su flaneri
Qual è il compromesso di cui si parla in questo romanzo fondamentale del ’900 americano, e fondamentale nel senso che può essere letto da chiunque di noi – ben fuori i confini americani – come qualcosa che ci riguarda da vicino?
Il compromesso in realtà – e sul mero piano dei fatti – è duplice. Il
primo è banale: fra una moglie devota e un’amante che ti manda fuori di
testa. L’altro lo è un po’ meno se preso alla lettera dei due mestieri
in ballo, ma in fondo abbastanza diffuso se visto nel suo significato
generale: professione di pubblicitario che vende menzogne da una parte e
giornalista duro e puro che si scaglia contro l’ipocrisia del mondo
borghese che è l’orizzonte poco immaginifico di quella pubblicità
dall’altra.
Elia Kazan quanto a doppiezza non aveva forse molto da imparare da
nessuno. Le sue vicende sono note ma questo non dovrebbe impedirci di
sostare davanti a un’opera, sia un romanzo o un film, e leggerla per
quel che vale.
Dirò subito allora della stranezza di questo libro. Il compromesso (Mattioli,
2012) raggiunge in certi momenti una cupa profondità da romanzo russo,
fa un viaggio vertiginoso nella grammatica minima di un uomo,
grammatica morale e affettiva fatta di pulsioni incontrollabili e totale
irresponsabilità verso gli effetti delle proprie azioni. Ma se i
dialoghi sono eccellenti, la prosa si avvale spesso di immagini kitsch.
La scrittura di Kazan è elementare, a volte sconcerta specie se
consideriamo che era un uomo di cinema, più abituato di molti scrittori
magari geniali facitori di frasi ma narrativamente pigri o
disinteressati all’azione; e invece stupiscono certi passaggi
fallimentari, specie nelle scene di sesso (affare centrale nel romanzo)
il cui climax si risolve in illeggibili frasi smielate. Che riferiscono e
non mostrano. In un romanzo in cui anche il pensiero è azione, e in
cui, come in Pavese, vien detto che l’organo sessuale maschile è quanto
di più onesto esista in natura visto che non può mentire (non c’era il
Viagra), ci troviamo di fronte atti sessuali, in cui i protagonisti si
«ritrovano in paradiso»: e morta lì. Succede in tutto il libro.
Resta che Kazan scrisse un romanzo di ammirevole forza, capace di
andare al fondo di una vita umana per mostrarne tutta la miseria e
meschinità; una vita in cui anche l’eventuale successo (amoroso,
professionale, economico) a un certo punto appare solo uno spettacolo
per renderla tollerabile. Il narratore lo sa: «Il successo dovrebbe
fornire una certa difesa contro gli spettri o l’inconscio o qualunque
altra cosa fosse. È il minimo che ci si, dovrebbe aspettare dal
successo. O dal denaro. E invece non è così, per nessuno dei due».
Se per Henry Miller «c’è un uomo qui dentro», aggiungerei che c’è in
una maniera talmente intima che a tratti è quasi intollerabile («Non
scrivo per divertire, ma per disturbare» dice il regista del Fronte del
porto: e si può dire che vi riesca assai bene). C’è al fondo una
debolezza catastrofica in quest’uomo abituato a usare gli altri per
raggiungere i propri scopi che deriva da una legge difficilmente
revocabile: l’essere determinati dalle nostre stesse azioni.
L’impossibilità di sfuggire alle trappole che noi stessi ci costruiamo
per sfuggire ad altre gabbie.
Dura da accettare, ma c’è molta più verità ne Il compromesso della spia Elia Kazan, collaboratore della peggiore America reazionaria, che nel sogno on the road
di alcuni scrittori che ci metterebbero più a nostro agio. Uno così
magari non era uomo di cui l’umanità possa andar fiera; è probabile (è
di sé che parla Kazan, inutile aggiungerlo). Ma l’artista, solo un uomo –
un lettore – disonesto potrebbe non riconoscerlo. A questi tempi di
feroce potenza del denaro i più credono di poter opporre la melassa
sentimentale delle buone intenzioni – ma l’arte è un’altra cosa.
Lasciate perdere la commissione McCarthy e leggete questo romanzo, con
tutti i suoi difetti. E ditemi se non è molto più duro e sincero non
solo di Kerouac, ma del 99% di autofiction prodotta in Europa e nelle
Americhe in questi anni.