libertà dei servi
Visto che non ne possiamo più, anche solo
di pensarlo, diciamolo subito: il saggio di Maurizio Viroli ci servirà perché a
futura memoria si tengano presenti le responsabilità ennesime di questa gente
italica che non è mai diventata popolo, quella che adesso tutti fanno a gara a
paragonare all’ignaro chiamato in causa da Ettore Petrolini perché “non buttava
di sotto” il frescone che lo fischiava. Fino a ieri gli stessi hanno tessuto
l’elogio della “straordinaria comunicazione” che teneva insieme la servitù e il
suo padrone di Arcore: i bisogni terra-terra, il parla come mangi e la cultura
da strapaese.
Professore ordinario di teoria politica a Princeton,
Viroli è uno degli ultimi a tentare in modo non approssimativo di definire la
natura politica dell’Italia berlusconiana che sembra sempre lì per finire e che
siamo in molti a temere non finirà (presto) anche tirando le cuoia l’uomo
(l’uomo?) che ce l’ha regalata. Oddio, tirasse le cuoia proprio ora ne
farebbero un martire – che almeno faccia l’unica cosa che ci sembra ragionevole
anche se nessuno nel blablabla infingardo dei poveri notisti politici che ci
ritroviamo lo dice mai: andarsene alle Bahamas o dove vuole lui purché fuori
dalle palle. Dal “Corriere” giù per li rami, infatti, nonostante la citazione
petroliniana, ancora si pratica la retorica della dialettica dei poli,
omettendo quel che ognuno volendo sa, che Berlusconi mentre cerca di difendersi
dai processi in corso quotidianamente combina affari da produrre super-lavoro
nelle procure: fuori dalla politica il posto per lui, tecnicamente parlando,
resterebbe quello che oggi riservano ai ladri di polli. Indovina indovinello.
La libertà dei servi, Viroli doveva dapprima scriverlo in inglese perché gli
fu chiesto di spiegare agli anglosassoni, increduli, cosa succedeva in Italia –
e anche questa è una vecchia storia.
La ricerca fatta dallo studioso concerne
il nome giusto da dare a questa fase della storia italiana, e utilizzando la
lezione di Cicerone, Machiavelli, La Boétie, egli conclude che non siamo
propriamente in una dittatura (in Italia si vota, esistono giornali
contrapposti a quello del signor B etc), meno che meno siamo in presenza di
totalitarismo o dinastie di tipo asiatico. Il potere di B. secondo lui è
totalmente legittimo (su questo, anche restando alle mere procedure come si
sforza di fare lo studioso di stanza in America, non sarei così sicuro, visto
il modo in cui B. ha aggirato la legge del ’57 sull’ineleggibilità dei
concessionari pubblici che avrebbe dovuto
impedirne la stessa candidatura – approfitto qui per dire una cosa che penso da sempre: la Lega Nord, ossia un partito che si dichiara(va) fuori dello Stato con
l’esplicito obiettivo di farne uno a parte, avrebbe dovuto essere messa al
bando da subito: la sua lotta avrebbe dovuto condurla, per ovvie ragioni
politiche, fuori dal parlamento, ne fosse stata capace, manu militari)
La cifra vera del nostro presente per
Viroli sarebbe il sistema di corte, quello in cui un uomo solo o una stretta
oligarchia si circondano di una moltutidine di servi. In questo sistema gli
uomini e le donne sarebbero formalmente liberi; tuttavia, un elemento
caratteristico della corte, il potere enorme di chi lo possiede, finisce per
renderlo arbitrario (qui Viroli non sembra sicurissimo e tende a oscillare da
un formalismo teorico-costituzionale all’ovvietà del buon senso che ci
squaderna ogni giorno exempla di un dominio più indiscreto dello stesso
fascismo – si veda il neurolinguista George Lakoff e il suo Pensiero
politico e scienza della mente, con i
suoi concetti di frame e inconscio
cognitivo che dimostrano come una visione del mondo possa costituirsi molto in
profondità nelle nostre menti, specie se c’è qualcuno che può decidere per noi
il racconto di riferimento: nessuno al mondo può farlo meglio delle tv di
Berlusconi, non perché sia bravo, ma perché il frescone di Petrolini etc) .
Sosteneva Cicerone che nel sistema di
corte si crea dipendenza. E mai come in questo caso, dai mezzi di B. dipendono
molto persone che volontariamente servono il padrone, a differenza dello schiavo
o del mero suddito che sono costretti a obbedire con la forza.
Torna un pensatore caro al paradiso, La
Boétie, che mostrava come l’allargamento del cerchio dei servi (volontari)
possa soppiantare numericamente quello di coloro la cui dignità impedisce di
accettare un regime così umiliante. Quelli che traggono vantaggio dalla tirannide,
e non si fanno scrupoli di meritersala, sono impastati in una mentalità di
adulazione, soffrono di un’esibita mancanza di dignità (gli italiani la
chiamano furbizia), di una marcata ossessione per l’apparenza. Questa poca
stima di sé degli italiani, esemplata dice Viroli nella figura di Arlecchino il
quale presume di non saper fare niente e quindi trova normale il servire, era
stata a suo tempo decodificata in un testo che non casualmente la scuola
italiana ha ignorato per almeno un secolo e mezzo (ma anche oggi non è che le
nostre professoresse ci vadano a nozze…): parlo del Discorso di Leopardi sugli italiani.
B. replica un modello in qualche modo
presente nel Quattrocento, quello dei Medici che costruiscono una corte
all’interno della repubblica (ma con forza ben minore, il Magnifico: non le
aveva mica le televisioni lui). Un potere così persuasivo casomai ha potuto
vantarlo la corte vaticana del ‘500 o del ‘600, un modello che ha portato alla
perfezione lo stile del cortigiano: parlare com simulazione, intuire quello che
vuole il signore prima che egli lo dica… La paura domina sovrana dalle parti
della servitù. E se parli loro di fierezza morale, be’, ti ridono in faccia. Se
B. dovesse fare il grande passo, quello di togliersi dai coglioni, a maggior
ragione se gli concedessimo pacificamente di farla franca, non potremmo
obbligarlo a portarsi con sé, nelle sue isole, qualche milione di italiani?