Ne
sentivamo la mancanza. Poi, in questo paese che a volte ti verrebbe di sognare
luterano, severo, bergmaniano, finalmente è arrivata: lei, la salvatrice,
l’emancipatrice, la vera femmina che non muore mai, che non è quella che scende
in piazza (ma le piazze nei borghi italiani non stavano prevalentemente in
alto, appena sotto il castello?), ma la femmina archetipica, prima ancora che
mignotta: l’ironia, l’ironia italiana sparsa ovunque come un prezzemolo da
supermercato, buona a giustificare qualsiasi porcata o pochezza (perlopiù
coniugate), a salvarsi il culo qualora cambiasse l’aria, si sa mai, a non farsi
beccare in castagna quando la proposizione è lasca, fessa, improbabile: spesso
e volentieri.
È
arrivata la sera del 12 febbraio, la sera del teatro “Dal Verme” (ironico, anzi
no), quello dell’enorme mucchio di pus che dirige “Il Foglio” – giornale pagato
dai contribuenti, da te lettore (ma non lamentartene, cerca di essere ironico)
– circondato da un certo Camillo Tristo, chierico rimasto traumatizzato da piccolo
appena si è visto allo specchio, convinto assertore come il suo capo(doglio)
purulento della probità del magistero del papa-sorcio (un tedesco non avvezzo
all’ironia se non involontaria, ma di stanza in Italia da tanto di quel tempo
che all’occorrenza – nel caso per es. improbabile che rischiasse di vedere la
magistratura intromettersi nelle faccende della Banca Vaticana – pronto a una
svolta anche lui), salvo rimestare le carte in corso d’opera perché se il
prezzo da pagare alla coerenza protestante è la disfatta, sempre meglio darci
dentro di cazzo e di bordelli non essendo stato eletto casualmente a sacramento
l’esercizio della confessione – dalle parti loro, intendo, di Santa Romana
Chiesa della domenica, e gli altri giorni chi s’è visto s’è visto.
Dopo
la performance nel ventre del “Verme” insomma (teatro il cui nome non era tutto
un programma come pensate voi che difatti non avete colto l’ironia), bello
cucco e avvinazzato, s’è presentato in televisione (la7) dal duo
Costamagna-Telese, giulivi e allegretti pure loro – siamo italiani – un altro
dei paladini del mucchio di pus di cui sopra (bisogna dire, pura letteratura
vivente, quest’ultimo: magnifico e irripetibile esemplare di correlativo
oggettivo, una composta coprostatica riassunta - si fa per dire - in una vis fescennina lì lì per sbrogliarsi
in diarrea). Il paladino, certo Dajefoco, si sperticava in applausi, al
“Verme”, dava di gomito al coprostatico spronandolo a una performance
spettacolare, eroica; ignaro, il siciliano piromane, o forse incosciente, della
sciolta in arrivo (una lezione su Kant a Umberto Eco, mica cazzi); più tardi,
brillo, è arrivato in tv, s’è assiso, ha sorriso, s’è passato una mano sui
capelli come a sistemarsi un riporto che fortuna sua non aveva, e l’ha detta.
L’ha detta la parola magica, la parola passe-partout più sputtanata d’Italia
dagli anni Ottanta a oggi dopo “libertà”: ironia. Ha sfoggiato un largo e
furbesco sorriso e ha ammonito la Costamagna – un biondo traliccio elettrico
imperturbabile - che come al
solito non si capiva il carattere “ironico” della performance. Ce l’aveva,
Dajefoo, senza dirlo, con un certo genere di coglioni, quelli così apostrofati
dal porcello di Arcore, quelli che avevano pensato di non votarlo, quelli che
non avevano capito che il duce d’antan non faceva male a nessuno, avendo escogitato il “confino” non come una
punizione bensì come una vacanza forzata per “rinfrescarsi le idee” (peraltro,
ad alcuni toccarono in sorte paesini dal clima salubre, con vedute niente male,
non come gli alberghi della costa abruzzese, notoriamente non il meglio della
regione, cui il porcello era stato costretto dalla sfiga che lo ha attanagliato
in tutti questi anni, a parcheggiare i terremotati aquilani).
Insomma
Dajefoco, autore pare di romanzi pupari, rideva; rideva non dello sconcerto del
traliccio – che non v’era – ma di quello immaginabile nella serie dei coglioni
di là dallo schermo; e anche prima, mentre il liquame intestinale del
capo(doglio) sommergeva il “Verme”, se la ridevano anche il cyborg Santanché, e
il paleofascista ministro della Difesa, che s’è interrotto solo un attimo per
pigliare a calci un altro coglione che si era permesso di fargli due domande
sull’affaire Ruby, la zoccola del
Rif, montagne care ai freak de ‘na vorta (le canne difatti fanno ridere). Il
coglione era un giornalista, d’accordo, ma poco ironico. Io l’ho ascoltato
Dajefoco, e debbo dire mi sono divertito; insomma mi sono istruito, ho
imparato, sono persino arrivato a una conclusione. Che per gli altri, per i
giornalisti che in questi venti anni di merda si sono astenuti dal fare
domande, e che hanno fatto pure una redditizia carriera, mi piacerebbe
immaginare una sobria Norimberga. Vorrei sentire quel mantra così poco
liberale, “ho obbedito agli ordini”. Sarebbe spiritoso, quasi ironico.
Ironicamente, la sentenza sarebbe forfettaria: dieci anni per uno a pulire i cessi,
a scuola. La mascotte di Tremonti, la signora diventata avvocato in Calabria e
assurta a (ironico) capo dell’Istruzione, sarebbe contenta per il risparmio. E
dentro, nella composta aula di cui sopra, porterei anche il “bivacco di
manipoli” e mignotte che in questi anni ha legiferato per noi.
Naturalmente,
sono ironico.
Una speranza non la si nega a nessuno; ne ho una tutta per me. Mi auguro che non venga in mente a nessuno, fra venti o quarant'anni, di proporci versioni aggiornate della "Grande Storia", quella che
abbiamo visto per anni su rai 3. Specie quel genere di puntate sui gerarchi fascisti o gli uomini del fuhrer