PHILIPPE FOREST
Anche se avessi torto
Storia di un sacrificio
Alet
Autore di almeno un libro memorabile,
straziante, potentissimo, Tutti i bambini tranne uno, racconto della
tragica scomparsa della figlia, una bambina di cinque anni, Forest è uno
scrittore straordinario. Teorico oltre che scrittore, attualmente insegnante di
letteratura comparata all’Università di Nantes, di lui basti dire che ha
rimesso in gioco il tragico in letteratura – ossia il tragico tout court. Dopo che il secondo
Novecento ci aveva convinti dell’impossibilità di riavvicinarlo, Forest
affrontando un dolore privatissimo e incommensurabile è stato capace di farne
letteratura, non finzione ma testimonianza: ossia immersione totale
nell’”impossibile della realtà” (“la morte di un bambino è una delle figure di
questo impossibile”), per renderne partecipe il lettore. Il tragico, questa
messa in gioco senza soluzione di un conflitto irrimediabile, questa vertigine
impedita a qualsiasi salvezza, questo dolore senza consolazione: trovate
qualcuno in giro che sia ancora in grado di affrontarlo senza nasconderlo,
ossia renderlo praticabile senza la maschera del comico. Dieci anni dopo, e
dopo essere passato nel romanzo Per una notte attraverso il
dolore della moglie, madre della bambina, e aver ripassato senza il lirismo del
primo libro la stessa vicenda, lo scrittore francese torna su quel dolore:
ancora una volta, senza rimedio.
Il fatto è che per lui come per noi la
religione non può farvi niente. Se Forest comprende che “la ragione sociale
della religione dipende dalla sua capacità di volgere il negativo in positivo”,
egli sa pure che la faccenda non lo riguarda. Perciò non avvia nessun discorso
teologico, caso mai nota che quello che vi è di interessante nel Cristianesimo
è proprio ciò che esso esclude in quanto “aporia della sofferenza” – fra le
altre, Cristo che dal Golgota si rivolge al Padre e gli chiede perché è stato
abbandonato (per Slavoy Zizek, nel recente La mostruosità di Cristo, si tratta di
una domanda capitale, l’abisso che fa vacillare la Fede – dal principio).
La figlia dunque è insostituibile, e in
questa verità apparentemente ovvia vi è tutta la fallimentare quanto necessaria
inevitabilità del tragico. L’accettazione di questa condizione – la vita che resta
– non ha nulla di letterario se non per qualcosa che aggiungerò alla fine. Essa
ha da fare con la terribile, intollerabile e cupa onestà di una convinzione:
non essendovi nessun dio, il vuoto di quella morte può essere colmato solo con
un’altra morte - la propria. Ovvio che questa radicalità filosofica sia parte
in causa non solo di un dolore immedicabile ma pure dello scandalo di quella
che non si fa fatica a definire “una somma ingiustizia”.
La letteratura di Forest marca la
distanza ormai incolmabile che lo allontana dall’altro ex grande scrittore
francese degli ultimi anni, Houellebecq, che a un certo punto ha cominciato a
fare la parodia di se stesso mostrando come il nichilismo non fosse più un
problema per lui – la deriva del mondo assumendo ai suoi occhi un aspetto
piuttosto friendly.
Un’ultima cosa, sul letterario di cui
sopra: nessuno come Forest è in grado di mostrare oggi una verità che gli
scrittori veri conoscono bene: “chi scrive è sommerso dall’esperienza dolorosa
della vita, e nonostante tutto allo stesso tempo si salva”. Una faccenda che
riguarda Forest, lo speriamo (e per tutti noi, che nella salvezza della
letteratura non finiamo ostinatamente di credere).
E
un’ultimissima, che ci sta a proposito: quelli di Alet sono i libri più belli
che si facciano oggi in Italia.