Benjamin Stein è il nome dell’autore. Un ebreo tedesco nato negli anni Settanta a Berlino Est. Die Leinwand (La tela) il titolo del romanzo. Di questo strano doppio romanzo diviso in due anche nell’impaginazione, nella rilegatura e nella copertina, speculari, che può essere letto a piacimento, partendo da una parte o dall’altra, in modo che il finale, ammesso che di finale di possa parlare, coincida con l’incontrarsi delle due storie al centro – anche materiale – del volume. Date queste premesse e trattandosi di un libro che esplora il tema dell’identità, forse può essere interessante e non troppo casuale la scelta di ogni singolo lettore, se cominciare leggendo la storia di Amnon Zichroni, “ebreo osservante col dono di rivivere i ricordi degli altri”, oppure partire con la versione di Jan Wechsler, personaggio chiave del romanzo che appare verso il finale dell’altra parte.
Lo scrivente dopo essersi rigirato il libro fra le mani diverse volte, ha optato infine per il primo solo perché nell’incipit compare la prima persona singolare (con ciò confermando una riprovevole attitudine individualistica). Se la “tela” del titolo risulta pertanto obbligata, il dittico è unitario. Ciò che ne complica l’opera è piuttosto l’iperfetazione di frammenti in parte ispirati alla vicenda di Binjamin Wilkomirski (pseudonimo di un musicista svizzero, Bruno Dössekker) che nel 1995 divenne praticamente una star pubblicando un libro di memorie, scopertosi poi un falso, su Auschwitz. Così come accade nel romanzo di Stein: Amnon Zichroni, a Zurigo incontra il liutaio Minsky, lo sprona a mettere per iscritto i suoi ricordi su un campo di sterminio; ne verrà fuori un libro di grande impatto sul pubblico, salvo per gli attacchi del giornalista Jan Wechsler che lo ritiene una bufala.Il triangolo identità-verità-memoria non è complicato soltanto dall’accusa rivolta a Amnon di aver manipolato l’immaginazione del suo amico, di averlo indotto a raccontar fole attraverso l’ipnosi, ma dall’altro lato della cerniera, quello tessuto dalla voce narrante che porta il nome di Jan Wechsler. Editore (e autore fragilissimo), dal momento in cui gli viene recapitata una strana valigia che avrebbe smarrito (a lui non risulta) è costretto a farsi inquietanti e destabilizzanti domande su se stesso. Sulla possibilità che vi sia un in giro un omonimo, la cui vita ha a che fare con i libri, come la sua. O sull’eventualità che qualcuno gli abbia rubato in qualche modo l’identità (con la sua memoria). O forse no. Perché se “sono i nostri ricordi a fare di noi ciò che siamo” e la loro tessitura si sfilaccia, s’ingarbuglia, si scompiglia, ne va della nostra stessa vita. Per questo Wechsler ha bisogno di provare a se stesso, e ai suoi familiari, chi egli sia davvero (e cosa abbia fatto in passato). Non è un caso che sulla scena ritorni Amnon, lo psicoanalista dalle strane “esoteriche” virtù. Una testimonianza, La tela, della duttilità del genere romanzo, delle sue possibilità, di come e quanto sia ancora il modo più ricco per parlare dagli uomini agli uomini. Che in sostanza vuol dire disegnargli una mappatura del pensabile, aggiungere elementi di conoscenza al suo disorientamento, anche se a farlo – paradosso che solo l’arte conosce – è un individuo la cui biografia, come nel caso di Bernjamin Stein, parrebbe quella di un ebreo ortodosso e osservante della Legge (in teoria, con qualche certezza in più di noi). Invece non è un caso che Die Zeit lo abbia definito “il punk fra gli ortodossi”. Che come definizione non è niente male: la letteratura è complicata non molto di più della nostra vita. Sta solo lì a ricordarcelo.