http://www.youtube.com/watch?v=UuAD0J9weQM
Libro prezioso, i Pensieri
Verticali di Morton Feldman (Adelphi). E chi è, direte voi? Già, provate a
postare brani della sua musica su Facebook, dove magari avete duemila contatti,
almeno metà dei quali di persone interessate chessò all’arte, ai buoni libri,
al cinema, e metà della metà – almeno – che vivono professionalmente di
attività culturali. Nella bacheca dello scrivente il povero Feldman potrà
contare su un paio di “mi piace” a fronte di una decina di giorni di
inserimenti incessanti. Ammesso che qualcuno si faccia venire la curiosità di
sapere di che cosa si tratta, troverà probabilmente la musica di Feldman (1923-1987)– chissà - troppo
sommessa, uguale a se stessa (lo pensa, che a volte si sia ripetuto il geniale
americano, anche un intenditore senza paragoni come il maestro Mario Bortolotto
che scrive una postfazione al libro).
Il fatto è che nel rovesciamento delle gerarchie
classiche del linguaggio musicale, il musicista americano sottrae il primato
all’altezza delle note e alla loro durata in favore della dinamica,
dell’intensità e del timbro (semplifichiamo assai: i più interessati possono
leggersi uno studio di Marco Lenzi sull’argomento). Una
musica che è dunque innanzitutto concentrata sul suono, che spesso costeggia il
silenzio, che rivoluziona il concetto di tempo.
Pensieri
Verticali
attraverso una serie di piccoli brevi testi e interviste ci immette in questo
mondo come meglio non si potrebbe. Il musicista si chiede cosa ne sarebbe stato
della sua opera senza l’incoraggiamento di John Cage. E addirittura si domanda
che cosa ne sarebbe stato della sua vita senza Edgar Varèse (nella cui musica
“il suono forma i propri piani (…) e con slancio non rimane nessun suono,
nessun nota, nessun sentimento”). Perché se dal primo apprende – fra le altre
cose – a seguire il suo istinto, o quanto possa un musicista imparare dalla
pittura astratta (“Il mio interesse per la superficie è il tema della
mia musica. In questo senso le mie composizioni non sono affatto
'composizioni'. Si potrebbe paragonarle a una tela temporale”) dal secondo l’autore
del meraviglioso Rothko Chapel ruba persino “uno stile (…) un modo di
stare al mondo”.
Piace l’agilità, la sferzante disinvoltura con cui
Feldman – non primo di humour - liquida la musica che non ama. Sarcastico verso
Boulez, “una caricatura del nostro tempo”, verso la noiosa avanguardia di
Darmstadt (questi “enfants terribles di mezza età”) e la scuola dodecafonica
degli inizi salvando e in parte solo Webern: vi legge i modi di un accademismo
pedestre, una tecnica di calcolo anche nella versione dell’alea (cui pure è
interessato).
Feldman peraltro non si ferma a Cage né a una mera
poetica dell’indeterminazione. E anche la formula dell’“espressionismo
astratto” non ne riassume interamente la cospicua produzione. Scrollandosi di
dosso un po’ di pigrizia, il pubblico della musica potrebbe scoprire che quella
di Feldman è anche emotivamente ricchissima; ossia, a prescindere dalla
comprensione del suo linguaggio, intensa e sensibile alle mere ragioni di un
ascolto tutt’altro che cerebrale. “L'arte è un'operazione cruciale e pericolosa
che eseguiamo su noi stessi. Se non rischiamo, coma artisti siamo morti.” E se
anche come lettori e ascoltatori rischiassimo un po’ di più?