ringrazio la poetessa Lucia Tosi per l'appassionata lettura del mio primo romanzo e il poeta Francesco Marotta per averci ospitati nel suo bel sito "La dimora del tempo sospeso"
Lucia Tosi
Lucia Tosi
Michele Lupo,
L’onda sulla pellicola
“uomo, si fa per dire: la sua
evoluzione si era arrestata a uno stadio adolescenziale, primo perché gli
faceva comodo, secondo perché non aveva un briciolo di curiosità per ciò che
viene dopo e terzo perché questo lo rendeva antipatico a un sacco di gente, e
stare sulle palle a tanti subendone la sdegnata disapprovazione era un modo
sfizioso per impallinare la noia.” (p. 200)
La quarta di copertina del
romanzo d’esordio di Michele Lupo, L’onda sulla pellicola, Besa, 2004 potrebbe
agevolmente avvalersi di queste righe, circa sei nell’originale, per illustrare
il personaggio di Livio Viola, il protagonista. Detto tra noi: ad un pubblico
di lettori non ingenui tale descrizione dovrebbe bastare per indurli a leggere
il libro, ma è più probabile che il lettore viziato-smaliziato invece pensi:
“L’ennesimo inetto? E che ce ne facciamo?” Ce ne facciamo, e molto. Vorrei
intanto chiedere a chi si occupa seriamente di romanzo se può, in tutta
coscienza, affermare che la traccia del personaggio malcontento, inadatto a
vivere secondo i ritmi e i canoni di una data società, ha mai veramente smesso
di agire e fruttificare in certa letteratura successiva a Dostoevskij, Kafka,
Musil, Svevo. Ci sarebbero poi Mann, Joyce, di nuovo Svevo, per la figura
dell’artista giovane e meno giovane, poi Gadda per l’ironia feroce con cui ogni
diversità è percepita e raccontata. In America incontriamo Bellow, Malamud, P.
Roth: casualmente tutti ebrei, e tutti alle prese con personaggi dal successo
apparente, che però vivacchiano, molto spesso, rimbalzando da
un’insoddisfazione all’altra, come saltellano da un letto all’altro. Del
romanzo italiano più recente non parlo, perché L’onda non ha con esso nulla a
che spartire.
Livio Viola, trentacinquenne dal nome che sembra un giochino di
parole (o un nome parlante, se spostiamo sulla i l’accento del cognome: ma
avremo modo), insegnante precario al quadrato: perché insegna in due scuole
private, un diplomificio grottesco e una scuola confessionale, con velleità cinematografiche
che oscillano tra il voler fare l’attore, più che altro per sfangarla, e il
sogno di un film (sceneggiatura, regia, tutto), bello, pare di cogliere qua e
là, e di gentile aspetto, irresistibile grande seduttore, si muove, nell’arco
di circa un anno scolastico, con qualche eccezione, dentro una Roma che ci è
data per brandelli e che potrebbe essere qualunque altro luogo al mondo, da
casa a scuola e da scuola (scuole) a casa. Sosta talora da un’amica compiacente
giusto il tempo di una fellatio. Si porta a letto, e senza tanti preliminari,
questa e quella. Vive perennemente impriapito: gli basta una scollatura, uno
sfioramento, un odore. Le donne finiscono presto, in sua presenza, giovani e
vecchie, fanciulle in fiore e attempate befane, donne mature e navigate,
trentenni in caccia dell’eterno principe azzurro, per sognare ad occhi aperti
(a gambe aperte) di catturarlo, di tenerlo per sé: se lo strattonano, fanno a
gara. Ma Livio è irriducibile: ammalato di dongiovannismo, schizoide, lo
definisce la fidanzata psicologa, per niente preoccupato, anzi, fieramente
convinto a diffondere il verbo della solitudine: della quale più presto si
convinceranno gli umani, meglio sarà, è come un cavallo che non conosceva
steccati se non quelli che si imponeva da solo momento per momento (p. 343)
Il
teatro (teatrino), contro cui si stagliano le vicende erotiche del protagonista
è quello della scuola. In una, studenti per lo più ultraventenni, coatti,
