10 mar 2011

Splendida lettura del mio romanzo L'onda sulla pellicola

ringrazio la poetessa Lucia Tosi per l'appassionata lettura del mio primo romanzo e il poeta Francesco Marotta per averci ospitati nel suo bel sito "La dimora del tempo sospeso"




Lucia Tosi


Michele Lupo, L’onda sulla pellicola
“uomo, si fa per dire: la sua evoluzione si era arrestata a uno stadio adolescenziale, primo perché gli faceva comodo, secondo perché non aveva un briciolo di curiosità per ciò che viene dopo e terzo perché questo lo rendeva antipatico a un sacco di gente, e stare sulle palle a tanti subendone la sdegnata disapprovazione era un modo sfizioso per impallinare la noia.” (p. 200)
La quarta di copertina del romanzo d’esordio di Michele Lupo, L’onda sulla pellicola, Besa, 2004 potrebbe agevolmente avvalersi di queste righe, circa sei nell’originale, per illustrare il personaggio di Livio Viola, il protagonista. Detto tra noi: ad un pubblico di lettori non ingenui tale descrizione dovrebbe bastare per indurli a leggere il libro, ma è più probabile che il lettore viziato-smaliziato invece pensi: “L’ennesimo inetto? E che ce ne facciamo?” Ce ne facciamo, e molto. Vorrei intanto chiedere a chi si occupa seriamente di romanzo se può, in tutta coscienza, affermare che la traccia del personaggio malcontento, inadatto a vivere secondo i ritmi e i canoni di una data società, ha mai veramente smesso di agire e fruttificare in certa letteratura successiva a Dostoevskij, Kafka, Musil, Svevo. Ci sarebbero poi Mann, Joyce, di nuovo Svevo, per la figura dell’artista giovane e meno giovane, poi Gadda per l’ironia feroce con cui ogni diversità è percepita e raccontata. In America incontriamo Bellow, Malamud, P. Roth: casualmente tutti ebrei, e tutti alle prese con personaggi dal successo apparente, che però vivacchiano, molto spesso, rimbalzando da un’insoddisfazione all’altra, come saltellano da un letto all’altro. Del romanzo italiano più recente non parlo, perché L’onda non ha con esso nulla a che spartire.
Livio Viola, trentacinquenne dal nome che sembra un giochino di parole (o un nome parlante, se spostiamo sulla i l’accento del cognome: ma avremo modo), insegnante precario al quadrato: perché insegna in due scuole private, un diplomificio grottesco e una scuola confessionale, con velleità cinematografiche che oscillano tra il voler fare l’attore, più che altro per sfangarla, e il sogno di un film (sceneggiatura, regia, tutto), bello, pare di cogliere qua e là, e di gentile aspetto, irresistibile grande seduttore, si muove, nell’arco di circa un anno scolastico, con qualche eccezione, dentro una Roma che ci è data per brandelli e che potrebbe essere qualunque altro luogo al mondo, da casa a scuola e da scuola (scuole) a casa. Sosta talora da un’amica compiacente giusto il tempo di una fellatio. Si porta a letto, e senza tanti preliminari, questa e quella. Vive perennemente impriapito: gli basta una scollatura, uno sfioramento, un odore. Le donne finiscono presto, in sua presenza, giovani e vecchie, fanciulle in fiore e attempate befane, donne mature e navigate, trentenni in caccia dell’eterno principe azzurro, per sognare ad occhi aperti (a gambe aperte) di catturarlo, di tenerlo per sé: se lo strattonano, fanno a gara. Ma Livio è irriducibile: ammalato di dongiovannismo, schizoide, lo definisce la fidanzata psicologa, per niente preoccupato, anzi, fieramente convinto a diffondere il verbo della solitudine: della quale più presto si convinceranno gli umani, meglio sarà, è come un cavallo che non conosceva steccati se non quelli che si imponeva da solo momento per momento (p. 343)
Il teatro (teatrino), contro cui si stagliano le vicende erotiche del protagonista è quello della scuola. In una, studenti per lo più ultraventenni, coatti, dannati e cannati, bighellonano per i corridoi, stanno in classe attaccati al cellulare, sgommano all’uscita sui suv, nell’altra ragazzine perbenino recitano la preghiera prima di iniziare le lezioni, ridacchiano alle trasgressioni del professore, lo credono un po’ matto. Inferno e Paradiso: o due inferni, uno proprio e uno improprio. Teatro, o cornice, però intercambiabili: la rapsodia che caratterizza le azioni-coazioni del protagonista mette sullo stesso piano pubblico e privato, lavoro e vita personale, scuola e sesso. Attraversa questo ritmo di quattro quarti il contrattempo del diario di Giorgio, allievo di Livio e figlio della sua quasi compagna Giulia. Giorgio è sensibile, infelice, vive con il padre anziano, incazzato perenne a prescindere. Interrompono il flusso quasi di coscienza i giochi analettici e prolettici in cui erompe il paesaggio del sud, nel quale Livio si annulla, facendo tacere un poco la mente che di solito gli galoppa a mille.
