La vendetta del traduttore
La vendetta del traduttore (il romanzo che leggiamo noi, Marsilio) è mise en abîme e insieme messa in scena di questo travaglio tra filologia e arte, sottolineatura del senso e creatività della storia, semantica della frase e perizia del narrare. Non poteva che portare la firma di un traduttore-scrittore di estrema consapevolezza quale si dimostra il marsigliese Brice Matthieussent, traduttore cresciuto fra i testi di Joyce Carol Oates e Bret Easton Ellis, certamente e fin troppo addentro alla ludica disposizione metaletteraria anni Ottanta, fra l’Oulipo e il Calvino terminale (in tutti i sensi) la cui prima pagina di Se una notte d’inverno è chiaramente rievocata nell’esordio di questo romanzo, ben tradotto a sua volta (e mai come in questo caso ricordarlo è fondamentale) da Elena Loewenthal. Il romanzo nel romanzo sul quale finge di lavorare Matthieussent (sul quale si esercita il suo narratore aggiungerei, e se riflettiamo sull’ulteriore distanza che passa dall’autore empirico all’”io” che appronta per la bisogna del caso, la complicazione fa un passo ulteriore) si chiama Transaltor’s Revenge e parla di un famoso scrittore francese ormai decotto, Abel Prote, e del suo traduttore americano, David Grey, costretto ad anfanare appresso a un discutibile romanzo intitolato N.d.T. Il traduttore ora è chiamato a mettere in riga il suo pretenziosissimo autore. E così fa anche l’autore del libro “vero”. La struttura metaromanzesca che appassiona ormai poco in questo caso è però necessitata dal tema, dal carattere congenito dell’opera, non si limita insomma alla rappresentazione di uno sterile gioco e se su questo aspetto possiamo tranquillamente sorvolare, ciò che fa del libro di Matthieussent un oggetto letterario interessante è che in fondo inscena nel suo farsi una vera lezione di scrittura. Un libro da consigliare agli aspiranti scrittori e ai traduttori sommari.
Hai da fare tutti i giorni con parole altrui. In una lingua che conosci magari come la tua ma che talvolta, non troppo raramente, nei romanzi con i quali lavori non dà il meglio di sé - lo sai benissimo, ci sei abituato. Ma non è detto che non arrivi il momento che non ce la fai più. Di mestiere fai il traduttore, di letteratura per la precisione, si dà il caso che sai di cosa si tratti. Perché ti dà da campare, il tradurre, ma per te la letteratura non è solo un mestiere (d’altri), ma una passione. Hai tradotto anche scrittori di valore, hai letto tutti i classici fondamentali della tua lingua; sai – lo hai imparato con il tempo, a forza di leggere quelle altrui - come si manda avanti una storia e certe volte hai l’impressione che il tuo autore non sappia bene come procedere con la sua.
Così, con pudore e rispetto ma anche sicuro delle tue ragioni, arriva il giorno che inizi a correggere. Proprio così, a correggere il testo di partenza, quello che stai traducendo nella tua lingua, con la precisa intenzione di migliorarlo, di farne un libro più interessante di quello originale, più convincente. Sai soprattutto infatti che nelle sfumature di significato, di espressione, il gioco della lingua e del tradurre impattano l’aspetto decisivo della partita; che lì si annidano le insidie e le opportunità per cui un lavoro mediocre può diventare un romanzo discreto oppure si può distruggere quello che in partenza era un ottimo racconto. E se il tuo stesso lavoro di emendamento conosce con i momenti successivi intoppi ulteriori – perché, diciamolo, stavolta ti è capitato un romanzo sbagliato dall’inizio alla fine – finisce che l’acribia delle tue mosse s’intoni a un puntiglio meticoloso, accanito, sì da trasformare, com’è inevitabile e giusto, una questione estetica in un’operazione etica.
Questa è La vendetta del traduttore, il regolamento di conti di un professionista non privo di un qualche talento con la mediocrità di scrittori, magari sopravvalutati, che il mondo editoriale impone al mercato e del quale “l’umile trascrittore” conosce benissimo infamie e modestie. E si decide a un certo punto a cancellarle, con dovizia di dettagli, passo dopo passo, riga dopo riga, pagina dopo pagina. Implacabile, disgustato dalla pochezza del testo d’avvio, lo azzera, a partire dalla congerie degli aggettivi inutili, dagli avverbi pleonastici e che spesso finiscono per indebolire una frase laddove pensavano di darle forza, raschiando via i cascami stucchevoli di metafore e similitudini soporifere, e avanti così fino alla risoluzione definiva che il testo di fronte a lui è sostanzialmente inemendabile e l’unica sorte che merita è di essere sostituito (reinventato) da quello del traduttore, dimentico del progetto originario di disseminare appunti, considerazioni, digressioni, parentesi, note varie e felicemente avviato a una totale riscrittura.