6 apr 2011

Da L'onda sulla pellicola


– E il film?
 
Una parola. Scene, personaggi, dialoghi. Come no. Magari inquadrature, campi, esterni. Perché non essendo propriamente niente, Livio avrebbe voluto essere tutto. Fare tutto – anche perché era difficile che qualcun altro volesse stare dietro al suo nulla. Storia, regia, interpretazione. Cala cala, piccolo. Non sai distinguere un teleobiettivo da uno sturalavandino. Perché, Pasolini sapeva il cinema? No, che non lo sapeva. All’inizio, almeno. Fellini dice peste e corna. Però ci aveva l’occhio, lui. E tu, tu ce l’hai l’occhio? Io, io ci ho la testa un po’ confusa. Giulia in primo piano e il figlio sullo sfondo. Che non schioda, cazzo. Non schioda.

Nonostante Livio sapesse (e molto bene: perché se era fortunato con le donne era solo per l’irresistibile ma fortuito rapporto di forme che si creava fra il taglio dei suoi occhi a mandorla e il volo insolente del suo labbro superiore: nella versione dell’ infermiera professionale Roberta Tisbrino quello che piaceva in lui era una specie di espressione perennemente schifata), nonostante dunque fosse chiaro che nella seduzione di uno sguardo o di una fisionomia non si acquattasse altro che quell’anomalia della natura per cui esso è avulso da tesori nascosti più di quanto ne componga la cifra, fu con Giulia che cominciò a guardarsi con gli occhi di un altro: gli sembrò che non potendo sperare in quelli risolutivi di dio, fossero gli unici possibili. Ora, a parte lo specchio delle sue brame che erano diventate le sue di lui e il sentore sinistro di una sfiga ogni qualvolta si frantumava, quegli occhi facevano un male cane. Come fossero piombati nell’incavatura delle sue ubbie (quelle sugli altri che lo amano lo soffocano e pretendono non si sa che, e sono il suo vero scacco, ciò che sospetta ha mancato da sempre). Come se le avessero sollecitate a uno sguardo continuo, intollerabile. Con Giulia si trovava di fronte a un’impasse: disintegrare la tirannia dell’io e consentire agli altri di essere ciò che erano significava subire quella di chi pretendeva che lui non fosse quello che era sempre stato: in nome dell’amore! Anche se sapeva che stava perdendo la testa per lei, che l’aveva già persa, non voleva diventare il suo fidanzato. Non voleva diventare il fidanzato di nessuno. Una sera si sparò tre seghe una dietro l’altra, così da svuotarsi di qualsiasi desiderio, soprattutto di quello di diventare il fidanzato di Giulia Armena. Quella volta funzionò, dormì a lungo. Ne aveva bisogno. Perché gli aveva messo una strana inquietudine addosso, quella donna. Giulia fu la prima e l’unica a intaccare la plausibilità dei suoi soliloqui, quel modo di parlare di chi sta sempre sul palco e fa della lingua un esercizio estetico, più che altro. Gli sottraeva terreno, lo scaraventava in un niente che lui rischiava di riempire con quel senso di colpa che permette poi agli altri di condannarci. Lo spaventava quella sua capacità di leggergli dentro pensieri o stati d’animo e di smontargli il giocattolo delle invenzioni piazzate a casaccio giorno per giorno e poi erette a sistema di tanto in tanto solo per darsi un tono che non fosse quello del monaco metropolitano che poi si fa cogliere giocoforza nella castagna del più scontato edonismo. Un maligno dio interstellare aveva inviato quella donna sulla terra per fargli toc toc sul petto e sentirne l’eco del vuoto; del nulla. Era questo l’amore, una mazzata.
 
– Però hai una faccia! – disse Fausto prima di andarsene. 
– Sembra la mappa di uno scontro, di una battaglia.
     
– Buonanotte.
 
 Andiamo! era un attore, lui! Un autore, Krishna. Tirati su! Aveva appena rubato in una libreria il manuale di Reisz e Millar, La tecnica del montaggio cinematografico (stava buttato per terra, aspettava solo che qualcuno lo portasse via). E allora impara qualcosa, Krishna. Lavora.
     Sì…
 Certo…
     Lavora…
     Gli piaceva troppo la sua fica, ecco il punto. Ne sentiva la rimembranza odorosa così a lungo che poi, all’inizio, si lasciò incantare anche dalle sue parole, come se piovessero da un pulpito celestiale, anche se non scevre di qual ispido tedio in quell’esposizione accentratrice del dolore che rende certe persone affascinanti perché insopportabili.  Non l’avrebbe mai sospettata in lui la scia di algolagnìa che gli solcò le vene di quell inverno troppo lungo – non sospettava che ne avrebbe sentito la necessità. Il sublime della passione sembrava destinato a impregnarsi dell’ uggia della compunzione. Constatava come un giorno o l’altro qualcosa potesse fottere il disincanto degli scettici più incalliti, o faciloni, un colpo secco che incrinava il piano d’appoggio di chi si era ormai parato il culo da ogni sorpresa sprangando la vita con il nichilismo blindato dell’indifferenza postmoderna. Certo, non ignorava il fatto che buttarla sull’epocale è la frescaccia disonesta con cui le persone colte si levano dall’impaccio di rispondere in prima persona delle loro azioni per di più facendo anche bella figura in società – ma non disdegnava un po’ di routine, ogni tanto: una débâcle intermittente da insonnia, qualcosa come una viltà del corpo, quella sfinitezza che rende un esemplare umano peggiore di come potrebbe essere. O anche questo era un esito dell’amore?



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