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Michele Lupo
L’Energia Del Vuoto
Guanda
Lo scrittore come ricercatore, non perché ci spieghi il mondo ma perché prova a interrogarlo per capirne qualcosa: vale una proposizione condivisibile per fare un buon libro? Il romanzo di Bruno Arpaia è ambizioso, corposo, fiducioso nelle sorti della letteratura come lingua e metodo per porsi domande non di poco momento sulla realtà, purché provi a volare alto.
Nuria, una giornalista-scrittrice spagnola che sembra adombrare un atteggiamento di fondo che è quello dell’autore, va al Cern di Ginevra per lavoro e resta folgorata da un mondo di cui sa niente ma del quale non potrà fare più a meno. Comprende che lì si gioca una partita infinita ma decisiva da cui apprendere prima che una serie di dati oggettivi (in cui si barcamenano gli stessi ricercatori con cui viene a contatto) un imprescindibile schema, un’euristica che ci avverte di rimettere in movimento le cose che sappiamo per scoprire che non le sappiamo affatto.
Ricordava Primo Levi l’inconsistenza della distinzione fra arte, letteratura, scienza. È a questo disegno che si ispira Arpaia, secondo una linea di congiunzione fra due pose del conoscere che il Novecento migliore aveva più volte pensato di ricucire (pensiamo al grandissimo esempio di Musil). Nei fatti del libro c’è un uomo in fuga - funzionario dell’Onu - tra la Svizzera e Marsiglia (riuscitissime le descrizioni di questo attraversamento che ricorda i paesaggi de La Promessa di Dürrenmatt), una moglie che lavora al Cern ed è sparita, la giornalista che intervista lei e intreccia complicate liaisons con uomini più “poetici” dei cattivi poeti facili facili che infestano prima che la letteratura, il linguaggio e l’immaginario. La donna scopre che l’avventura della fisica è emozionante, perché è la conoscenza stessa del mondo che vi si gioca e perché molte delle nostre certezze lì vengono totalmente rivoltate. E che lì, nel prestigioso laboratorio di Ginevra, si conduca una sfida capitale lo dice il fatto che fra gli stessi studiosi si possa venire ai ferri corti e soprattutto che un gruppo di fondamentalisti islamici cerchi di sabotarne gli esperimenti.
“Un realismo che fosse il risultato di una vera invenzione”: sulla scia di Bacon, la giornalista-scrittrice così ha sempre pensato l’approccio giusto al suo lavoro di narratrice e ora, dopo l’esperienza al Cern, si trova di fronte a un mondo da immaginare da capo. “L’essere si nasconde, rimanda sempre ad altro, ci stupisce (…) Ci sono concetti che bisogna ripensare a fondo”, le viene detto. Il tempo, per esempio, al Cern si domandano se il tempo non si scomponga “in una danza incoerente e disordinata, in ‘molecole’ di tempo”.
Questa a dir poco problematica nozione di tempo della fisica moderna è ben simulata nella struttura narrativa: non v’è linearità nella storia ma un montaggio di frammenti alternati che vanno avanti e indietro secondo un progetto rispettoso evidentemente del paradigma implicito, ma il problema è che i dialoghi e i resoconti scientifici sono troppo lunghi e bisogna oltrepassarne una buona metà perché i personaggi trovino la plasticità e l’autonomia letteraria che ci aspettiamo da un romanzo. Per troppe pagine insomma sembrano solo strumenti, veicoli di trasmissione delle informazioni. Così il thriller epistemologico fatica a svilupparsi. Il rischio di uno sbilanciamento che indebolisce l’evidenza dei personaggi è tipico del romanzo di idee e considerato anche l’apporto di una lingua coesa dall’inizio alla fine, che le loro vicende guadagnino peso specifico solo dopo molte decine di pagine acuisce il rammarico per quello che avrebbe potuto essere un libro imprescindibile.