http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=1033
Ho già scritto altrove a proposito del trittico di racconti Non abitiamo più qui che Andre Dubus non è stato certo uno scrittore spettacolare, che era lontanissimo dagli effetti speciali, e che era piuttosto uno scrittore sobrio, ma terribile.
Avevo anche scritto che le sue “sono storie normali e amare di rapporti coniugali fallimentari, di vie di fuga, di illusioni, di tradimenti, di gelosie e rimorsi più o meno convinti”. E che era “un grande ermeneuta di personaggi comuni, di gente che mette a rischio il proprio equilibrio e quello domestico perché non sa rinunciare non tanto al sesso come potrebbe sembrare a prima vista, quanto a un minimo di vitalità all’interno della relazione coniugale”. Ecco, in questo tremendo racconto lungo che è Voci dalla luna anch’esso tradotto da Nicola Manuppelli, anch’esso da Mattioli 1885, qualcosa cambia. E aggiusterei il tiro. Di normalità è più difficile parlare, anche se la relazione coniugale resta al centro del racconto. Solo che è un centro collassato. Uno spazio difficilmente abitabile, se non forse da qualcuno che per farlo rischia tutto quello che resta, salute mentale compresa, almeno quella che gli consenta di tirare avanti.
Ricorda Manuppelli nell’introduzione che nelle storie di questo ideale, geniale discepolo di Cechov, “pochissimo succede nei fatti, ma moltissimo succede nelle teste e soprattutto nei cuori dei personaggi”. Non so se ci abbia lasciato qualcosa di più rispetto a Carver o Yeats (del secondo fu allievo), cui è stato avvicinato da molti. Certo, nulla di meno.
In Voci dalla luna nelle trame di una famiglia scassata e molto americana, seppur cattolica invece che protestante, poche figure scolpite in una materia ponderosa si affannano a cercare la loro personalissima salvezza a patto di tagliare i ponti con le sorti altrui: le rispettive traiettorie non si incrociano se non urtando violentemente una contro l’altra.
Il giovane Richie che vorrebbe farsi prete ha un bel lottare contro la sua vocazione, in una famiglia nella quale il padre decide prima di scoparsi poi addirittura di sposare Brenda, l’ex nuora, ossia la cognata del ragazzo. Prega di farcela, ma non ne è affatto sicuro. Quando entra in casa, l’ansia di trovarsi di fronte il peccato in carne e ossa e il bisogno insopprimibile di amare tutti indistintamente, ne sferzano la fibra come una frusta di corda spessa. Il cuore gli batte forte, gli ci vorrà del tempo per farsi venire il dubbio che se Cristo ha portato scompiglio e scandalo in quella famiglia non è stato per tirargli un brutto scherzo ma per saggiarne la resistenza. Essere tristi è la croce, si dirà a un certo punto della storia. E si sforzerà di combatterla, quella tristezza, con un esito finale che preferisco sia il lettore a scoprire – sono tre o quattro pagine da custodire come un dono prezioso.
Del resto il padre cerca di non farsi mancare niente, non si accontenta di godere dell’ex moglie del figlio Larry. Sogna pure di lasciare la sua attività commerciale, che così tanto bene gli ha reso, ma non può farlo. Di lì, il “riemergere di una tristezza che lo forzava a essere brusco”. Cerca di spiegare a Larry che è solo “colpa del divorzio”; se lui fosse rimasto con sua moglie non sarebbe successo nulla. Il rendez-vous fra i due è di un’intensità rara, il lettore avverte persino il peso dei corpi che si muovono appena nella stanza. “La volontà è per quegli stronzi che scrivono libri” dice il padre, la volontà non ha potuto nulla né nel fallimento del suo matrimonio, né in quello di suo figlio. Così nulla ha da fare ora con il legame che si è costruito fra lui e Brenda: “è successo”, dice Greg. E sembra persino crederci.
Dubus guarda e racconta tutto, per larghe scene, entrando meravigliosamente nei recessi psichici più remoti dei suoi personaggi, senza mai un giudizio esterno, mai niente di detto che non sia il frutto dei loro pensieri o degli altri che li guardano a loro volta. Così assistiamo quasi traumatizzati dall’emozione al flashback che ci riporta alla crisi fra Larry e Brenda, al sinistro gioco che aveva preso loro la mano di portarsi a casa uomini sconosciuti: Brenda li faceva godere e godeva con loro, Larry si toccava immaginando e sentendo tutto in un’altra stanza: la donna alla lunga non regge e trova rifugio nelle braccia del suocero.
Ciò che colpisce nel racconto di Dubus è che nemmeno fra loro in fondo si giudicano – fanno quello che possono, si lasciano per lo più, ma cercano di capirsi, o di perdonarsi. Non è solo compassione, visto il male che si fanno a vicenda. E’ come se comprendessero l’inevitabile irriducibilità di ogni singola esistenza, delle ragioni insopprimibili di ognuna. C’è in questa scrittura una forma di accettazione della vita che è una lezione quasi insostenibile. Vale non solo per i sentimenti. Greg sa che a volte le persone, e pensa al figlio ballerino e attore, all’altro più piccolo che vuole farsi prete, alla stessa Brenda che sarebbe potuta diventare una ballerina professionista, “hanno queste doti e non sono tenute a farci dei soldi. E’ una cosa che devono fare, perché il rischio è quello di perdersi. Se gli levi quella cosa, continueranno a sopravvivere, potrai toccarli e parlare con loro. Ti risponderanno, anche. Ma nessuno sarà più se stesso”. Nessuno lo sa meglio di uno scrittore – e Dubus di cose ne sapeva molte, e le raccontava da dio.