Paesaggio con incendio
minimum fax
Ernesto Aloia, già autore di raccolte di racconti – marchio minimum fax, come questo Paesaggio con incendio - e di un romanzo Rizzoli, è uno che scrive bene. Mi piace dare subito un’idea della sua prosa (il narratore descrive una donna che non è più quella di una volta): In attesa di diventare polvere Stefania, che era stata una bellezza bionda e vistosa, ricordava piuttosto una barca tirata in secca e lasciata per anni in pasta alla salsedine, sotto la frusta delle intemperie, con la vernice che si stacca a larghe pacche e lo scafo che si sfascia al sole.
L’evidenza con cui lo scrittore torinese cura ogni frase – e non si tratta di frasi “semplici” evidentemente – appare qui e a ogni pagina; alla brillantezza descrittiva corrisponde un ritmo sempre all’altezza, in questo romanzo un allegro continuo di ammirevole tenuta che scandaglia paesaggi, situazioni e rovelli interiori dei personaggi (se dovessi indicare un limite nel libro di Aloia è che il racconto rischia a volte di disperdersi in troppi rivoli e di smarrire la tensione necessaria).
Il personaggio principale è Vittorio, uno storico quarantenne che come ogni estate per due settimane se ne torna assieme a moglie e figlia in una vecchia casa sull’Appennino.
Questa volta però è diverso, l’elegia che si accompagna sempre ai ricordi dell’infanzia è scartata da un lutto recente, quello della madre, che Vittorio non riesce a scrollarsi di dosso. Il suo controllato cupio dissolvi contrasta con il desiderio deciso della moglie di avere un altro figlio. Una sorta di contrapposizione fra vita e morte è dunque il portato di queste due vite nel momento in cui le incrociamo noi lettori; contrapposizione che i due cercano di tenere faticosamente a bada in uno scenario meno rassicurante di quanto non accada nella recente narrativa italiana incline a una rappresentazione mitologica, non di rado ingannevole, dell’Italia contadina o comunque “paesana”. Nel libro di Aloia l’affacciarsi lento ma implacabile di un nucleo di odi atavici, di passioni ingestibili, di mali soffocanti che corrono fra gli abitanti e i villeggianti non sempre desiderati del luogo, sembra essere meno di maniera e più realistico.
In special modo, una coppia di amici qui è perseguitata dall’ex spasimante di lei, ormai uno psicopatico, ricco e nullafacente, che non ha perdonato quello che nel suo delirio è uno sgarro fatto alla sua persona. Preso dalle proprie inquietudini, Vittorio non capisce subito quello che succede, laddove la moglie, pittrice mancata, cerca di recuperare nei suoi dipinti un senso a quel momento. Quella luce, quei segnali mobili alla ricerca della verità del luogo sono anche la premessa per tornare a vivere sul serio, mentre lui vorrebbe fermare il tempo nel sogno di un’età felice che non solo è fittizia ma lo blocca e non lo fa andare avanti. In quella luce si nasconde in realtà un delitto, la possibilità del male, che va visto per ciò che è. Nel miraggio di un tempo mitico rischia di cristallizzarsi infatti anche il risentimento, un irrazionale e inestinguibile desiderio di vendetta per i presunti torti subiti: “n paese i rancori crescevano mostruosi, smisurati; in paese, i pregiudizi com’è noto sono duri a morire, se ci si fissa con le colpe di qualcuno, con le sue manchevolezze, non c’è scampo.
Un thriller atipico che sgombra il campo minato e sin troppo frequentato negli ultimi tempi dall’editoria nostrana di un’idealizzazione dark-folk di montagne e dirupi e rovine. Di un’Italia che non si sa più dove sia.
Michele Lupo