21 lug 2011

Premi letterari e romanzeria in corso


sinagoga degli iconoclasti

dal paradisodegliorchi

Premi letterari e romanzeria in corso.

di Michele Lupo


Copertina
Dura la vita dei premi letterari. Ci racconta Sergio Garufi nel romanzo Il nome giusto (presto a recensione sul Paradiso) che in una passata edizione dello Strega, invitato regolarmente alla serata finale, venne apostrofato in malo modo da un tizio cui non piacque che egli si fosse presentato senza cravatta. L’episodio, verificatosi realmente, basterebbe da solo per dire del famigerato premio più di mille polemiche. A ogni modo, se al Ninfeo stavolta ha prevalso un libro forse minore di uno scrittore, Edoardo Nesi, però bravo - cui non saremo mai abbastanza grati per aver tradotto l’enorme Infinite Jest del compianto DFW – chi scrive è il primo a esprimere soddisfazione. Vero che Mario Desiati e il suo Ternittigià pronto per il cinema e abbastanza convenzionale ma dalla scrittura sagace potevano una volta tanto redimere Mondadori. Che L’energia del vuoto di Bruno Arpaia era ambizioso ma riuscito solo in parte. Che ci ha fatto prima sincera impressione sapere che il racconto d’esordio della teologa Maria Pia Veladiano rischiava di vincere, e che poi abbiamo provato un vero senso di sollievo alla notizia dello scampato pericolo (trovate le motivazioni in archivio). 
Qui al Paradiso invece prepariamo un premio senza cravatte – il più prestigioso d’Italia, va da sé, per il miglior libro italiano dell’anno, va da sé - e pensiamo, nonostante il moderato apprezzamento per l’estetica perbenista di Tommaso Labranca, che non solo ognuno si veste come crede, naturalmente, ma che non inviteremmo mai un coglione come quello incontrato da Garufi non a esprimere il suo voto ma a battere le manine al vincitore. Noi, che “non abbiamo pressioni ma solo passioni”, che non siamo amici della domenica ma nemici per la pelle degli avventizi che confondono la letteratura con le ubbie dei cortigiani, ci siamo presi carico di leggere il possibile, nella speranza di scovare un titolo memorabile per l’anno di grazia 2011. 
In questo luglio caldissimo, le letture continuano – non sia mai che tizio o caio rischino di non vincere perché il loro libro ci è sfuggito. Siamo scrupolosi fino all’ossessione. Di più: fino alla noia – che spesso ti avvinghia nonostante le migliori intenzioni. Perché romanzi italiani dalle differenti promesse e dai diversi fallimenti ne girano parecchi. Vediamone tre fra gli ultimi arrivati. 
Un libro ambizioso sino al punto di votarsi pregiudizialmente al fallimento è senza dubbio Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca, poeta prima che narratore, saggista, autore di un romanzo sui generis – almeno di questi tempi – assai poco maneggevole, estraneo al concetto di prodotto editoriale da misurare al mercato secondo i parametri della leggibilità “da ombrellone” oppure come opera midcult di dignitosa fattura e qualche pretesa concettuale per sentirsi più intelligenti fra le pieghe dell’entartainment. Frasca se ne infischia, spinge fino al dicibile (al leggibile) un récit di quasi seicento pagine narrando di gerarchie cattoliche alle prese con segreti inconfessabili e una discoteca non sai se più hortus conclusus o panopticon (il repertorio di oscenità che vi si svolge è proiettato in un circuito di home video): di sovrana effrazione del lecito e forse dell’umano. Il passo, l’attenzione alla lingua, dicono di un’attenzione da poeta poco interessato al “riferire” o al “rappresentare” del narratore; chiede uno sforzo al lettore che a tratti è ripagato dalla riuscita espressiva ma è indubbiamente estenuante. A meno di non rinunciare a una lettura lineare.
Dal canto suo, il giovane Vincenzo Latronico ha scritto un romanzo, La cospirazione delle colombe, edito da Bompiani, non particolarmente avvincente, nonostante la buona partenza, su due giovani di diversa origine e provenienza che cercano di guadagnarsi posizioni di prestigio e finiscono in un mondo – il nostro – che nell’odierna versione del capitalismo, in cui la mancanza di etica del mercato padroneggia i destini dei più, costringe molti a muoversi fuori dalle regole per avere il successo cui aspirano. 
Alfredo è figlio di un ricco imprenditore; Donka è un albanese figlio di nessuno, approdato all’Università Bocconi con una borsa di studio. La loro amicizia sembra solida, entrambi sono ambiziosi, si muovono fra università, imprese immobiliari, speculazioni finanziarie – e donne, va da sé. Ma le cose sono complicate, come sempre. La domanda che muove la storia è: cosa fare quando il talento è insufficiente, se “merito” è una parola vuota, se si è stronzi come i più? Che le colombe si trasformano in falchi, per esempio. 
Lo stile è piuttosto anonimo, il libro gira intorno alla diade falchi-colombe in maniera abbastanza corriva. Leggendo Latronico (al suo secondo romanzo), vien fatto di pensare come a un possibile nuovo Andrea De Carlo (coppie di personaggi A vs B, psicologia o sociologia giornalistica, lingua di pura comunicazione, magari plot…)
Un libro che si presenta in un’elegante e studiata sobrietà di confezione che vorrebbe forse rinviare alla natura del contenuto è quello di Roberto Ferrucci, Sentimenti sovversivi, per Isbn. Tutto compreso nello sguardo del narratore, ferocemente afflitto dall’Italia berlusconiana, vista a distanza dalla Francia, con essa ripetutamente messa a confronto, descritta con precisione e sdegno (condiviso da molti, vorremmo rassicurare l’autore, basterebbe leggersi un po’ di sinagoghe sparse negli ultimi tempi) in un testo che più che un romanzo si situa in una linea mediana fra il diario e il pamphlet, ma con poche sorprese e invenzioni, quasi come se il narratore fosse il solo a essere angosciato da questo paese e si accontentasse di questo “sentimento sovversivo” per licenziare un libro non particolarmente felice dal punto di vita narrativo, fin troppo compresso nell’angustia di un malessere senza sbocchi creativi. Vero che non sbaglia una frase, Ferrucci, che alcune pagine lasciano ammirati (per esempio quelle sulle imbarcazioni pesanti che mettono a rischio il fragile equilibrio di Venezia), o commossi (quelle per esempio sugli ultimi giorni di Berlinguer), ma sono davvero poche. L’idea dell’asilo francese che dovrebbe servire a scrivere un romanzo d’amore che invece non esce fuori perché l’ossessione per i cattivi tempi italiani prendono il sopravvento, non convince davvero; per quanto sincera e motivata sia l’amarezza del narratore, non c’è bisogno di ricordare che i romanzi non si scrivono con le buone intenzioni e i buoni sentimenti; la stessa lingua dell’autore testimonia che egli è il primo a saperlo. Che poi sia stato pubblicato prima in Francia, non significa granché: lassù, hanno fatto di Nanni Moretti una star. Ora come ora, noi siamo i peggio, ma pure i francesi – che vanno matti per gli antiberlusconiani - non le azzeccano mica tutte.

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