Il numero 33 della collana “Riga”, pubblicazione semestrale dell’editore Marcos Y Marcos, è dedicato a Andy Warhol.
La cura è di Elio Grazioli; i contributi portano i nomi (sono molti e
ne ricordo solo alcuni) di G. Ballard, J. Baudrillard, A.C. Danto, A.
Arbasino Pier Paolo Pasolini, Andrea Mecacci. Prima di questi scritti,
troviamo diverse interviste e un estratto di “A. Un romanzo”, dello
stesso Warhol. Che - diceva a Nancy Blake nel luglio del 1977 - non
poteva fare a meno del lavoro. Perché se anche non ci piace qualcosa
“dobbiamo farlo lo stesso”. Perché il lavoro “impedisce di pensare ad
altro”. In una pagina di diario scrive, ancora: “In fondo, cos’è la
vita? Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che
tenerti occupato”.
Non solo horror vacui.
Se da una parte, gli oggetti di un’esposizione non prescindono dal
contesto, e trasformano per esempio una mostra (ancor meglio, una
installazione, un’ambientazione) in uno “spazio sociale” (Mark Francis),
in questo modo azzerando la linea di demarcazione fra contenente e
contenuto, dall'altra, traslando il concetto dal tempo (che è tempo
occupato - Warhol sostiene di essere spinto all’attività da un’etica
protestante) allo spazio è interessante ricordare come il nostro
preferisca i vuoti (“se cadesse una bomba sarebbe carino”...). Nella
medesima intervista, alla domanda sulla differenza eventuale fra le
opere di quegli anni e quelle precedenti, risponde che si tratta della
“stessa robaccia”. Ora, a parte essere d’accordo o meno (lo scrivente
per esempio nutre più di una perplessità) è evidente da subito come il
volume in esame non possa - saggiamente - nutrire fra le sue ambizioni
quella di coprire l’affaire A.W. in un’interpretazione
definitiva. Intanto, con Warhol si tocca un centro nevralgico della
cultura pop dalla quale nessuno può dirsi abbastanza affrancato da
chiudere i conti per sempre. Come scrisse Baudrillard, “è estremamente
difficile parlare di A.W. perché in fondo non c’è niente da dire”. Se
la sua “opera” resta un enigma, l’editoriale dichiara subito il suo
punto di vista secondo il quale l’icona pop resta limitata e non
esaustiva. Nel volume così si mira a sottrarre l’americano alla mera
immagine di artista (ma la parentesi, verrebbe da dire, “sorge
spontanea”: che significa l’espressione “artista” trattandosi di uno
come lui?) “scanzonato e facile, di grafico e pubblicitario alla caccia
del successo ad ogni costo”. Distribuendo i pesi in maniera diversa;
tenendo conto del tema della morte, per esempio, dei suoi film non
proprio convenzionali, del personaggio che d'altronde pare un segno
artistico in sé. Del suo lavoro e dei linguaggi frequentati, intraprese
che hanno in un modo o nell’altro riguardato pittura, fotografia,
installazioni, cinema, musica (certe storiche copertine underground sono
a loro modo dei classici del ‘900), letteratura, si affrontano vari
aspetti. Alcune
di queste letture hanno fatto storia: quella di Maurizio Fagiolo
dell’Arco, del 1968, (“il lavoro di W. è una discesa agli Inferi che
dura una eternità”, un artista a suo dire che fa tabula rasa dei
significati del mondo, che ne sconfessa ogni principio razionale);
l’esercizio critico sul versante cinematografico di Aprà
e Ungaro; una breve ma smisuratamente acuta presentazione di Pasolini
per una mostra tenutasi a Ferrara nel ’74, secondo cui in Warhol “la
rappresentazione del mondo esclude ogni possibilità dialettica” fatta
com’è di “incredibile innocenza”.
Lo
scrittore Mario Fortunato sostiene che “noi europei pensiamo
fatuamente” che se l’ispirazione di Warhol si gioca sul nesso
arte-consumo il termine privilegiato sia il secondo. Non ne sono
sicuro, ma non appare facile mettere la parola fine all’ermeneusi di
questo “Walt Disney dell’era amfetaminica” (Ballare), di questo “idiot savant della nostra epoca (Hal Foster nel ’96). L’artista
della superficie - “non c’è niente dietro”, dice egli stesso, il che
se potrebbe risultare un ottimo viatico per chiuderne la pratica una
volta per tutte sembra invece funzionare come macchina generatrice di
interpretazioni, al punto da renderci perplessi non sulla fine
dell’umanesimo che sarebbe adombrata dalla sua esperienza ma dalla
stessa umanità dell’uomo - l’artista del cibo in scatola scrive
in un frammento di diario dell’agosto 79 che in un McDonald’s ha
mangiato un sandwich di carne e cipolla e “sapeva di cartone, e l”unica
cosa buona erano le cipolle: erano vere, e tutto il resto era fasullo”.
Confortante, no?