3 mar 2011

Recensione di Simone Ghelli a I fuoriusciti

un grazie di cuore a Simone
http://scrittoriprecari.wordpress.com/2011/03/03/i-fuoriusciti/


I fuoriusciti (Stilo Editrice, 2010)
A un certo punto una mattina non mi sono più alzata dal letto. Non mi vedevo più che mi alzavo, se posso esprimermi così.
In Italia, si sa, i racconti sono un genere piuttosto bistrattato (e aggiungo purtroppo), tanto che se non fosse per internet rimarrebbero pressoché fuori da ogni riflessione letteraria. Nel nostro paese preferiamo puntare invece sui romanzi, preferibilmente se di esordienti, oppure scandalizzarci della poesia che non vende, ma dei racconti importa a pochi. Nessuno si preoccupa di dar loro dignità estetica o risalto mediatico, se non quando si tratta di lanciare qualche antologia tematica in cui inserire testi di autori già noti (se non al pubblico, almeno alla critica).
Eppure, i racconti sono da sempre una palestra di scrittura, forse il luogo più adatto a verificare la genesi di una lingua e di uno stile. Spesso, poi, rappresentano persino una sorta di esercizio spirituale: l’osservazione di una disciplina a cui difficilmente (soprattutto di questi tempi) ci sottomettiamo.
È questo il caso dei racconti di Michele Lupo, inanellati come tanti piccoli romanzi – i più cattivi direbbero romanzi abortiti, e invece io insisto sul fatto che qua siamo davanti alla prova lampante della dignità del genere: essi funzionano benissimo così, perché un’opera si fa abitare indifferentemente dal numero delle pagine che la compongono.
Le storie de I fuoriusciti disegnano infatti un affresco ben preciso, indicato fin dal titolo, per quanto conservino una loro autonomia. I personaggi che entrano in scena (termine appropriato, direi, vista la copertina con uno dei famosi bar di Hopper) sembrano infatti patire, ognuno per sé, di un proprio ingombro personale: fisico o mentale poco importa, purché si sentano sempre fuori luogo. Stanno appunto uscendo di scena, ma sono ancora sotto i riflettori: e nel salto dal palco, in quell’ultimo balzo, mettono l’ultimo residuo di peso che gli rimane – prima d’involarsi, per sempre.
La scrittura di Lupo – asciutta e complessa al tempo stesso – contribuisce a rafforzare nel lettore questa sensazione. Prendiamo l’ultimo racconto, il più bello a mio parere: in Congedo assistiamo all’atto finale di un percorso in cui la staffetta è passata di mano in mano (o per meglio dire di fallimento in fallimento), fino all’esaurimento di ogni possibilità: un esaurimento che passa per il rifiuto della comunicazione – la protagonista che getta il telefono, dentro il quale la voce di uno spasimante continua a insistere – e di conseguenza per una scrittura che sembra perdere ogni velleità descrittiva per farsi a tratti puro pensiero: un monologo interiore disturbato da stralci di conversazioni.
Alla fine, rimane l’autismo del soggetto, il suo richiudersi nella scrittura – gli ultimi versi di una poesia della protagonista (Oh, anche questa notte è colma d’echi la terra, e di grida).
Forse, allora, non è proprio un caso se il primo racconto inizia con il riferimento a un televisore (Tornando a casa, ci pensò un po’ su: si sarebbe seccato anche lui se qualcuno gli avesse spento il televisore sotto gli occhi), mentre l’ultimo mette in scena la distruzione di un suo omologo: una via d’uscita luddista che rende giustizia all’arte del racconto.




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