17 gen 2013

RIGA - andy warhol


Il numero 33 della collana “Riga”, pubblicazione semestrale dell’editore Marcos Y Marcos, è dedicato a Andy Warhol. La cura è di Elio Grazioli; i contributi portano i nomi (sono molti e ne ricordo solo alcuni) di G. Ballard, J. Baudrillard, A.C. Danto, A. Arbasino Pier Paolo Pasolini, Andrea Mecacci. Prima di questi scritti, troviamo diverse interviste e un estratto di “A. Un romanzo”, dello stesso Warhol. Che - diceva a Nancy Blake nel luglio del 1977 - non poteva fare a meno del lavoro. Perché se anche non ci piace qualcosa “dobbiamo farlo lo stesso”. Perché il lavoro “impedisce di pensare ad altro”. In una pagina di diario scrive, ancora: “In fondo, cos’è la vita? Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che tenerti occupato”.  
Non solo horror vacui. Se da una parte, gli oggetti di un’esposizione non prescindono dal contesto, e trasformano per esempio una mostra (ancor meglio, una installazione, un’ambientazione) in uno “spazio sociale” (Mark Francis), in questo modo azzerando la linea di demarcazione fra contenente e contenuto, dall'altra, traslando il concetto dal tempo (che è tempo occupato - Warhol sostiene di essere spinto all’attività da un’etica protestante) allo spazio è interessante ricordare come il nostro preferisca i vuoti (“se cadesse una bomba sarebbe carino”...). Nella medesima intervista, alla domanda sulla differenza eventuale fra le opere di quegli anni e quelle precedenti, risponde che si tratta della “stessa robaccia”. Ora, a parte essere d’accordo o meno (lo scrivente per esempio nutre più di una perplessità) è evidente da subito come il volume in esame non possa - saggiamente - nutrire fra le sue ambizioni quella di coprire l’affaire A.W. in un’interpretazione definitiva. Intanto, con Warhol si tocca un centro nevralgico della cultura pop dalla quale nessuno può dirsi abbastanza affrancato da chiudere i conti per sempre. Come scrisse Baudrillard, “è estremamente difficile parlare di A.W. perché in fondo non c’è niente da dire”.  Se la sua “opera” resta un enigma, l’editoriale dichiara subito il suo punto di vista secondo il quale l’icona pop resta limitata e non esaustiva. Nel volume così si mira a sottrarre l’americano alla mera immagine di artista (ma la parentesi, verrebbe da dire, “sorge spontanea”: che significa l’espressione “artista” trattandosi di uno come lui?) “scanzonato e facile, di grafico e pubblicitario alla caccia del successo ad ogni costo”. Distribuendo i pesi in maniera diversa; tenendo conto del tema della morte, per esempio, dei suoi film non proprio convenzionali, del personaggio che d'altronde pare un segno artistico in sé. Del suo lavoro e dei linguaggi frequentati, intraprese che hanno in un modo o nell’altro riguardato pittura, fotografia, installazioni, cinema, musica (certe storiche copertine underground sono a loro modo dei classici del ‘900), letteratura, si affrontano vari aspetti. Alcune di queste letture hanno fatto storia: quella di Maurizio Fagiolo dell’Arco, del 1968, (“il lavoro di W. è una discesa agli Inferi che dura una eternità”, un artista a suo dire che fa tabula rasa dei significati del mondo, che ne sconfessa ogni principio razionale); l’esercizio critico sul versante cinematografico di Aprà e Ungaro; una breve ma smisuratamente acuta presentazione di Pasolini per una mostra tenutasi a Ferrara nel ’74, secondo cui in Warhol “la rappresentazione del mondo esclude ogni possibilità dialettica” fatta com’è di “incredibile innocenza”. 
Lo scrittore Mario Fortunato sostiene che “noi europei pensiamo fatuamente” che se l’ispirazione di Warhol si gioca sul nesso arte-consumo il termine privilegiato sia il secondo.  Non ne sono sicuro, ma non appare facile mettere la parola fine all’ermeneusi di questo “Walt Disney dell’era amfetaminica” (Ballare), di questo “idiot savant della nostra epoca (Hal Foster nel ’96). L’artista della superficie  - “non c’è niente dietro”, dice egli stesso, il che se potrebbe risultare un ottimo viatico per chiuderne la pratica una volta per tutte sembra invece funzionare come macchina generatrice di interpretazioni, al punto da renderci perplessi non sulla fine dell’umanesimo che sarebbe adombrata dalla sua esperienza ma dalla stessa umanità dell’uomo -  l’artista del cibo in scatola scrive in un frammento di diario dell’agosto 79 che in un McDonald’s ha mangiato un sandwich di carne e cipolla e “sapeva di cartone, e l”unica cosa buona erano le cipolle: erano vere, e tutto il resto era fasullo”. Confortante, no?

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