1 lug 2011

L'EVOLUZIONE DI BRUNO LITTLEMORE


da Lankelot

BENJAMIN HALE


L'EVOLUZIONE DI BRUNO LITTLEMORE



In patria (gli Usa) il libro è piaciuto molto. Anche a chi scrive. L' evoluzione di Bruno Littlemore - appena uscito da Ponte alle Grazie (traduzione di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio, pagg. 552, euro 21) è un libro assolutamente da leggere.
Benjamin Hale è un narratore meno che trentenne ma il talento è indubitabile. Non so se diventerà uno scrittore capace di aprire mondi interi, come è accaduto a David Foster Wallace. Sembra legato - edisciplinatamente consapevole della cosa, tanto da dichiararlo – a certa tradizione americana che da Philip Roth (il Roth di Portnoy, il genere di racconto in prima persona di una voce verbigerante, maniacale, infoiata al punto di farti percepire nel ritmo nervoso della prosa l’eccessiva disponibilità alla crapula erotica, il pensiero fisso, ossessivo per l’orifizio magico delle donne caso mai qui estremizzato da un olfatto ovviamente non umano) procede a ritroso fino al più grande scrittore statunitense del secondo Novecento: Saul Bellow.
A mio avviso nel suo libro v’è un di più di grottesco e un di meno di pregnanza filosofica – e di tragedia - rispetto all’autore di Herzog, che avvicina semmai Halea certa letteratura farsesca e paradossale. La storia è quella di uno scimpanzè che da uno zoo (mirabili e divertentissime le descrizioni delle bestie alle quali il protagonista è imparentato) viene condotto in un laboratorio dell’università di Chicago: la sua iniziazione a un processo di mutamento che lo renderà “umano” inizia lì. Ce la racconta lui stesso, da una condizione di cattività che non è quella di un “bioparco” ma ha da fare con una vera e propria detenzione: difatti grava su di lui un’accusa di omicidio. Come a volte succede agli uomini sbattuti in galera, anche questo scimpanzè evoluto che la nostra lingua ha imparato non solo a comprenderla ma a usarla, e molto bene, sente il bisogno di scrivere – dettandolo a una paziente amanuense – il proprio memoriale. Che ha al suo centro una donna, la scienziata che ha messo in moto il suo desiderio: per lei, intanto, e per “diventare un uomo”.
Vedremo poi il ruolo del desiderio in questa storia.
Nel racconto tono e stile concorrono per rimettere in gioco le nostre più radicate convinzioni di “specie” attraverso una buffa ricostruzione genealogica dal primate a un tipo “umano” sofisticato – intellettualmente dotato, colto, attrezzato, dal sense of humour spiccatissimo. L'evoluzione di Bruno Littlemore è dunque soprattutto un romanzo di surreale formazione darwiniana – potrebbe essere unconcept ontogenetico, in un certo senso, con il passo di quello classico; del resto non lo leggeremmo se non avessimo la necessità di cogliere ciò che tiene insieme l’uomo e lo scimpanzè.
In questo genere di romanzi, la tenuta non può essere assicurata lungo l’intera lettura. A volte il racconto si dilata senza particolari necessità (i sogni, pur trattandosi di uno scimpanzè e quindi di un ipotetico viaggio ancestrale negli archetipi dei primati – dunque di un prima ancora precedente a quello che vagheggiamo noi umani nel nostro mondo onirico – non sempre appassionano) ma è sempre tenuto compatto dalla scrittura. Sfrondato di qualche orpello, il libro resta sapido, divertentissimo: lo scimpanzè padre che si “scopa” una rana, lo stesso che si mette in scena per il piacere fesso degli umani sapendo benissimo di farlo – manco fosse un attore che prende per i fondelli -, l’esilarante happening di arte concettuale, la scena della “prima volta” in cui il nostro fa l’amore con la “donna della sua vita” (proprio così), la ricercatrice che è il centro nevralgico degli avvenimenti: insomma, l’ottica straniante funziona a meraviglia. Lo scimpanzè tiene a dirci che ha imparato la lingua degli umani perché voleva comunicare. Dunque, nella sua visione delle cose lì risiede il prerequisito del linguaggio, nel desiderio di comunicare. Soltanto dopo, sostiene Bruno, “nell”impeto di sperimentazione e improvvisazione, arrivano la logica simbolica, il vocabolario, la sintassi etc”. Sia come sia, che abbia o meno ragione, è interessante come abbiamo dovuto fare un percorso paradossale per recuperare un valore vitale al desiderio in letteratura: mentre oggi, in questa lenta agonia dell’Occidente, spesso il piacere viene esplicitamente tematizzato come pulsione di morte. Ora, le cose non sono così semplici, e non basta una trouvaille seppure geniale per farla franca. La morte è presente anche qui – del resto, non si diventa “umani” impunemente.
Lo scimpanzè lo sa da subito, pronto com’è, all’inizio degli esperimenti a suo carico, “a dimostrare di saper essere irrazionale quanto qualsiasi altro essere umano”. Che sia adorabile però è un fatto; un altro così non lo troviamo in giro facilmente. Un primate puzzolente che scriva meglio della stragrande maggioranza di persone che in giro per il mondo passano per scrittori, ce lo dobbiamo tenere stretto.
Non perdiamo di vista Benjamin Hale.

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