dannati e cannati, bighellonano per i corridoi, stanno in classe attaccati al
cellulare, sgommano all’uscita sui suv, nell’altra ragazzine perbenino recitano
la preghiera prima di iniziare le lezioni, ridacchiano alle trasgressioni del
professore, lo credono un po’ matto. Inferno e Paradiso: o due inferni, uno
proprio e uno improprio. Teatro, o cornice, però intercambiabili: la rapsodia
che caratterizza le azioni-coazioni del protagonista mette sullo stesso piano
pubblico e privato, lavoro e vita personale, scuola e sesso. Attraversa questo
ritmo di quattro quarti il contrattempo del diario di Giorgio, allievo di Livio
e figlio della sua quasi compagna Giulia. Giorgio è sensibile, infelice, vive
con il padre anziano, incazzato perenne a prescindere. Interrompono il flusso
quasi di coscienza i giochi analettici e prolettici in cui erompe il paesaggio
del sud, nel quale Livio si annulla, facendo tacere un poco la mente che di
solito gli galoppa a mille.
Giorgio è giovane, Livio gli vuole bene, a modo
suo: come è capace di voler bene un narciso. Vede in lui un po’ se stesso: o
meglio: quel se stesso che non ha avuto modo di essere. Vi vede la possibile
costruzione di un’identità affettiva che egli ha smarrito. Giorgio è
adeguatamente sfortunato con le ragazzine, Livio da ragazzo si scopava le
ragazze più grandi, girava senza una lira in tasca per mezza Europa, Giorgio è
ingabbiato tra una scuola che odia e una casa in cui il padre, piedi puzzolenti
e scaracchi nel lavandino, si aggira come un trapassato, inveendogli contro per
ogni cosa. Come se il sostare rabbioso nella minorità di Giorgio fosse presagio
di voli spiccabili in luoghi e tempi opportuni in futuro, mentre la vita,
vissuta troppo avidamente prima, quella vita cui assistiamo a volte quasi dal
buco della serratura, altre quasi presi in mezzo, non potesse riservare a Livio
nessuna ulteriore piacevole sorpresa.
Livio va tuttavia avanti. E’ un precario,
poi un licenziato, uno che, in quanto tale, fa bene al rafforzamento della
specie. Non un timore, non un tremore per il futuro. Perché semplicemente il
futuro non c’è, almeno per lui. La sua precarietà è perdente e resiliente allo
stesso tempo. Incarna il tipo del potenziale suicida, di quelli che se compiono
il gesto tutti si meravigliano: ma come? così bello, intelligente, giovane… ma
Livio, per cominciare, non è giovane: non è cresciuto, il che è diverso, è
infantile e prepotente. E’ molto intelligente, questo sì. Vede attraverso le
situazioni, dentro le persone di cui vìola costantemente il territorio,
impedendo loro di essere quelle maschere tranquille che sono state fino ad
allora. Così il vecchio professore in pensione, convinto irriducibile
comunista: meglio: luogocomunista, viene sottoposto al fuoco di fila delle
domande senza risposta di Livio. Poiché ne capisce meno della metà, dovrebbe
essere lasciato in pace, se non altro per impedirgli di emanare con le risposte
la tremenda puzza di aglio che assume come cura antipressoria. Ma Livio non
perde occasione: essendo Imperio un bel prototipo di quella sinistra
imborghesita e ciabattona, che ha consegnato l’Italia a degli sfacciati che non
nascondono minimamente di saper vendere il nulla, la sua rabbia non vede l’ora
di esercitarsi ripetutamente, senza freni, senza inibizioni. Livio è un
selvaggio e allo stesso tempo un libertino: colto abbastanza, supponente,
svelto a dissimulare le sue eventuali ignoranze e a simulare conoscenze che non
ha. Ama sentirsi parlare: a volte si esprime come un esteta decadente, altre
come un sentenzioso filosofo stoico. E’ il primo a sorprendersi della sua
abilità linguistica: se la ride tra sé e sé del colpo che assesta sugli uditori
che non possono non odiarlo vieppiù ogni giorno, per quella costante
umiliazione cui li sottopone.
