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Venerdì 11 Febbraio 2011 07:12
La pazzia di Dio è una saga ambientata in gran parte nell’Abruzzo a cavallo fra Otto e Novecento e fa parte di una trilogia dedicata alla famiglia Sarra, schiatta di proprietari terrieri. Nel libro assistiamo alla storia di Andrea, prima bambino, poi adolescente e infine – quando un secolo fa le età della vita conoscevano rispetto a oggi un’accelerazione non troppo divertente - ragazzo maturo abbastanza da ritrovarsi nel carnaio infernale e senza senso della prima guerra mondiale. Le pagine migliori, non prive di momenti emozionanti, sono proprio quelle che arrivano assieme al conflitto. Fino a quel momento, il ragazzo “d’inverno sopportava la vita e d’estate gli pareva bella”. C’era poi stato il “Collegio degli Scarrafoni”, a Napoli, e lì aveva cominciato a capire che il mondo era un posto più infido di quello che pensava. La guerra fa il resto. La pazzia di Dio sottesa a quella degli uomini si prodiga per il solito servizio ai pochi delinquenti di Stato – inutile ricordare ignobili figure come il generale Cadorna, cui pure non hanno mancato in questo tristo paese di dedicare piazze e monumenti - esaltati più o meno interessati che invocano la guerra “come igiene del mondo”.
La delusione successiva al conflitto, per gli ingenui mandati a morire, sarà cocente. Il protagonista è un po’ più sveglio, del resto “la dichiarazione di guerra è uno specchio magico, ognuno ci vede dentro quello che vuole”, lo avvertono una volta lì. E non ci mette molto a comprendere a cosa serva; qualcuno sibila: “I soldati vanno al macello per spirito di branco. Solo che i generali preferiscono chiamarlo spirito di corpo”. La guerra, viatico ingannevole di svolte capitali, promessa non mantenuta di nuove terre, via per scongiurare quella per molti ben più spaventosa di un’indesiderata emigrazione, più pitocca che epica, il terrore dell’Oceano da attraversare per raggiungere gli Stati Uniti o l’Argentina, la guerra scellerata degli straccioni impreparati e malissimo equipaggiati insomma, costituisce solo un’amara iniziazione alla vita, che non termina nelle turpi trincee, ma con il ritorno a casa, nell’immaginario paesino abruzzese nella Valle del Sangro. Niente è come prima agli occhi del reduce, se non l’apparente ripetersi del moto lento delle montagne abruzzesi: mentre l’epidemia spagnola enfatizza lo sfacelo, l’elegia e il candore lasciano il posto all’amarezza di scoprire che quel mondo, come era stato vagheggiato, forse non era mai esistito.
La narrazione soggiace a uno stile limpido che simula a tratti l’oralità e addolcisce anche la ruvida asprezza delle rocce abruzzesi; si tiene dentro un tono costantemente alieno da spigoli o effrazioni, in una sorta di verismo favolistico, domesticato però solo in apparenza – siamo dalle parti del romanzo storico, anche sensibile a richiami mitologici, che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già sappiamo. La lettura è gradevole sebbene percorra disegni narrativi tanto sapienti quanto convenzionali, senza schivare qualche ingenuità (il bambino che manca l’iniziazione erotica assistendo a un amplesso dal classico pertugio: il narratore scrive che il membro “era duro come un pezzo di legno”, laddove lui lo vede soltanto). Non propone attraverso una vicenda esemplare (la tipizzazione di una famiglia e del suo contado) una rilettura della storia sparandole grosse, né difetta nella ricostruzioned’antan. Un buon libro però con un netto sapore di déjà vu.
Michele Lupo
Luigi De Pascalis
La pazzia di Dio
La Lepre Edizioni