Uno studio di Massimo Arcangeli
Non solo sulla lingua degli scrittori Massimo Arcangeli si sofferma nel libro Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva (l’editore è Carocci). Guarda soprattutto alla pratica dell’italiano diffuso, meglio, di quel che resta in giro di una lingua che sembra soffrire più di altre l’ondata di barbari che tanto eccita un noto scrittore torinese adorato dalle signore di una certa età anche perché lui l’affaire lo sbriga pescando nel trovarobe della copia “graziosa”, del ricalco mellifluo, della “succedaneità” morigerata.
L’ultimo sostantivo, diciamolo, è davvero brutto, ma all’autore (l’Arcangeli, non l’holden fru-fru) piace talmente tanto da utilizzarlo in proprio nel testo, laddove per fortuna alcune parole si limita a proporle come esempi da sottrarre all’oblio (come l’aggettivo “morigerato”): a mio avviso con qualche rischio. Stante la puntualissima registrazione del disastro in corso, dell’impoverimento drammatico di una lingua che ha smarrito per strada quote gigantesche di un lessico potenzialmente corposo e che sul piano dell’articolazione sintattica (quella che dunque investe la sfera ragionativa) sembra salvarsi soltanto fra sparute nicchie di parlanti, a fronte di tutto questo, le iniziative sulle parole da salvare o da adottare (ce ne sono state diverse negli ultimi anni) e la scelta delle medesime, ovviamente arbitraria, lasciano il dubbio che non possano aiutare la causa più di tanto: ognuno, si tratti del singolo parlante che propone un termine, o dell’associazione culturale, o dell’iniziativa di un giornale, si muove secondo gusto personale e si rischia, assieme al recupero di lemmi necessari, anche il ripristino di oggetti linguistici troppo legati a un’epoca, a un clima, a un mondo “andato” per non risultare involontariamente parodistici (“appropinquare”? “aviostazione?”: mah).
Arcangeli – e potremmo farlo anche noi da un istituto di istruzione superiore – porta la propria testimonianza di insegnante universitario per raccontare e documentare la povertà lessicale inquietante di troppi dei suoi studenti (di linguistica!). Risulta evidente dalla grande mole di dati ed esempi come la lingua italiana abbia toccato il punto più basso della sua storia repubblicana – non troppo casualmente. Lingua ormai insieme “selvaggia”, “triviale”, cui si contrappone nell’uso un ammuffito ma inestirpabile burocratese, per non dire delle idiozie del politicamente corretto (l’“individuo della strada” delle femministe), dei “fatti e misfatti” dell’“itanglese”. Lo studioso non si rassegna e nemmeno accetta l’idea di Franco Brevini di affidarsi pacificamente a un “italiano standard” che troppo rischia di assomigliare alla lingua omologata (scusate la parola davvero abusata) di cui sopra.
Egli vi oppone un italiano della memoria, non dimentico della nostra tradizione letteraria, intenzione forse lodevole ma a suo modo controversa per i motivi citati sopra. A meno che non si tratti di tessere le lodi – non nuove peraltro – di un classico come Pinocchio, “per le presenze che strizzano l’occhio all’espressività tipica dei giovani”, per la sua vivacità: mi permetto di suggerire che persino una lettura improvvisata ad alta voce consente non disagevoli variazioni, all’impronta, per rafforzare quel che di vivo già contiene nel ritmo, nella voce, nel respiro.
Salviamo il salvabile; non volete picchiare il vicino che parla (e/o scrive male)? Tappategli la bocca. Non leggetelo. Ignoratelo.