Magari per i più è probabilmente sensato ritenere che dai Sessanta in poi ci siamo pian piano avvicinati alla catastrofe – presente. Considerazione che se vale per tutto l’Occidente, suonerebbe a maggior ragione plausibile per l’Italia. Eppure, se con Cattivi Soggetti, un libro del 1988 ora ripubblicato da Iacobelli, in cui Renzo Paris rievoca momenti, personaggi, storie del ’68 e degli anni immediatamente successivi, egli non dà l’impressione di andare controcorrente rispetto alla vulgata, è fuori di dubbio che la prima parte, stretta attorno a quell’anno fatale, appare piena di figure che, stando al suo racconto, avresti poca voglia di incontrare.
Vero che un titolo del genere te lo immagini volutamente antifrastico. Per un attimo ho pensato di domandarglielo, all’autore, se fosse questa la sua intenzione. Poi mi son detto che preferivo stare al testo. Alle impressioni, all’umore di fondo (e nessuna pretesa oggettiva: occorrerebbe una verifica più approfondita, in un testo fatto anche di minuzie descrittive e umori sottili). Concludendone che per lo più, al netto del garbo che al narratore non fa quasi mai difetto, questi soggetti se non cattivi certamente non ti fanno vibrare dall’emozione. Intellettuali, amici (amici intellettuali) amori con i quali lo scrittore pervenuto a Roma da un paesino dell’Abruzzo fa un pezzo di vita insieme negli anni topici della “contestazione” – spesso senza l’agio che ti aspetteresti a dire il vero. Si tratti di Goffredo Fofi (per il quale l’unica letteratura possibile all’epoca era il volantino) o di Nanni Balestrini (dopo alterne vicende, e frequentazioni non immuni da stridori “politici”, l’autore finisce per non salutarsi nemmeno durante un incontro casuale in libreria); o di Franco Fortini, afflitto da “un rodimento oscuro”. Figure di militanti irrigiditi nelle loro certezze un po’ stolide, alteri di una spocchia abbastanza irragionevole. Umanamente non proprio meravigliosi (Asor Rosa almeno sembra oscillare dall’ideologia al riconoscimento di un’autonomia del testo letterario che in quel momento in certi ambienti equivaleva a una bestemmia).
Sorte migliore pare quella capitata a Rossana Rossanda, verso la quale il giovane scrittore palesa un’amabile soggezione, o alla Morante. E ancora più ad Amelia Rosselli la cui voce, scrive Paris, gli “andava per le ossa come un farmaco esplosivo”.
Poi ha ben ragione di scrivere e lamentare nel 1988 che no, “non siamo tutti dei riconciliati”, che non è vero “che esiste soltanto il mercato mondiale”. “Cari post-tutto (…) perché parlare di pentitismo soltanto per i carcerati che vogliono uscire?”.
Insomma, anni sciagurati i successivi a quello fatale (che in realtà era una fine), ma l’astratta, caricaturale rigidezza doveva essere di troppi. Tanto che lo stesso Paris, un “cane sciolto”, da qualche parte definisce il proprio memoir “un’uscita di sicurezza, ironica, dall’immaginario politico di tutta una generazione”. L’osservatore giovane e sensibile, troppo “letterato” per essere al tutto ideologizzato, in questa vita intensa di incontri, pare tenersi spesso sulle sue, un po’ scettico ma abbastanza sentimentale. Non so quanto dipenda da una strategia stilistica (sarebbe conforme al tipo di racconto: l’io narrante un po’ goffo, in disparte, per far emergere i personaggi) quanto da una limpida “verità” biografica; vero però che il narratore è spesso lì, dove le cose accadono. E fa la sua parte. Anche negli anni successivi. Compreso il celebre – o famigerato – festival dei poeti a Castelporziano. Con tutta la gazzarra della “nuova società dello spettacolo”.
Capitolo dopo capitolo, l’attenzione al dettaglio non impedisce al giovane scrittore di guardare l’intero. Vale per Angelo Guglielmi (“sospettoso, attaccante sulla difensiva”), per Bifo (incontrato a più riprese, esagitato per struttura costituzionale senza che gli anni sembrino intaccarlo minimamente), per il garrulo Arbasino come per Nanni Moretti (del quale Paris sottolinea la giovanile insistenza nel voler fare l’attore: e sarebbe stato un bene se si fosse limitato a quello). Se spesso le donne sembrano meglio degli uomini, non vale quando si tratta di gruppi più o meno anonimi di femministe chiassose. Riunioni grottesche (in casa propria, ma come succedeva ai poveri maschi di allora, Paris ne era tenuto ai margini) di donne così gravide di una storia secolare repressiva che non sapevano fare a meno della ridicola convinzione che ogni male avesse a che fare con il “padre”. E ancora, fra Sessanta e Settanta, marcusiani contro marxisti, sedute di autocoscienza indiziarie dello sbandamento successivo, e maoisti duri e puri. Ma alla fine ciò che resta, anche dei decenni successivi, sta fra le pieghe del racconto; nella descrizione degli ambienti, per esempio di alcuni quartieri romani, dell’aria che tirava in certi pomeriggi grigi o nelle esplosioni di sole e di vitalità improvvise (ma ci sono anche l’India, New York, Londra). E nel modo in cui questo scorrere del tempo s’impasta alla vita dei personaggi. E le loro piccole vite si confondono con la Storia. Questo è quello che a Paris riesce meglio. L’essenziale, forse.
La presente edizione contiene anche materiale nuovo: alcuni versi inediti di Pasolini e una lettera non esaltante del giovane Moravia che chiede a Galeazzo Ciano di partecipare all’aggressione africana per comporne un libro.