Totalitarismo imperfetto, si è detto spesso a proposito
del fascismo, non solo per evidenziarne crepe o faglie interne all’ideologia in
sé (nella sua elementare rozzezza, una visione del mondo con i suoi paradigmi sistematici
non più contraddittori di altri), ma per registrarne empiricamente le zone di controllo
più lasche, quelle che fino alla prima metà degli anni Trenta aprirono
temporanee vie di fuga probabilmente sconosciute al nazismo e allo stalinismo. Il
caso del cinema, per esempio: del cinema americano. Prima della classica
“fabbrica del consenso” mussoliniana, agisce l’industria hollywoodiana. Miti e
sogni che sono l’oggetto di indagine del libro di Gian Piero Brunetta (l’editore
è Marsilio), “Il ruggito del Leone - Hollywood alla conquista dell’impero dei
sogni nell’Italia di Mussolini”; che si sofferma soprattutto sulle strategie
pubblicitarie che permisero alle majors (non solo la Metro Goldwyn Mayer) di
invadere il mercato italiano dagli anni Venti.
Esse seppero approfittare delle condizioni provocate dalla
Grande Guerra e delle difficoltà socio-economiche dell’Italia coeva. Dunque,
dell’assenza di un’industria cinematografica. E di una ricettività
evidentemente ben disposta verso le tipologie di racconto proposte con
l’ausilio di una molto accorta e poderosa strumentazione commerciale. La
macchina era ovviamente molto ben organizzata – non senza tratti coercitivi,
peraltro: si pensi al sistema del block-booking
attraverso il quale l’esercente era obbligato ad accollarsi pacchetti di film
di dubbia riuscita (e qualità) assieme al titolo di sicuro successo.
La questione più interessante a nostro avviso (seppure non
fosse questa l’intenzione dello studioso) è il tema della conciliabilità fra un
immaginario d’importazione e uno autoctono, imposto – non sarebbe il caso di
dimenticarlo – con la forza da Mussolini. Se qui non funziona la classica
contraddizione fra gli ovvi privilegi del potere che si concede in privato
quello che vieta in pubblico (il duce si godeva i suoi film americani nella
sala privata di villa Torlonia), sarebbe da approfondire il tema della frizione
interna al regime fra l’american way of
life e un certo antiamericanismo che al fascismo non ha mai fatto difetto.
Vero che, non casualmente, nel momento in cui esso si accentuava sul piano
politico-culturale (di pari passo all’antisemitismo che non può ridursi a una
mera contingenza politica obbligata dai rapporti col nazismo e confluita nelle
Leggi razziali del ’38), le maglie del mercato cinematografico statunitense in
Italia si strinsero drammaticamente.
Vero altresì che se il regime per più di un decennio aveva
abbondantemente lasciato fare, ossia permesso che il pubblico si crogiolasse dentro
onirici pomeriggi hollywoodiani, ciò accadde in virtù degli specifici tratti “poetici”
di quella cinematografia: il cui scopo fondamentale – perciò stesso apprezzato
da gerarchi come Bottai – era l’intrattenimento. Per lo più, la proiezione di un
film americano costituiva una piacevole sospensione dalla militarizzazione
ideologica quotidiana, possibile perché percepita dai più come innocua, evasiva
ma non certo critica rispetto al tentativo politico di costruire una propria
mitologia: quella della Tradizione. Un immaginario non particolarmente
pericoloso, dunque, strutturalmente “popolare” come ricordava Alberto Savinio
contrapponendolo a quello degli intellettuali.
Brunetta ha buon gioco nel sottolineare come la sala
cinematografica cullasse lo spettatore dell’epoca in una bolla di piacere grazie
a un racconto filmico fatto di ricerca del benessere, di individualismo
edonistico (contrastante assai con la retorica del regime, occorre dire, non
con una inclinazione storica dell’homo italicus che nei fatti il regime stesso non
seppe né volle osteggiare davvero), abbastanza innocente, di gioia di vivere e
passioni amorose a lieto fine. Una via di fuga, anche, dalle pressioni politiche.
Non casualmente l’autore ricorda come il cinema europeo
più avantgarde fosse viceversa
temutissimo e ostracizzato dal regime. Dal canto suo, in un libro recente (Il volo del cinema) di Raffaele De Berti
si individuava nelle sperimentazioni futuriste il côté modernista del fascismo.
Esso poteva convivere con la propaganda dei cinegiornali e lo sbarco di divi e
storie d’amore e di libertà che venivano da Los Angeles, col loro corredo
pubblicitario di riviste illustrate e rotocalchi che rafforzavano l’interesse e
la partecipazione del pubblico (l’analisi di Brunetta al riguardo è molto
documentata e il testo si avvale di belle fotografie d’epoca, brochures, locandine, francobolli coi
volti dei divi). Se pizzicagnoli e parrucchieri sognavano di assomigliare a Robert
Montgomery, ancor più numerosi erano coloro che speravano prima o poi di
incrociare sulla loro strada Greta Garbo. Che americana non era, ma il
dettaglio ai loro occhi doveva risultare davvero trascurabile. L’aura
funzionava a meraviglia.