12 mar 2011

Donatella Di Pietrantonio


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Donatella Di Pietrantonio è un’esordiente. Scrive da quando era piccola, dice l’aletta di copertina, fiabe, poesie, racconti, e per campare fa la dentista per bambini. Nel romanzo Mia madre è un fiume, dell’editore romano Elliot, racconta la malattia di una donna, la cui vita e i cui ricordi perduti da un impianto neurologico in disfazione, la figlia - voce narrante - cerca di riconquistare a un senso, un significato, una dignità esistenziale da strappare alla perdita. Lo scavo, la sollecitudine della narratrice riguardano ciò che è stato fuori, nel mondo quasi ancestrale di un Abruzzo senza tempo, e ciò che si è scritto nel rapporto, difficile, doloroso, fra loro due. Il rendiconto è complicato, scavare nella memoria fa male, peraltro con il senno della madre è tutta una cultura contadina che sembra allontanarsi per sempre. La figlia, cercando di aiutare la madre, stringe il racconto in immagini un po’ ansiose che dovrebbero renderlo visibile, quel mondo, anche a lei. Le ferite non si rimarginano e i personaggi delle terre appenniniche sconosciute ai più ma non dissimili dal resto del mondo contadino centro-meridionale si affacciano sulla scena come pietre trascinate da una slavina, pronte a perdersi eppure dure, coriacee. Storie di migranti, di andate in guerra, di lavori mal digeriti in città.

In Mia madre è un fiume sembrano tornare certi echi rurali di tanta narrativa tardo verista, ma, piuttosto che articolati in una narrazione fluente, appaiono fissati in pochi tocchi, di rallentata emotività, a volte sapienti, a volte stucchevoli. Ora, a giudicare da questo inizio d’anno l’editoria italiana sembra puntare molto su una letteratura femminile che insiste a mostrarsi tale fine all’apoteosi del clichè: intimismo, poeticismo, nonne e zie, disgrazie assortite, malattie, ricordi che vanno e vengono, sintassi raccolta in frasi brevi – altrove, ho chiamato tutto questo “profondismo”. 

Rispetto al repertorio di suddette convenzioni, il romanzo di Donatella Di Pietrantonio garantisce un dettato sopra la media, e dimostra una certa abilità nella costruzione. Si riscontra un’apprezzabile tenuta della lingua che bilancia i rischi di una narrazione evocativa, che ha il difetto però di non rivelare mai niente di particolarmente disturbante, di tradire le attese che il tono talvolta contegnoso richiama, e benché intense le sensazioni che corteggia non lasciano il segno più di tanto. Anche in questo libro largheggiano sussiegosi sostantivi astratti che cercano di afferrare verità definitive, un po’ sentenziose, fra personaggi talvolta interessanti talaltra meno, un po’ rapsodici, tutto in una terra d’Abruzzo che resta un po’ mitologica un po’ favolistica anche se la storia si dipana a distanza di molti decenni da quella raccontata in un altro libro recente ambientato da quelle parti: La pazzia di Dio di Luigi De Pascalis, romanzo inscritto dentro una riconoscibile tradizione storica ma di sicuro meno monocorde e più solido nell’architettura narrativa. Scrittrice da rivedere.
Michele Lupo


Donatella Di Pietrantonio  
Mia madre è un fiume
Elliot 



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