Tommaso Pincio
Hotel a zero stelle
Laterza, Pag. 229 Euro 12,00
Il viaggio, l’altrove, sono temi da sempre presenti nella narrativa di Tommaso Pincio, variamente declinati e destinati a confluire in un motivo che al viaggio sta per inevitabile struttura: l’hotel. Motivo che in questa obliqua autobiografia, Hotel a zero stelle, va inteso in un senso non solo letterale. Perché se alla precaria dimora che esso rappresenta non senza offrire al narratore e all’autore empirico molteplici seduzioni, anche infime, l’hotel dello scrittore romano si fa pensare e descrivere come “viaggio” esso stesso: spazio da attraversare dall’irrequieta selva oscura del primo piano al paradiso dell’ultimo, dalla scoperta della menzogna come “condizione inevitabile dell’esistenza” alla “necessità di ribellarsi alla morte” per trovare un qualche senso alla vita. Poiché il viaggio di Pincio intreccia (con lodevole abilità) vita e scrittura, finisce per imbattersi nelle unità proprie agli alberghi, le stanze: in esse incrocia i destini di scrittori inquieti e trepidanti: da Kerouac a Fitzgerald a Simenon, da Dick a Landolfi a Pasolini.
Intanto gli alberghi partecipano di una “natura” precaria, fantasmatica. In essi la “realtà” sembra messa fra parentesi, come le vetrine dei negozi d’arredamento che ammaliavano l’autore da ragazzino, prima di capire che erano avvincenti proprio perché improbabili. Astratte.
Le bettole soprattutto hanno un loro fascino, e qualcosa può sempre capitare. Pincio è affascinato dall’imprevedibile; ci racconta di aver rinunciato a un lavoro sicuro e ben retribuito per cercare una propria strada di artista - non il pittore che pensava in un primo momento, evidentemente. A partire dal celeberrimo quadro di E.Hopper, 'Nottambuli' (ancora: niente di solido, fisso, borghese, determinato) difatti prende dolorosamente consapevolezza del vero rapporto che un artista ha con i suoi simili: scopre come la malìa del dipinto per lui non abbia niente da spartire con il portato esegetico messo a disposizione dagli studiosi. Il fascino di 'Nottambuli' per Pincio sta nel fatto che avrebbe voluto farlo lui. In occasioni come queste, ci sentiamo defraudati di qualcosa che uno spiritello sinistro ci fa sentire come nostro; direi che il passaggio verso il momento in cui dovremo capire che non abbiamo il talento necessario a fare quella roba lì è una possibile declinazione del viaggio: non la più divertente.
Dalla rinuncia alla pittura alla cogitazione più estesa sulle tracce del fallimento (l’inferno del secondo piano, lo spettro che inquieta il narratore), dell’impostura, della menzogna, il cammino si fa però interessante. L’ambiguità contrassegna la vita di molti scrittori (è quello che Pincio ama in Kerouac, conservatore e cattolico molto meno disinvolto di quanto si sia abituati a pensare). In questa insistente ricerca di segni perturbanti o ingannevoli ma non propriamente evasivi, non stupisce che il luogo (terrestre) d’elezione sia l’Oriente. In esso, nell’indicibilità di città impossibili come Bangkok o Saigon (confermiamo), chi vive perennemente come in esilio trova qualcosa che gli assomiglia – lo sapevano Parise o Graham Green. Quanto al fallimento, da Simenon a ritroso fino a Balzac (due lavoratori mostruosi!) forse la stessa riuscita letteraria ne caldeggia un altro, non artistico ma morale, affettivo: i bravi romanzieri hanno spesso un cattivo rapporto con la madre, pare. E il fallimento è ad avviso di Pincio il tratto decisivo dei personaggi dello scrittore francese (per questo, sostiene, in fondo i suoi romanzi si assomigliano tutti).
L’autore de Lo spazio sfinito in questo libro dall’andamento piano, avvolgente - una tonalità in minore impastata in una prosa limpidissima - ci parla di sé quasi scusandosi, comparendo con carsica discrezione mentre cerca di mettere a fuoco nuclei decisivi di altre esperienze umane e letterarie. E elabora una sorta di involontaria trama della letteratura novecentesca. Dove non può mancare David Foster Wallace, il cui fallimento ha i tratti grandiosi di una storia da cui forse per molti anni non potremo prescindere. Intanto, l’uomo in grado di concepire architetture concettuali e linguistiche senza paragoni con gli scrittori della sua generazione, non riuscì a tenere a bada il male che partiva dalla stessa mente artefice delle prime; di più, tutto il suo lavoro sembrava ispirato a una domanda che oggi sembra essere la domanda politica (letto bene: politica) per eccellenza: perché, visto che siamo in grado di riconoscere questo tempo come un tempo sovranamente stupido, non siamo in grado di allontanarcene?