Il nome giusto
Ponte alle Grazie
Il romanzo di Sergio Garufi – esordiente quarantottenne con una vita però passata a leggere e scrivere - appartiene a un genere di narrativa non frequentatissimo negli ultimi tempi, un romanzo poco sensibile alle ragioni del plot (ma non per questo privo di storie), o del puro intrattenimento, e ancor meno suscettibile di veicolare prese di posizione ideologiche acquattate nella comoda imbastitura di una finzione appiccicaticcia. Garufi svolge una variazione capricciosa, dall’andamento lento, rapsodico e non lineare, a tratti troppo fiducioso nell’uso dell’imperfetto, sul tipo del romanzo di formazione. Iperletteraria nella sola maniera possibile (letteratura che s’incar(di)na nella vita, osmosi continua fra formazione colta e concreto piegarsi alle banali ragioni dell’esistenza), la storia va avanti e indietro, quantunque il protagonista e voce narrante sia già morto – per un incidente stradale - e narri da animula vagula blandula che si aggira per le strade romane vicende riguardanti i suoi rapporti con le donne, i libri, i familiari, gli amici. Ciò facendo, regala squarci improvvisi di tensione, frasi illuminanti, scoperte e agnizioni non prive di una loro drammaticità.
È (era) un antiquario senza troppa fortuna, uno scrittore indeciso che cerca di passare il guado dell’opera, sommerso in un’apatia opaca; fa scelte poco comprensibili, poco azzeccate, si lega a donne con cui non ha nulla in comune, qualcuna dai tratti un po’ stereotipi (una tizia che vive con il massimo di organizzazione e il minimo di senso possibile, con la quale il protagonista deve accontentarsi di “scopate patinate”). Se l’universo letterario ingloba in potenza l’universo mondo, il terreno sentimentale sembra il più denso di spunti. Attraverso le donne che incontra, sembrano passare anche i momenti decisivi di una vita, assieme alla figura del padre, responsabile non poco della sensazione di non farcela che accompagna il personaggio, ferita com’è la sua vita da sempre, poco sicura di sé, afflitta da una sorta di angoscia del fallimento. “Basta poco per finire ai margini, io ne so qualcosa”.
Il romanzo è scandito in 15 capitoli, legati in maniera non sempre cogente a vari libri e autori amati dal narratore - da Borges, figura che sembra di sicuro più decisiva di altri (e alla cui memoria lo stesso autore empirico è unito da una preziosa amicizia di cui, diremmo, va giustamente fiero), a Leopardi, a John Ashbery, a David Foster Wallace, autore massimo verso cui si palesa una peculiare inclinazione del narratore, in virtù di un pensiero ricorrente dovuto anche a un motivo personale già accennato: il cattivo rapporto con il padre e la tentazione del suicidio.
La dimensione letteraria si evidenzia per via simbolica, per la riproposizione continua di significati da congiungere ai fatti, agli incontri, alle date. Del resto il narratore ha uno sguardo acuminato, allenato dalla grande tradizione figurativa e artistica, fatto di rimandi dotti ma non inutilmente libreschi.
Nemmeno come uomo di lettere però il Nostro pare sufficientemente a suo agio. Insegue l’opera, teme di mancarla, il che per uno innamorato di Borges non è cosa da poco (il grande argentino affermò una volta che si ci può dire scrittore se si è scritto dei libri: lapalissiano, forse, ma il limbo del considerarsi scrittore e giustamente non crederci sino in fondo perché le opere latitano, è un luogo abbastanza affollato - nella realtà, s’intende). La letteratura - per quanto a volte il narratore provi a diminuirne il valore (l’importanza che dice di dare ai comportamenti più che alle parole) - sembra una via obbligata per avvicinare brandelli di conoscenza, ma è la scrittura di un romanzo la vera sfida che lo attende, la riuscita della quale può rappresentare la svolta che potrebbe cambiargli la vita.
La lingua fluida a tratti s’impenna verso moderati preziosismi, in altri momenti vira verso il basso, riuscendo meno nella seconda soluzione che nella prima, per via del dettato tutto sommato liquido, armonioso della prosa. Un esordio maturo (controcorrente come usava dire un tempo) quello di Garufi, non perché tardivo, non perché consapevole della terribilità della vita, ma perché coglie con precisione magistrale e seducente il tono giusto del racconto, condizione imprescindibile per renderlo credibile, ossia per farsi ascoltare. E consentire ai lettori di sperare che la letteratura abbia ancora un futuro.