Maria Pia Veladiano
La vita accanto
Stile Libero Einaudi
Dal Paradiso
Che ne dite di questo incipit: Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia?
Buono no?
Continuereste a leggere? Io sì – confesso che l’ho fatto. Sono andato avanti, a leggere questa storietta di un’infelice ragazza, brutta fino alla ripugnanza e perciò guarda caso sofferente, da subito con minor entusiasmo, abbastanza presto deprimendomi, e non dico quando ho smesso. La prosa stucchevole, le frasi cervellotiche tipiche di chi vuol fare “letteratura” hanno cominciato presto a farla da padrone: a p. 11, lamentandosi di non poter uscire di casa, la sventurata, narratrice in prima persona, ricorda la triste condizione comeun tabù sul quale stava o cadeva quel residuo di vita che ancora la inabitava”. (???)
La sfigata è nata oltretutto in una famiglia di persone bellissime – il superlativo abbonda già nelle prime pagine (se è brutta come lei stessa dice, a esser meglio e belli e poi bellissimi non dev’essere una grande impresa). A latere del libro, nelle interviste, Veladiano ci ammonisce: questo è un libro sul dolore.
La famiglia difatti ci resta male; da parte di madre pende una tara ricorrente, ogni tanto capita qualcosa di sbagliato, e alla narratrice non solo capita di esser brutta ma anche di non essere amata – la madre non lo dice ma la ficcherebbe volentieri in un cassonetto dell’immondizia. Il padre sarebbe un po’ meno peggio ma non ce la fa, inetto e debole come tutti i maschi.
Fortuna che la ragazza ha un talento, quello della musica, e suona bene il pianoforte. Questo potrebbe salvarla, forse; intanto c’è da soffrire. A un certo punto sente i genitori che discutono in un’altra stanza, di lei ovvio, di cosa farne, e scrive a proposito del padre e delle sue incerte intenzioni sulla moglie: Sento che la scuote. Forse l’ha presa per le spalle. Non c’è poesia.
Non c’è poesia. Sic. Domanda: chi è che parla? la povera disgraziata (povera poi, c’è anche in filigrana col passare delle pagine sempre più visibile una prospettiva da provvida sventura), o attraverso lei anche l’autrice? Perché in questo mercato editoriale “la poesia” sembra una merce un po’ più sofisticata delle altre ma non abbastanza da risultare introvabile nei megastore dei centri commerciali. I tuoi occhi di mare sono sempre lontani dice ancora il padre. Bon, è un attimo: eccola, la poesia.
La critica si compiace di un libro che denuncia il regime del bello (o della cosmesi?) – la bruttezza abnorme determinando una condizione di emarginazione (prigionia, sostiene l’autrice con originalità). Il lamento sulla mancanza d’amore che ne deriva insomma, visto che il clima è quello che è, sembra sconvolgere i recensori. Aspettiamo rivelazioni stupefacenti su Bruno Vespa e Minchiolini, sì da strappare anche noi un contratto a via Biancamano. Vale la pena ricordare che ancor prima si sono commossi i giurati del Premio Calvino 2010 – vinto dalla Veladiano con l’applauso scrosciante, fra gli altri, di Valeria Parrella (personalmente questo motivo sarebbe stato bastevole per consigliarmi prudenza, ma comunque).
“Stile Libero” continua a esserlo senza freni, tenta un approccio al successo editoriale attraverso un’operazione alla Giordano: libretto melenso ma crudelino, sciatto ma ricercato, qualche frase a effetto e sostantivi astratti a go go. Il proposito letterario che presiede a opere come queste potremmo chiamarlo profondismo. Poesia a tutto spiano, dolore, riscatto forse sì forse no, spiritualismo velato, frasi brevi che vorrebbero imitare Ungaretti e piacciono molto alle signore mie de sinistra (moderata) - a quelle de destra piacciono altre cose. Profondismo.
Buono no?
Continuereste a leggere? Io sì – confesso che l’ho fatto. Sono andato avanti, a leggere questa storietta di un’infelice ragazza, brutta fino alla ripugnanza e perciò guarda caso sofferente, da subito con minor entusiasmo, abbastanza presto deprimendomi, e non dico quando ho smesso. La prosa stucchevole, le frasi cervellotiche tipiche di chi vuol fare “letteratura” hanno cominciato presto a farla da padrone: a p. 11, lamentandosi di non poter uscire di casa, la sventurata, narratrice in prima persona, ricorda la triste condizione comeun tabù sul quale stava o cadeva quel residuo di vita che ancora la inabitava”. (???)
La sfigata è nata oltretutto in una famiglia di persone bellissime – il superlativo abbonda già nelle prime pagine (se è brutta come lei stessa dice, a esser meglio e belli e poi bellissimi non dev’essere una grande impresa). A latere del libro, nelle interviste, Veladiano ci ammonisce: questo è un libro sul dolore.
La famiglia difatti ci resta male; da parte di madre pende una tara ricorrente, ogni tanto capita qualcosa di sbagliato, e alla narratrice non solo capita di esser brutta ma anche di non essere amata – la madre non lo dice ma la ficcherebbe volentieri in un cassonetto dell’immondizia. Il padre sarebbe un po’ meno peggio ma non ce la fa, inetto e debole come tutti i maschi.
Fortuna che la ragazza ha un talento, quello della musica, e suona bene il pianoforte. Questo potrebbe salvarla, forse; intanto c’è da soffrire. A un certo punto sente i genitori che discutono in un’altra stanza, di lei ovvio, di cosa farne, e scrive a proposito del padre e delle sue incerte intenzioni sulla moglie: Sento che la scuote. Forse l’ha presa per le spalle. Non c’è poesia.
Non c’è poesia. Sic. Domanda: chi è che parla? la povera disgraziata (povera poi, c’è anche in filigrana col passare delle pagine sempre più visibile una prospettiva da provvida sventura), o attraverso lei anche l’autrice? Perché in questo mercato editoriale “la poesia” sembra una merce un po’ più sofisticata delle altre ma non abbastanza da risultare introvabile nei megastore dei centri commerciali. I tuoi occhi di mare sono sempre lontani dice ancora il padre. Bon, è un attimo: eccola, la poesia.
La critica si compiace di un libro che denuncia il regime del bello (o della cosmesi?) – la bruttezza abnorme determinando una condizione di emarginazione (prigionia, sostiene l’autrice con originalità). Il lamento sulla mancanza d’amore che ne deriva insomma, visto che il clima è quello che è, sembra sconvolgere i recensori. Aspettiamo rivelazioni stupefacenti su Bruno Vespa e Minchiolini, sì da strappare anche noi un contratto a via Biancamano. Vale la pena ricordare che ancor prima si sono commossi i giurati del Premio Calvino 2010 – vinto dalla Veladiano con l’applauso scrosciante, fra gli altri, di Valeria Parrella (personalmente questo motivo sarebbe stato bastevole per consigliarmi prudenza, ma comunque).
“Stile Libero” continua a esserlo senza freni, tenta un approccio al successo editoriale attraverso un’operazione alla Giordano: libretto melenso ma crudelino, sciatto ma ricercato, qualche frase a effetto e sostantivi astratti a go go. Il proposito letterario che presiede a opere come queste potremmo chiamarlo profondismo. Poesia a tutto spiano, dolore, riscatto forse sì forse no, spiritualismo velato, frasi brevi che vorrebbero imitare Ungaretti e piacciono molto alle signore mie de sinistra (moderata) - a quelle de destra piacciono altre cose. Profondismo.
Michele Lupo