UNA SPECIE DI SOLITUDINe
Non era un tipo allegro John Cheever (1912-1982). Così perennemente vicino al tracollo psichico che prima di tutto, a leggere i suoi diari, pensi a quanto gli dev’essere stato difficile sfangarsela sino in fondo, la vita. Afflitto da una malinconia tetra, persistente, che non gli dava molte occasioni di tregua, il notevole scrittore americano poteva solo farle un po’ d’aria annotandone gli strappi più dolorosi e la fatica di sorreggere una creatività vibratile – fatta di antenne sensibilissime: l’eccesso di instabilità avrebbe potuto distruggerla, cosa che Cheever sapeva benissimo.
“Mi sento uno straccio…”, scrive in un giorno imprecisato degli anni Cinquanta; un giorno qualsiasi, come tanti altri, “…sono stanco di questo filo d’amore e di whisky, di coraggio e ricordi che è l’unica cosa che tiene insieme il mio mondo: sono stanco dei fili e di tutte le altre cose fragili”. E ancora: “Sono una fiamma tremolante con le emorroidi… dovrei imparare a essere meno intenso”. Leggerli per intero questi diari che Feltrinelli ha tradotto con il titolo Una specie di solitudine (vanno dalla fine degli anni Quaranta sino ai primi anni Ottanta), può essere straziante, ché il lettore si trova davanti al dramma di una precarietà psicologica ed emotiva incessante.
Per chi conosca anche poco dell’opera di Cheever è ancora più stupefacente scoprire come questa sensibilità mostruosa non gli abbia impedito di scrivere alcuni racconti meravigliosi – peraltro, di misurata giustezza compositiva. Il che non vieta una reciproca del ragionamento: se non avessero quel talento, uomini così psichicamente fragili rischierebbero ancora di più (bisognerebbe spiegarlo a recensori avventizi come il giornalista Gianni Riotta che ha parlato di “gioie e tormenti di un artista capace di vivere i sentimenti da uomo comune” - finirebbero internati se non avessero la scrittura, altro che uomo comune).
La prima parte, giunto Cheever ai quarant’anni, è forse anche la più penosa. Ancora lontano dai riconoscimenti che si aspettava, bloccato dalle sue fisime in una “nazione selvaggia di pugili e puttane”, che è anche il paese di uno scrittore, Saul Bellow, fra i giganti assoluti del secolo, ammiratissimo (laddove all’Italia Cheever pensa come alla massima “depravazione morale”). L’egocentrismo che gli è stato rimproverato non gli impedisce di essere così severo da concludere di non aver realizzato nulla di ciò si era prefisso come scrittore; e come uomo di non aver fatto un passo avanti, a meno di non considerare un passo avanti essersi rassegnato a se stesso. Un uomo che va a messa ma che non vi trova il conforto necessario, una pacificazione che duri più di qualche ora. Un uomo che adora sua moglie ma è inquieto anche con lei, che non sa bene come affrontare la pulsione omosessuale, né l’intermittente impotenza; e che non può fare a meno dell’alcool. L’alcool che finirà per incidere drammaticamente ancor più nei decenni successivi, nonostante la crescita conclamata della sua carriera. E insieme con tutto ciò un amore sconfinato per gli aspetti minuti del quotidiano – per la vita che accade ogni giorno. Per il colore dell’aria (uno sguardo, il suo, da pittore di fine Ottocento), l’atmosfera di un mattino qualunque. E una straordinaria capacità di descriverli, questi momenti minimi. Di passare dal tratteggio alacre di uno strascico di nuvole alla pura annotazione anodina di semplici oggetti domestici osservati lì per lì in elementare paratassi che nei diari di uno scrittore ha anche la funzione di sciogliere la tensione muscolare dello stile e fare pulizia delle scorie.
Nei momenti migliori, Cheever ritrova la felicità dei racconti, dei quali avevo già scritto: “Le sue architetture sono piccole e apparentemente evaporabili, ma in realtà la rete di allusioni, di rispondenze, di ritorni fra le situazioni e i personaggi, è tenuta insieme da una strettissima calibratura emotiva, un sistema di pesi e contrappesi che riporta le cose in un ordine tenace, nel quale la disgregazione degli affetti, la rinuncia alle ambizioni, il fallimento insomma si scrive attraverso un principio di verità tutt’altro che labile o occasionale”. Da leggere, i diari, assieme ai racconti, anche per vedere come a un artista di talento possa riuscire di sciogliere un’angoscia, una tensione esistenziale affilata e micidiale.