Un solo personaggio non si fa impressionare dal
professore e, tra i molti che cambiano, non modifica minimamente il suo stile.
E’ Malerba (altro nome parlante), la proprietaria del CSM, il diplomificio,
avamposto in gonnella (e pelliccia) di certo potere che nel 1995-96 era solo
agli esordi. Su di lei Livio non ha nessuna influenza. Potrebbe averla se
avesse lo stomaco di superare l’imperativo che si è dato: desiderare (e
scopare, possibilmente) tutte le donne attraenti che gli arrivino a tiro. Ma
Malerba è vecchia e odiosa: affarista spudorata, paga gli insegnanti diecimila
lire l’ora, nessuna copertura per malattia o altro. Si lancia ipocritamente in
strenue difese della sua scuola che è pensata, dice lei, per i ragazzi: sembra
un bar in piazza, le sue strategie educative sono quelle di un commerciante,
per cui il cliente ha sempre ragione; ma ciò non solo costituisce un dettaglio
insignificante: la miseria intellettuale, la cialtronaggine sono assunte, anzi,
a vessillo di distinzione. E’ evidente che la critica esorbita il personaggino
ributtante che è Malerba: in modo profetico (dantescamente profetico: i fatti
sono narrati dall’auctor nel 2004 e collocati nel 1996 in cui l’auctor era
forse quell’agens) si ritrovano annunciate evoluzioni (piuttosto: involuzioni)
del sistema socio-politico italiano che nel 2010-11 hanno ricevuto ulteriori
conferme al ribasso. La pervicace fissazione dell’imprenditrice scolastica a
voler interpretare Il Principe di Machiavelli riducendolo in pillole
scontatissime da distribuire ai suoi clienti (pardon: studenti) è una
strizzatina d’occhio eloquente a proposito della sovrapponibilità di Malerba al
Presidente delle tre I.
Si percepisce di dantesco un evidente richiamo
all’inferno, come anticipato. Livio Viola è però uno che la diritta via non
l’ha mai smarrita, dal momento che nulla ha sin lì fatto per starci almeno un
po’ o per cercarla. La sua dimensione è quella, più propriamente,
dell’antinferno: pur non essendo un vero pusillanime, è attratto da idoli
plurimi e disparati. Le donne, il cinema, scrivere: per ciascuno di questi
nutre un’ammirazione soverchia, ma per nessuno è disposto a rinunciare alla
quiete insofferente del suo vivere. Fantastica incessantemente su battute
folgoranti di non si sa però quale film: non lo sa neanche lui; ne ha
collezionate circa una dozzina e con quel’abbozzo (aborto) si reca a colloquio
con un possibile produttore. Al solito straparla (il passo è esilarante e
imbarazzante insieme), non ascolta, mentre il suo interlocutore cerca di dirgli
che lui non è quello che Livio crede, il produttore, ma il fratello gemello. Il
pensiero corre a Kafka, al Castello: il colloquio tanto agognato qui si risolve
in un nulla di fatto perché l’agrimensore K. si addormenta, lì si ribalta nel
suo contrario. Livio fallisce perché ha sbagliato persona (come Zeno sbaglia
funerale): è lui a parlare a ruota libera, dicendo peraltro un mucchio di
sciocchezze, il presunto produttore, al contrario, tace. Un Kafka degradato,
senza metafisica, carnevalizzato, reso grottesco.
