno inquieta e anzi non priva di episodi violenti. Colpisce fra gli altri lo sguardo esitante sul proprio corpo che presto iniziò ad assestare colpi micidiali ai coetanei, fino a quel momento - aveva tredici anni – del tutto ignari di lei, e alle amiche che smisero subito di esserlo, va da sé. Marilyn ritorna ai timori di una vita di commessa o cameriera che pure guardava in certi momenti con ansia spasmodica per allontanarsi da quella tristezza che le metteva “voglia di morire” – lavorò anche come operaia, la dea. Ve lo immaginate un ossimoro più stridente? oggi soprattutto, che gli operai non solo hanno smesso il ruolo metafisico attribuitogli da Marx ma sono circondati dalla stuccata indifferenza di tutti, intellettuali in primis? oggi che le zoccolette che riempiono lo schermo tv non sanno nemmeno fare un caffè?
E poi, la splendida attrice per niente sicura di sé, che vuole “imparare e imparare”, che ha il terrore di non riuscire, di essere nata sotto una cattiva stella da cui non riuscirà mai a liberarsi; che una volta a Hollywood continua a tormentarsi, non tanto per “l’ambizione o il desiderio di essere ricca e famosa”, quanto per inseguire la “follia” – la definisce così – che le “parlava attraverso i colori: scarlatto, oro, bianco splendente”, i colori che sognava “durante l’infanzia, quando cercavo di nascondermi dal mondo opaco, ostile, nel quale viveva la schiava dell’orfanotrofio Norma Jean”. Qualcuno le disse che avrebbe fatto strada, che sarebbe andata più lontano di Lara Turner. Allora perché non riesco nemmeno a ottenere un lavoro per sfamarmi? domandò lei. La risposta di Johnny Hyde fu sacrosanta: Non è facile per una star ottenere un lavoro solo per sfamarsi. Una star è buona solo come star. Tu non sei adatta a qualcosa di più piccolo.
Bon, tutti sanno tutto su Marilyn, inutile aggiungere aneddotica. Serve invece ricordare che questo piccolo libro dell’editore Donzelli, prefato da Joshua Greene, contiene 47 fotografie, molte delle quali bellissime, di suo padre Milton H. Greene, amico caro della diva, che egli seppe ritrarre da maestro.