21 lug 2011

Torno giovedì ma o veramente

http://www.tornogiovedi.it/2011/07/torno-giovedi-ma-o-veramente/


Ischia. Mica solo perché è giovedì, è perché non è mai troppo presto per andarsene da Ischia – e non fate ’ste facce. Se sei sopravvissuto per esempio alle sue strade, che è poi una sola, ma calcoliamone la potenzialità mortale moltiplicandola per cento e avremo reso un’idea – del culo che ti ritrovi, per esempio, di quante volte al giorno hai rischiato di restare sfracellato in un frontale con uno degli allegri banditi che guidano come nemmeno in Giordania – fino a poco tempo fa la si considerava un’enclave meno efferata dei Paesi intorno che usano Allah per tenere chiusi a chiave le anime limbiche di milioni di bipedi, ma era un bluff: il miracolo di uscire illesi da un giretto in taxi ripetuto tutto l’anno aveva già lasciato sospettosi verso il raggiro come di fronte a una pubblicità subliminale, solo che qua si trattava del Padreterno.
A Ischia uguale. Hai voglia il bravo editore locale (Imagaenaria) che pubblica deliziosi libretti su viaggiatori illustri e sconosciuti che per secoli vi arrivavano da mezza Europa e ne decantavano bellezza e benefici termali e occasioni di bon vivre. Qualcuno sostiene addirittura che Michelangelo – un dio minore rispetto a quello menzionato sopra ma uno dei pochi di cui abbiamo certezza storica e convinzione intima – vi scendesse di tanto in tanto per trombarsi Vittoria Colonna, poetessa e soprattutto moglie infelice di Ferdinando FrancescoD’Avalos, condottiero che aveva sposato nel prestigioso Castello Aragonese, ma se l’era goduto per poco, l’omo, costretto a fare il suo mestiere di eroe nella guerra fra Spagna e Francia. Già allora, pieno Rinascimento, Ischia era un paradiso per poeti, musici e intellighenzia cortigiana (un ossimoro?). E fino a pochi decenni fa i Visconti, William Walton, Auden e… no, i pallosissimi elenchi di Arbasino li lasciamo a “la Repubblica”.
Ora? Ischia è un’isola fatta di isole, non nel senso dell’arcipelago. Piuttosto: se te ne stai fermo nel piccolo paradiso che ti sei rimediato tu – ammesso che la tua carta di credito possa sostenerlo – va anche bene. Ma se ti sposti di duecento metri sei fritto. La conoscenza e il rispetto del codice della strada è un vero handicap da queste parti. Se ti fermi per far passare un temerario sulle rare strisce pedonali dell’isola (giustamente penseranno che qui non hanno bisogno di ulteriori decorazioni) dietro non ti suonano: proprio scendono e te le suonano.
Se un voluminoso tassista con vettura Mercedes modello furgone (non so essere più circostanziato su queste cose – forse monovolume?) invade la tua corsia e tu non capisci che, avendo il paraumano necessità stringenti di sorpassare, devi sopprimerti da solo e in fretta con tutta la tua cazzo di macchinetta: uno dei due è di troppo. Ed evita per favore di sorprenderti a bocca aperta per una fermata dell’autobus in discesa su una strada molto stretta a doppia corsia per cui i passeggeri in attesa sono costretti a stare in fila uno accanto all’altro addossati al muro ben attenti a tenere i piedi entro la riga che limita la strada – e sempre ammesso ma con qualche dubbio che all’omone in Mercedes sia stato sufficiente piallarti come un bacarozzo sull’asfalto e non abbia avuto bisogno di far sentire la consistenza della sua carrozzeria tedesca sui poveri sfigati che si ostinano ad aspettare autobus che non arriveranno mai.
E poi a che pro? Quando ti sei goduto i bei giardini, a che serve girare da una spiaggia all’altra? A vedere quanto poco arenile sia rimasto? A misurare i metri mangiati alla sabbia e alla vista del mare da centinaia di barche che se la son comprata, l’isola, come tutto il mare italiano? A che pro farsi una passeggiata a Ischia Porto trasformata nella locale via Montenapoleone, piena di zoccolette nemmeno maggiorenni praticamente seminude alle dieci di sera (il gonnellino è di seta, gli infradito di pelle umana ma africana e la mia carta di credito non li sosterrebbe) che entrano nelle boutique con le novità invernali (!) senza nemmeno fare un fischio ai papà tronfi nelle loro barche attraccate di fronte al ristorantino in cui una famiglia avventurosa (lei, lui, due figli!) s’illude di saper vivere per una banalissima impepata di cozze en plein air.
Un paio di quelle zoccolette le hai già viste nel taxi Mercedes. E non le vedi invece al porto, al ritorno. Qua la barca in proprio non ce l’hanno, vengono a prendere il traghetto. Siccome la tragedia italiana è che la stronzaggine è interclassista, qui ti limiti a vedere coltelli che volano perché per certi napoletani che tu abbia il biglietto già da una settimana non significa niente. Loro devono tornare, “punto e basta”. Il punto e virgola non sanno nemmeno che esiste. Io invece sì. Tu coltello, io è giovedì, e debbo tornare a casa, guarda un po’. Io pure. E il biglietto ce l’ho.
Quando scarico i bagagli, do un’ultima occhiata al souvenir non richiesto che un buontempone ha pensato di lasciarmi sui vetri impolverati della mia Peugeot: “Impara a guidare, coglione”. Qualche zoccoletta l’hanno portata pure nel mio albergo, e manco me ne sono accorto.

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