20 ott 2012

su Landolfi



diario-perpetuo-elzeviri-1967-1978Negli anni sessanta e settanta, in gran parte esaurita la sua vena migliore, Tommaso Landolfi si dette modo di sopravvivere e tenere in piedi un simulacro della sua arte scrivendo elzeviri per il «Corriere della Sera». Nonostante lo scetticismo non privo di angoscia che in questa fase terminale della sua vita tutto investe, fatica della scrittura compresa – o almeno, quella modalità di essa che se non altro richiede convinzione e determinazione: il racconto di storie di una certa lunghezza, per esempio – l’intenzione era di ricavarne un libro.
Diario perpetuo“, ora licenziato da Adelphi con adeguata ricostruzione del progetto interrotto dalla morte dello scrittore, è questo libro.
La contraddizione palmare di questi testi molto brevi (mini racconti dal sapore di apologhi sconsolati, ricordi più o meno fantasiosi di una giovinezza lontana, prose vecchio stile) presi nel loro insieme evidentemente, sta nella rassegna di un pessimismo talmente cupo da risultare a tratti persino didascalico e il costante ridisperdersi delle tracce di uno spirito elusivo, che non fa che sfuggire da tutte le parti. La scrittura vi gioca un ruolo fondamentale, si tratti di recuperare il vocabolo astruso, desueto, o di mascherare la violenza tragica di un destino nero con inserti lessicali o figurazioni sintattiche spiazzanti, tali da lasciare il lettore sospeso come si trovasse di fronte a uno scherzo. Ma sospettoso che il gioco, l’aspetto ludico dell’esercizio scrittorio in effetti sia non tanto la faccia buona del mondo, il polo positivo di una vita dal doppio segno, ma il solo modo di renderlo temporaneamente tollerabile.

Così, dire che Diario Perpetuo è un libro minore è possibile non perché non abbiamo di fronte un’”opera”, un’unica struttura narrativa organizzata intorno alla classica triade trama-stile-personaggi, ma perché mostra una specie di sopravvivenza fittizia dell’autore a se stesso. Esaurimento di quell’incanto, seppur nero, di fronte alla vita, senza il quale nessuna arte probabilmente è possibile e dispiegamento – direi esibizione, anche – dei mezzi stilistici che hanno letteralmente “scritto” la fortuna di un’avventura artistica tra le più significative del ‘900 italiano. Per dire, fare che cosa? Per ripetere il gesto di Sherazade in fondo e allontanare la dipartita definitiva reiterando però un rito paradossale: tenersi ben chiusi, barricati in una stanza, proteggendosi dalla morte che incombe e circonda il fuori scrivendo alfine di lei, delle sue facce infingarde (inganni e autoinganni, fugacità del vivere, illusioni infrante, passioni tanto “bui” quanto futili) inviando missive-elzeviri dall’anticamera dell’inferno ai lettori vuoi distratti vuoi fedeli delle cronache quotidiane. Vista dalla nostra distanza, non solo un’apotropaica messa in scena, ma l’epitaffio ermeneutico alla propria opera, memore di quella che fu un' "intormentita, malinconica, sognante disposizione.

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