4 mag 2012

Evelina Santangelo


dal recensore,com

cose-da-pazzi
Evelina Santangelo (di cui mi piace ricordare la cura di un libro straordinario comeTerra matta) scrive con Cose da pazzi (Einaudi) un romanzo fitto fitto sulla città di Palermo.
Anzi su un suo preciso quartiere, Spina, narrato con un’acribia del dettaglio, un’attenzione acuminata alle minuzie del quotidiano che sono la sua sostanza precipua. Costruito intorno alla vita e all’amicizia di due ragazzini in particolare, il romanzo della Santangelo inventaria la vibratile esistenza del quartiere – una zona di Palermo formicolante di chiacchiere e botteghe, ben resa da una lingua molto concreta - attraverso scansioni domestiche minime, fatti a volte di scarso peso narrativo, setacciando la vita vissuta negli interstizi di tempo, nelle pause fra una cena e il letto per dormire, fra “Striscia la notizia” e “Scherzi a parte” – una sfida non da poco. Che è tale solo in apparenza, perché facendosi accompagnare attraverso gesti, dialoghi, bar e barberie, interni famigliari e la scuola che frequentano Richi e Rafael il lettore pian piano penetra in un mondo che in luogo dell’apparente levità sospesa fra bozzettismo e sit-com televisiva (ma calato in un impasto sensoriale vivissimo, come se trascinati da una macchina da presa in grado di restituire odori e suoni del quartiere) slitta per passaggi minimi verso la condizione inferma che vi è sottesa: quella di un potere criminale che tutto ingloba, senza, in questo caso, scene madri e clamorose efferatezze, ma omnipervasivo, ivi acclimatato come una seconda natura. Verso il quale i protagonisti sono indifesi e prima ancora ignari. Brulicante di vita, vi si sta, a Spina, considerando, come ovunque, beni preziosi quelli che la comunicazione globale impone come tali ma per il resto confitti senza trovare il modo di immaginare altro, come in un mondo senza alternative.
Qui entra in gioco il personaggio decisivo del libro, una professoressa, per giunta supplente, che saprà instillare nella mente dei ragazzini il dubbio che ciò che chiamano “recupero crediti” (il pizzo) è tutt’altro che una pratica normale, ma un reato. Una figura sociale – e credo di non forzare né il dettato del testo né le intenzioni dell’autrice - che Santangelo investe di un peso simbolico notevole, ribaltando l’odierno e ferocemente perseguito discredito che sugli insegnanti è stato montato da chi ha (avuto) tutto l’interesse per farlo. Ovvio che un personaggio del genere rischia di fare la figura del santino – e in letteratura nulla vi è di peggio. Cosa che Santangelo schiva in virtù di una costruzione che fa emergere scene e personaggi “dal basso”, grazie insomma a una voce narrativa abilissima nel mettersi da parte - il pericolo del romanzo piuttosto è quello di insistere negli anfratti, nelle spire e nei vicoli anche ciechi del mondo che racconta trascurando i cambiamenti di tensione, gli scarti di temperatura emotiva che nell’arco delle trecento pagine sarebbero stati qua e là provvidenziali. E’ la professoressa, precaria, che fa baluginare nella mente dei ragazzi l’idea non solo inopinata della legalità come valore, ma, quel che forse più conta, dell’esistenza, della possibilità di un altrove – ossia il diritto all’immaginazione, che non può non passare dalla consapevolezza che il mondo non sia quello che gli hanno raccontato fino ad allora.
“E come fai a dire che ti piace qua se non hai visto altro?”. La domanda di cui, nei giorni in cui una regista come Roberta Torre decide di lasciare il capoluogo siciliano perché ormai invivibile, più di tutto hanno bisogno i ragazzini di Spina, Palermo (Italia, più o meno).

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