Giorgio è giovane, Livio gli vuole bene, a modo suo: come è capace di voler bene un narciso. Vede in lui un po’ se stesso: o meglio: quel se stesso che non ha avuto modo di essere. Vi vede la possibile costruzione di un’identità affettiva che egli ha smarrito. Giorgio è adeguatamente sfortunato con le ragazzine, Livio da ragazzo si scopava le ragazze più grandi, girava senza una lira in tasca per mezza Europa, Giorgio è ingabbiato tra una scuola che odia e una casa in cui il padre, piedi puzzolenti e scaracchi nel lavandino, si aggira come un trapassato, inveendogli contro per ogni cosa. Come se il sostare rabbioso nella minorità di Giorgio fosse presagio di voli spiccabili in luoghi e tempi opportuni in futuro, mentre la vita, vissuta troppo avidamente prima, quella vita cui assistiamo a volte quasi dal buco della serratura, altre quasi presi in mezzo, non potesse riservare a Livio nessuna ulteriore piacevole sorpresa.
Livio va tuttavia avanti. E’ un precario, poi un licenziato, uno che, in quanto tale, fa bene al rafforzamento della specie. Non un timore, non un tremore per il futuro. Perché semplicemente il futuro non c’è, almeno per lui. La sua precarietà è perdente e resiliente allo stesso tempo. Incarna il tipo del potenziale suicida, di quelli che se compiono il gesto tutti si meravigliano: ma come? così bello, intelligente, giovane… ma Livio, per cominciare, non è giovane: non è cresciuto, il che è diverso, è infantile e prepotente. E’ molto intelligente, questo sì. Vede attraverso le situazioni, dentro le persone di cui vìola costantemente il territorio, impedendo loro di essere quelle maschere tranquille che sono state fino ad allora. Così il vecchio professore in pensione, convinto irriducibile comunista: meglio: luogocomunista, viene sottoposto al fuoco di fila delle domande senza risposta di Livio. Poiché ne capisce meno della metà, dovrebbe essere lasciato in pace, se non altro per impedirgli di emanare con le risposte la tremenda puzza di aglio che assume come cura antipressoria. Ma Livio non perde occasione: essendo Imperio un bel prototipo di quella sinistra imborghesita e ciabattona, che ha consegnato l’Italia a degli sfacciati che non nascondono minimamente di saper vendere il nulla, la sua rabbia non vede l’ora di esercitarsi ripetutamente, senza freni, senza inibizioni. Livio è un selvaggio e allo stesso tempo un libertino: colto abbastanza, supponente, svelto a dissimulare le sue eventuali ignoranze e a simulare conoscenze che non ha. Ama sentirsi parlare: a volte si esprime come un esteta decadente, altre come un sentenzioso filosofo stoico. E’ il primo a sorprendersi della sua abilità linguistica: se la ride tra sé e sé del colpo che assesta sugli uditori che non possono non odiarlo vieppiù ogni giorno, per quella costante umiliazione cui li sottopone.
Un solo personaggio non si fa impressionare dal professore e, tra i molti che cambiano, non modifica minimamente il suo stile. E’ Malerba (altro nome parlante), la proprietaria del CSM, il diplomificio, avamposto in gonnella (e pelliccia) di certo potere che nel 1995-96 era solo agli esordi. Su di lei Livio non ha nessuna influenza. Potrebbe averla se avesse lo stomaco di superare l’imperativo che si è dato: desiderare (e scopare, possibilmente) tutte le donne attraenti che gli arrivino a tiro. Ma Malerba è vecchia e odiosa: affarista spudorata, paga gli insegnanti diecimila lire l’ora, nessuna copertura per malattia o altro. Si lancia ipocritamente in strenue difese della sua scuola che è pensata, dice lei, per i ragazzi: sembra un bar in piazza, le sue strategie educative sono quelle di un commerciante, per cui il cliente ha sempre ragione; ma ciò non solo costituisce un dettaglio insignificante: la miseria intellettuale, la cialtronaggine sono assunte, anzi, a vessillo di distinzione. E’ evidente che la critica esorbita il personaggino ributtante che è Malerba: in modo profetico (dantescamente profetico: i fatti sono narrati dall’auctor nel 2004 e collocati nel 1996 in cui l’auctor era forse quell’agens) si ritrovano annunciate evoluzioni (piuttosto: involuzioni) del sistema socio-politico italiano che nel 2010-11 hanno ricevuto ulteriori conferme al ribasso. La pervicace fissazione dell’imprenditrice scolastica a voler interpretare Il Principe di Machiavelli riducendolo in pillole scontatissime da distribuire ai suoi clienti (pardon: studenti) è una strizzatina d’occhio eloquente a proposito della sovrapponibilità di Malerba al Presidente delle tre I.