Livio è un condensato
contemporaneo (si vorrebbe poter dire post-moderno: ma si sbaglierebbe strada)
di spezzoni di vite di illustri personaggi del Novecento, ma anche ben più
lontani. Ha la stoffa del picaro: un picaro dei nostri giorni, che si muove in
spazi angusti e soffocanti, per lo più, ma con la stessa leggerezza di chi non
ha che velleità, non ha attese e deve sbarcare dannatamente il lunario. Un
picaro rinnovato nella curiositas e nell’energia vitalistica da quell’Augie
March di Saul Bellow, ma anche un Portnoy (citato, tra l’altro, in un dialogo
del romanzo) scontento, ipercritico, idiosincratico, erotomane che vuole e
disvuole essere normale.
Il libro di Michele Lupo è
passato ingiustamente quasi inosservato. Non conosco le vicende editoriali, se
l’autore lo ha presentato a case editrici più grandi prima della piccola Besa,
per certo, anche il solo godimento del testo avrebbe dovuto garantirgli una
circolazione molto maggiore e meritatissima.
La lingua impiegata dall’autore,
riconfermatasi di recente nella raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo,
2010, è proteiforme. Sanguigna, elettrica, sfacciata, colta, espressionistica.
Poetica. La lingua ora di un saltimbanco dell’anima, ora di un virtuoso, ora di
un consapevole/inconsapevole nipotino dei nipotini di Gadda: ma non di quelli
della seconda generazione, dei cannibali, per intenderci, da cui si ribadisce,
anzi, una distanza abissale. Un autore che può stare accanto, con gli opportuni
adattamenti epocali, come a parenti più prossimi, a Manganelli, a Ceresa, a
Ceronetti, ad Arbasino: nei confronti di quest’ultimo si avverte nel libro una
sotterranea ammirazione per l’intelligenza acuta, il gusto dissacratorio, la
parola colta. Una lingua stratificata, densa, capace di associazioni inusitate
e precise, che il lettore consapevole riconosce come irrinunciabili,
felicissime, perfette per la cosa rappresentata e per lui, per il suo
godimento. In questo senso è possibile invocare, con cautela, la definizione di
barocca anche per la lingua di Lupo, perché barocco è il mondo. Lingua e
struttura narrativa si soccorrono vicendevolmente: su entrambe vige come un
velo una nonchalance, una sprezzatura, una specie di flânerie, che abbandona il
campo della fabula, come attratta da un’altra vicenda o il campo di un dato
registro, per sondarne un altro. Ma tout se tient: in un modo che i racconti de
I fuorisciti hanno confermato, questa apparente distrazione, quest’avidità di
sguardo, pari solo alle diverse avidità dei suoi personaggi, è ricondotta ad un
ordine: le vicende sono strettamente tenute in pugno, non vengono aperti
ingenui rivoli e rivoletti che dilagano, ma canali ingegneristici che conducono
le acque del racconto, tra salti, deviazioni, chiuse, ritorni, ad un unico
grande fiume.
Certo coraggio intellettuale può non essere piaciuto a chi si
aggira nei corridoi, o nei meandri, delle majors. Lo sguardo beffardo,
chirurgico, acido con cui Lupo indaga e mai assolve il mondo circostante, di
chi sta di sghimbescio alle cose, non paga. Dopo aver cannibalizzato il mondo,
e dunque digerito, è ora di estrometterlo sottoforma di cacatine esistenziali:
non troppo puzzolenti, per favore. Da circa un decennio, con rare eccezioni, il
panorama letterario sforna dei piagnistei irricevibili. Senza contare la
letteratura di consumo, ché di quella non fa conto parlare, che grandi case
tranquillamente mettono in circolo, ove si narra di amori sotto terra o sopra
il cielo e di colpi di spazzola, per palati deboli che non sapranno mai cosa
sia un vero libertino dei nostri giorni. (Lucia Tosi)
Michele Lupo, L’onda sulla pellicola
Nardò (Lecce), Editrice Besa,
“Lune nuove”, 2004
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