Si percepisce di dantesco un evidente richiamo all’inferno, come anticipato. Livio Viola è però uno che la diritta via non l’ha mai smarrita, dal momento che nulla ha sin lì fatto per starci almeno un po’ o per cercarla. La sua dimensione è quella, più propriamente, dell’antinferno: pur non essendo un vero pusillanime, è attratto da idoli plurimi e disparati. Le donne, il cinema, scrivere: per ciascuno di questi nutre un’ammirazione soverchia, ma per nessuno è disposto a rinunciare alla quiete insofferente del suo vivere. Fantastica incessantemente su battute folgoranti di non si sa però quale film: non lo sa neanche lui; ne ha collezionate circa una dozzina e con quel’abbozzo (aborto) si reca a colloquio con un possibile produttore. Al solito straparla (il passo è esilarante e imbarazzante insieme), non ascolta, mentre il suo interlocutore cerca di dirgli che lui non è quello che Livio crede, il produttore, ma il fratello gemello. Il pensiero corre a Kafka, al Castello: il colloquio tanto agognato qui si risolve in un nulla di fatto perché l’agrimensore K. si addormenta, lì si ribalta nel suo contrario. Livio fallisce perché ha sbagliato persona (come Zeno sbaglia funerale): è lui a parlare a ruota libera, dicendo peraltro un mucchio di sciocchezze, il presunto produttore, al contrario, tace. Un Kafka degradato, senza metafisica, carnevalizzato, reso grottesco.
Livio è un condensato contemporaneo (si vorrebbe poter dire post-moderno: ma si sbaglierebbe strada) di spezzoni di vite di illustri personaggi del Novecento, ma anche ben più lontani. Ha la stoffa del picaro: un picaro dei nostri giorni, che si muove in spazi angusti e soffocanti, per lo più, ma con la stessa leggerezza di chi non ha che velleità, non ha attese e deve sbarcare dannatamente il lunario. Un picaro rinnovato nella curiositas e nell’energia vitalistica da quell’Augie March di Saul Bellow, ma anche un Portnoy (citato, tra l’altro, in un dialogo del romanzo) scontento, ipercritico, idiosincratico, erotomane che vuole e disvuole essere normale.
Il libro di Michele Lupo è passato ingiustamente quasi inosservato. Non conosco le vicende editoriali, se l’autore lo ha presentato a case editrici più grandi prima della piccola Besa, per certo, anche il solo godimento del testo avrebbe dovuto garantirgli una circolazione molto maggiore e meritatissima.
La lingua impiegata dall’autore, riconfermatasi di recente nella raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo, 2010, è proteiforme. Sanguigna, elettrica, sfacciata, colta, espressionistica. Poetica. La lingua ora di un saltimbanco dell’anima, ora di un virtuoso, ora di un consapevole/inconsapevole nipotino dei nipotini di Gadda: ma non di quelli della seconda generazione, dei cannibali, per intenderci, da cui si ribadisce, anzi, una distanza abissale. Un autore che può stare accanto, con gli opportuni adattamenti epocali, come a parenti più prossimi, a Manganelli, a Ceresa, a Ceronetti, ad Arbasino: nei confronti di quest’ultimo si avverte nel libro una sotterranea ammirazione per l’intelligenza acuta, il gusto dissacratorio, la parola colta. Una lingua stratificata, densa, capace di associazioni inusitate e precise, che il lettore consapevole riconosce come irrinunciabili, felicissime, perfette per la cosa rappresentata e per lui, per il suo godimento. In questo senso è possibile invocare, con cautela, la definizione di barocca anche per la lingua di Lupo, perché barocco è il mondo. Lingua e struttura narrativa si soccorrono vicendevolmente: su entrambe vige come un velo una nonchalance, una sprezzatura, una specie di flânerie, che abbandona il campo della fabula, come attratta da un’altra vicenda o il campo di un dato registro, per sondarne un altro. Ma tout se tient: in un modo che i racconti de I fuorisciti hanno confermato, questa apparente distrazione, quest’avidità di sguardo, pari solo alle diverse avidità dei suoi personaggi, è ricondotta ad un ordine: le vicende sono strettamente tenute in pugno, non vengono aperti ingenui rivoli e rivoletti che dilagano, ma canali ingegneristici che conducono le acque del racconto, tra salti, deviazioni, chiuse, ritorni, ad un unico grande fiume.
Certo coraggio intellettuale può non essere piaciuto a chi si aggira nei corridoi, o nei meandri, delle majors. Lo sguardo beffardo, chirurgico, acido con cui Lupo indaga e mai assolve il mondo circostante, di chi sta di sghimbescio alle cose, non paga. Dopo aver cannibalizzato il mondo, e dunque digerito, è ora di estrometterlo sottoforma di cacatine esistenziali: non troppo puzzolenti, per favore. Da circa un decennio, con rare eccezioni, il panorama letterario sforna dei piagnistei irricevibili. Senza contare la letteratura di consumo, ché di quella non fa conto parlare, che grandi case tranquillamente mettono in circolo, ove si narra di amori sotto terra o sopra il cielo e di colpi di spazzola, per palati deboli che non sapranno mai cosa sia un vero libertino dei nostri giorni. (Lucia Tosi)

Michele Lupo, L’onda sulla pellicola  
Nardò (Lecce), Editrice Besa, “Lune nuove”, 2004


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